Saturday, 9 March 2019

Che cosa significa veramente "critica"? Tommaso Redolfi Riva su Marx

Da Consecutio Rerum, n. 5, 2018


A partire dal sottotitolo del Capitale: Critica e metodo della critica dell’economia politica

Tommaso Redolfi Riva*

redolfiriva77@yahoo.it



Abstract: The aim of the paper is to explain the concept of «critique of political economy» (CPE) in Marx’s mature work. Starting from the different meanings CPE assumes, I will try to explain the peculiarities of such a critical project. In particular, I will focus the attention on CPE as a critique of capital as objective-subjective totality: on the one side, as a system of social production whose aim is the valorisation of capital, based on the appropriation of unpaid labour and generating a system of socialisation of production increasingly becoming autonomous from the social agents which establish it; on the other side, as the place of constitution of the categories of political economy, whose defect cannot only be brought back to the methodological lack of the economists because such categories, as a part of the capitalistic reality itself, are products of capitalistic social relationships. What emerges from this perspective is that CPE, as the presentation of the system of capitalistic relationships, is the critique of a specific science put forth by means of the critique of its own specific object.

Keywords: Marx; critique of political economy; method of the critique; theory of value; fetishism


«Il metodo della dialettica,
che cerca di andare al di là della prospettiva specialistica
e circoscritta della logica e dell’epistemologia,
consisterebbe nel non accontentarsi della semplice individuazione
del punto che richiede di essere criticato e poi affermare:
‘Guarda, qui c’è un errore nel ragionamento, sei caduto in contraddizione –
quindi tutta la cosa non vale nulla’, bensì […]
nell’indicare perché, nella costellazione di questo pensiero,
certi errori e certe contraddizioni sono inevitabili,
che cosa li ha generati nel movimento di tale pensiero e
in che senso quindi essi si mostrano significativi,
nella loro falsità e contraddittorietà, nella totalità del pensiero».
(Adorno 2010, 222-3)


1. Introduzione

Le categorie dell’economia politica rappresentano per Marx il luogo di accesso privilegiato alla realtà del modo di produzione capitalistico, non soltanto in quanto momenti di una teoria che rappresenta «il tentativo di penetrare nell’intima fisiologia della società borghese», ma anche in quanto esse sono una prima «nomenclatura» dei fenomeni «economici» che sono così riprodotti nel «processo di pensiero» (Marx 1993b, 168-169). Se è vero che l’oggetto della teoria di Marx è il modo di produzione capitalistico, l’accesso a tale oggetto passa necessariamente attraverso la mediazione concettuale (cfr. Schmidt 2017 e Fineschi 2006, in particolare 131-136). L’economia politica rappresenta proprio questa mediazione concettuale ed è per questo che il confronto con gli economisti assume una tale centralità nell’opera marxiana. Tuttavia, il rapporto che Marx sviluppa con le categorie dell’economia politica è eminentemente critico. In primo luogo, la critica delle categorie economiche si presenta come il ricondurre le elaborazioni teoriche degli economisti alle condizioni storiche dell’accumulazione capitalistica, mostrando lo sviluppo delle idee nella sua stretta connessione con lo sviluppo reale del modo di produzione: in questo modo Marx riconduce le riflessioni teoriche al «nocciolo terreno» da cui si dipartono. Ma questo ricondurre il condizionato alla condizione, seppur imprescindibile, è ancora soltanto generico: poiché «l’unico metodo materialistico» consiste nello «sviluppare dai rapporti di vita di volta in volta effettivi le loro forme trasposte in cielo» (Marx 2011, 407), la critica dell’economia politica quale «critica delle categorie economiche» (Marx e Engels 1973, 577-578) deve essere in grado di pensare le categorie come «modi d’essere, determinazioni d’esistenza» della «moderna società borghese» (Marx 1997a, 34), deve essere, quindi, critica del sapere dell’economia che si costituisce a partire dall’esposizione dell’oggetto di questo sapere, e, da esso, desumere le categorie come momenti della totalità capitalistica stessa. In questo modo l’insufficienza teorica della riflessione dell’economia politica non è più generica, è bensì un portato specifico dell’oggetto stesso a cui l’economia politica si applica.


2. Le condizioni di possibilità dell’economia politica come sapere autonomo

Per comprendere analiticamente il modo di procedere della critica è necessario, in un primo momento, riferirsi all’oggetto della critica e chiedersi perché per Marx sia necessario, per comprendere la forma di moto della società moderna, rivolgersi all’economia politica. Si tratta cioè di dare profondità concettuale all’asserzione marxiana, presente nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, secondo cui «l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica» (Marx 1979, 4).
Una prima approssimazione al concetto di «critica dell’economia politica» può essere raggiunta a partire dalla comprensione delle condizioni di possibilità dell’economia politica quale sapere autonomo. In questo senso, per Marx, riflettere sulla costituzione dell’economia politica come sfera separata del sapere della società non è semplicemente il pensare la storia e lo sviluppo della scienza sociale, dal quale facilmente si conviene che sin dall’antichità esiste un sapere che si occupa della sfera della produzione e riproduzione degli uomini in società, che poi giunge alla propria classicità con l’economia politica. Per Marx, il costituirsi dell’economia politica quale sapere autonomo significa – materialisticamente – riflettere su come si sia determinato, nella realtà effettuale, un segmento isolabile al quale ci riferiamo come sfera dei rapporti economici. La storicità del sapere dell’economia, il suo sorgere come sapere autonomo, come il sapere della società moderna, deve essere quindi ricondotto al presentarsi dei rapporti materiali di esistenza come sfera autonoma della società. La scienza che deve indagare le origini e le cause della ricchezza può nascere soltanto nel momento in cui la produzione della ricchezza, la sfera dei «rapporti materiali di esistenza», si sgancia dai vincoli politici e etici che caratterizzano le forme economiche precapitalistiche. L’economia politica come scienza può, quindi, nascere solo laddove il suo oggetto ha assunto una sua discretezza e una sua specifica autonomia[1].
Da questa prospettiva, il significato dell’espressione «l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica» assume un significato più preciso, che non rinvia ad una generica e transtoricamente applicabile «concezione materialistica della storia (Die materialistische Anschauung der Geschichte)» (Engels 1974, 256) – che proprio in quella Anschauung lascia presagire un procedere tutto spostato sul lato del soggetto che discerne, distingue e sceglie nella enorme congerie dei fenomeni sociali –, tanto meno rimanda alla costruzione di un canone storiografico – come nella nota interpretazione critica di Croce (1921, 79). L’espressione allude, invece, al costituirsi autonomo di una sezione della realtà: quella dei «rapporti materiali dell’esistenza», di cui l’economia politica si presenta quale sapere.
Tuttavia, per Marx, questa autonomizzazione non implica che i rapporti materiali di esistenza siano compresi al di fuori di una dimensione statuale oppure al di fuori di una dimensione politica o giuridica, quanto che, nel modo di produzione che caratterizza la società moderna, la determinazione dei rapporti di proprietà e di distribuzione, nonché l’allocazione del lavoro sociale, ha luogo al di fuori della sfera della deliberazione politica e all’interno di un sistema di processi di produzione privati, autonomi e indipendenti l’uno dall’altro, che non riceve coordinazione alcuna che non sia quella che scaturisce da un sistema di scambi di merci prodotte privatamente[2].
In questo orizzonte, le pagine del Manoscritto 1857-1858 sulle «forme che precedono la produzione capitalistica» si mostrano un luogo privilegiato di accesso al problema. Per Marx, è necessario delineare i presupposti sui quali si fonda il rapporto sociale capitalistico e comprendere la sua differentia specifica rispetto alle forme economiche che lo precedono[3].
La produzione, nelle epoche che precedono il modo di produzione capitalistico, non è mai un segmento discreto rispetto agli altri momenti che caratterizzano i rapporti tra gli uomini. La produzione ha come finalità la riproduzione della comunità, che precede e veicola la produzione stessa. È la comunità che, fuori e prima della produzione, determina i rapporti di proprietà, la distribuzione delle risorse, l’allocazione del lavoro.
Prescindendo da come viene caratterizzata caso per caso la relazione tra produzione, rapporti materiali di esistenza, e totalità sociale, per Marx, nelle forme di produzione precapitalistiche lo scopo della produzione risiede fuori dalla, e prima della, produzione stessa. Meglio: la produzione è sempre produzione per uno scopo sociale che la precede. Alla produzione è presupposta una condizione sociale e politica che essa deve riprodurre: la produzione è mezzo di un fine che le sta alle spalle. Nelle forme che precedono il modo di produzione capitalistico, infatti, «lo scopo economico è la produzione di valori d’uso, la riproduzione dell’individuo nei rapporti determinati con la sua comunità, nei quali esso rappresenta la base della comunità stessa» (Marx 1997b, 108).
Posto che la produzione è mezzo per un fine che la precede e la veicola, un’analisi della sfera economica come sfera separata dalle altre sfere sociali non trova realtà storica documentata. L’economia politica come sapere della società non esiste né può esistere come sapere separato:
Presso gli antichi non troviamo mai un’indagine su quale forma di proprietà fondiaria, ecc., crei la ricchezza più produttiva, la massima ricchezza. La ricchezza non si presenta come scopo della produzione. […] L’indagine è sempre volta a stabilire quale forma di proprietà crei migliori cittadini. La ricchezza come fine a se stessa si ritrova solo tra i pochi popoli commerciali […] che vivono nei pori della società medievale. (Marx 1997b, 112)
Solo laddove la valorizzazione del capitale diviene l’impulso fondamentale del processo di produzione e riproduzione, l’economia politica si costituisce come sapere indipendente:
L’economia politica, che prende piede come scienza autonoma solo nel periodo manifatturiero, considera la divisione sociale del lavoro, in genere solo dal punto di vista della divisione del lavoro di tipo manifatturiero come mezzo per produrre più merce con lo stesso quantum di lavoro e quindi per ridurre le merci più a buon mercato e accelerare l’accumulazione del capitale. In opposizione stringente a questa accentuazione della quantità e del valore di scambio, gli scrittori dell’antichità classica si tengono esclusivamente alla qualità e al valore d’uso. (Marx 2011, 402)
Nella produzione capitalistica lo scopo non risiede al di fuori della produzione materiale, nella riproduzione della società o di una configurazione sociale che precede l’atto produttivo. Scopo della produzione è la ricchezza nella sua forma astratta, denaro, produzione di più denaro rispetto a quello anticipato: D-M-D’. Per dirla con le parole di Marx: «impulso movente e scopo determinante del processo di produzione capitalistico è in primo luogo la maggiore autovalorizzazione possibile del capitale, cioè la maggiore produzione possibile di plusvalore» (Marx 2011, 363).
L’economia politica può determinarsi come sapere autonomo solo nel momento in cui i rapporti materiali di esistenza si rendono autonomi, quando lo scopo della produzione è la produzione stessa, quando cioè il processo di produzione è processo di valorizzazione. Solo perché la produzione capitalistica è produzione di plusvalore, e in quanto tale non ha altro «impulso movente e scopo determinante» al di fuori della valorizzazione stessa, essa è ab-soluta e quindi autonoma.


3. Critica del modo di produzione capitalistico juxta propria principia

A partire dalla produzione capitalistica come produzione di plusvalore è possibile comprendere una seconda determinazione che assume il concetto di «critica dell’economia politica». Ciò che per Marx caratterizza la produzione capitalistica è la forma specifica che il lavoro assume in quanto lavoro salariato:
Il fatto che il lavoratore trovi già le condizioni oggettive del lavoro come separate da lui, come capitale, e il capitalista trovi già l’operaio privo di proprietà, come lavoratore astratto […] presuppone un processo storico […] che costituisce la storia genetica del capitale e del lavoro salariato. (Marx 1997b, 113)
Tale genesi storica dei rapporti sociali è nello stesso tempo «genesi storica dell’economia borghese, delle forme di produzione che sono espresse teoreticamente o idealmente dalle categorie dell’economia politica» (Marx 1997b, 114).
La genesi storica dell’economia politica quale sapere separato, che può studiare i rapporti materiali di esistenza nella loro purezza, nel loro costituirsi quale sfera autonoma, ha come presupposto la genesi storica del modo di produzione capitalistico, che Marx individua nella polarizzazione tra le condizioni soggettive e le condizioni oggettive della produzione: «ciò che [dunque] caratterizza l’epoca capitalistica è che la forza-lavoro riceve per lo stesso lavoratore la forma di una merce che gli appartiene, quindi il suo lavoro riceve la forma di lavoro salariato. D’altro lato, la forma di merce del prodotto del lavoro si universalizza solo da questo momento» (Marx 2011, 187 n.).
È proprio a partire dalla produzione capitalistica quale fase determinata della produzione dell’umanità nella natura e dal lavoro salariato come forma storica specifica di esistenza delle condizioni soggettive della produzione, che Marx riesce a comprendere ed esporre il processo di produzione quale processo di valorizzazione e a risolvere il problema fondamentale a cui l’economia politica non era stata in grado di dare risposta: come fosse possibile, a partire dallo scambio di equivalenti sul mercato, la formazione di un profitto. Messa in discussione la teoria preclassica del profit upon alienation, cioè del profitto che proviene da uno scambio tra merci nel quale si scambia più valore contro meno valore, con Ricardo l’economia politica classica era giunta a legare il profitto alla grandezza del capitale anticipato, ma non era riuscita a legare tale proporzionalità alla legge del valore – anzi, tale mancanza di relazione era diventato il limite che metteva in discussione il sistema di Ricardo e la sua legge del valore.
Posto che le condizioni oggettive (mezzi di produzione) e le condizioni soggettive (lavoratore) della produzione sono strutturalmente separate, il processo produttivo, che presuppone l’unione di tali condizioni, può attuarsi solo attraverso uno scambio tra il possessore di capitale e il lavoratore. Il rapporto di scambio non è tra capitale e lavoro, come invece è concepito dall’economia politica, poiché il lavoro esiste solo in potenza nel lavoratore (non potendo egli esercitare la sua capacità lavorativa su alcun mezzo di produzione). Il rapporto di scambio si determina tra capitale e forza-lavoro, ovvero tra capitale e capacità lavorativa. Un tale scambio è riconducibile allo scambio di equivalenti, dato che il salario che il lavoratore riceve è proporzionale alla quantità di lavoro necessaria alla riproduzione del lavoratore stesso. Tuttavia, è solo attraverso l’uso da parte del capitale della merce forza-lavoro acquistata che si determina la formazione del plusvalore: il capitale acquista la merce forza-lavoro al suo valore, ma la fa lavorare un numero di ore maggiore rispetto alle ore necessarie alla riproduzione del salario.
Solo l’ingresso nel «laboratorio segreto della produzione» permette a Marx di comprendere la formazione del plusvalore e, nello stesso tempo, di sviluppare una critica immanente delle leggi che sorreggono la circolazione delle merci. In questo senso, la critica dell’economia politica è critica del sistema capitalistico e della sua autorappresentazione come «Eden dei diritti innati», luogo di vigenza di «libertà, uguaglianza, proprietà» (Marx 2011, 193). L’equivalenza che caratterizza lo scambio tra le merci sul mercato capitalistico è sorretta dalla produzione di plusvalore, dall’appropriazione da parte del capitale del pluslavoro erogato dalla forza-lavoro oltre il lavoro necessario alla riproduzione del lavoratore stesso: «dalla parte del capitalista, la proprietà si manifesta come il diritto di appropriarsi di lavoro altrui non retribuito, ossia del prodotto di esso, e, dalla parte del lavoratore, come impossibilità di appropriarsi del proprio prodotto. La separazione fra proprietà e lavoro diventa conseguenza di una legge che parventemente partiva dalla loro identità» (Marx 2011, 647-648).
È, quindi, in base ai principi stessi su cui si fonda lo scambio che il modo di produzione capitalistico diviene oggetto di critica: la circolazione mostra il proprietario dei mezzi di produzione e il proprietario della forza-lavoro come persone libere ed eguali. Il loro scambio ha la forma di uno scambio di equivalenti, ma, dal punto di vista della produzione, esso non è che appropriazione di pluslavoro erogato dalla forza-lavoro oltre il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro stessa[4]. L’equivalenza è, perciò, soltanto parvente e la critica dell’economia politica diviene autocritica, cioè critica del modo di produzione capitalistico juxta propria principia[5].


4. Critica dell’assolutizzazione dei rapporti sociali capitalistici

Come abbiamo visto, la modernità capitalistica è il terreno nel quale sorge e solo può sorgere l’economia politica quale sapere autonomo. Essa si determina, per Marx, come scienza della società civile nel duplice senso del genitivo soggettivo e oggettivo: da un lato, quale scienza che studia il modo di produzione capitalistico, dall’altro, quale scienza che è prodotto del modo di produzione capitalistico ed è, quindi, incapace di sollevarsi al di sopra del suo punto di vista[6]. In quest’ottica possiamo intendere la critica dell’economia politica come critica dell’assolutizzazione e della naturalizzazione dei rapporti sociali capitalistici.
L’analisi di Marx non sta a parte subiecti: come la comprensione del costituirsi dell’economia politica quale scienza autonoma non trova risposta nell’analisi storiografica della scienza sociale e del suo sviluppo diacronico, così, la mancanza di storicità dell’economia non è un errore del sapere dell’economia politica. Per Marx, l’insufficiente elaborazione concettuale dell’economia politica è, piuttosto, il portato dell’oggetto a cui essa si rivolge e può essere spiegato soltanto attraverso l’esposizione di tale oggetto.
L’autonomizzazione dei rapporti materiali di esistenza, della sfera economica, si rende esplicita nel momento in cui riflettiamo sul fatto che gli oggetti che ci circondano appaiono predicabili di una proprietà sovrasensibile – il valore – e che in base a questa proprietà essi sono scambiati, comperati e venduti. Il valore è la dimensione costitutiva della scienza economica[7]. Così come la fisica fronteggia corpi che hanno massa, l’economia politica fronteggia merci, oggetti che hanno valore: essa concepisce il valore come una dimensione naturale, costitutiva del rapporto che si istituisce tra gli uomini e gli oggetti. Questo vale sia per l’economia politica classica che per l’economia marginalistica.
L’economia classica concentra l’attenzione sul momento produttivo: il valore di un oggetto è determinato dalla quantità di lavoro erogato nella sua produzione. Nelle «robinsonate» di Smith e di Ricardo troviamo infatti il cacciatore e il pescatore primigeni che si scambiano i loro prodotti quali valori e lo scambio avviene in proporzione al tempo di lavoro oggettivato in questi oggetti. Per l’economia classica gli oggetti sono valori proprio in quanto sono concrezioni di lavoro, a prescindere dalla forma sociale del lavoro, a prescindere dalla forma sociale specifica nella quale sono prodotti.
L’economia marginalista concentra, invece, l’attenzione sul momento del consumo e il valore dell’oggetto è determinato dall’utilità marginale. Il valore è costitutivo del rapporto tra uomo e cosa al punto che essa si autorappresenta – con Robbins, nel famoso saggio sulla natura e il significato della scienza economica (Robbins 1953) – come la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi. Tuttavia, ciò che trascende completamente la riflessione teorica dell’economia politica come scienza è la forma di valore stessa: il valore come dimensione e non come grandezza.
Quando l’economia si trova di fronte alla spiegazione dello scambio di due oggetti, essa cerca di ricondurre la proporzione in cui essi si scambiano ad una variabile esterna rispetto allo scambio stesso, quella che potremmo definire variabile indipendente e che dovrebbe essere in grado di dare ragione della proporzione[8] – nel caso dell’economia classica il lavoro oggettivato nel prodotto e nel caso dell’economia marginalista l’utilità al margine nel consumo. Essa, tuttavia, non si accorge del fatto che in primo luogo gli oggetti devono essere valori, devono cioè essere predicabili di una proprietà che non li caratterizza nella loro oggettualità materiale e che, invece, è una proprietà sovrasensibile. Ciò che rimane al di fuori del discorso teorico dell’economia è proprio la forma di valore.
Pensare la forma di valore significa pensare le condizioni di possibilità in base alle quali un oggetto sia predicabile di una qualità sovrasensibile: il valore. Ciò comporta concepire la forma merce, la forma che la ricchezza assume nelle società in cui domina il modo di produzione capitalistico, come il portato di una forma specifica di organizzazione della produzione nella società.
Per Marx, la forma di merce può universalizzarsi solo laddove anche la forza-lavoro riceve tale forma e il lavoro diviene lavoro salariato, la produzione capitalistica è quindi produzione di merci in quanto presuppone una specifica forma di organizzazione dell’erogazione e della socializzazione del lavoro. Quando Marx parla di merce, egli non parla immediatamente di un oggetto, di un prodotto del lavoro; parla di un prodotto che è esito di una forma particolare di organizzazione del lavoro della società:
Oggetti d’uso divengono, in genere, merci, perché sono prodotti di lavori privati condotti indipendentemente gli uni dagli altri. Il complesso di questi lavori costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale solo attraverso lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori si manifestano fenomenicamente solo entro questo scambio. Ovvero: i lavori privati si attuano, di fatto, come anelli del lavoro sociale complessivo solo attraverso le relazioni in cui lo scambio traspone i prodotti del lavoro e, mediante essi, i produttori. (Marx 2011, 84)
Per poter pensare la merce è necessario pensare ad unità produttive separate, autonome l’una dall’altra, che producono in vista dello scambio. Il rapporto tra le varie unità produttive, tra le differenti erogazioni private di lavoro, tra i singoli processi di valorizzazione, è determinato dallo scambio delle merci tra loro. Non esiste un’organizzazione anteriore della produzione sociale. Il lavoro erogato nella produzione delle merci è un lavoro immediatamente privato che diviene lavoro sociale, quindi parte del lavoro sociale complessivo, solo attraverso lo scambio che si determina tra gli oggetti prodotti sul mercato. Una tale organizzazione della produzione e della socializzazione del lavoro è storicamente determinata: essa appartiene al modo di produzione capitalistico ma sono possibili altre forme di socializzazione[9].
Marx tratteggia diverse forme di socializzazione del lavoro in cui il prodotto del lavoro non assume la forma di merce[10]. La differenza fondamentale che caratterizza queste forme di socializzazione da quella capitalistica risiede proprio nel fatto che i prodotti hanno già un carattere sociale ex ante, nella produzione, mentre i lavori erogati, sebbene siano momenti della divisione sociale del lavoro, hanno una coordinazione anteriore alla circolazione che li rende immediatamente sociali.
Nel modo di produzione capitalistico, invece, la produzione è produzione di merci. Il rapporto sociale, che lega le unità produttive l’una all’altra e che determina la socializzazione del lavoro erogato nella produzione, si attua attraverso lo scambio delle merci prodotte. Meglio: attraverso un sistema di scambi tra merce e denaro, separati gli uni dagli altri. Non esiste, perciò, un’organizzazione dell’allocazione dei lavori precedente alla produzione: il lavoro si determina come lavoro sociale – cioè lavoro che la società valuta necessario alla propria riproduzione – solo quando la merce prodotta si scambia con denaro, quando il lavoro concreto erogato nella produzione di quella merce assume la forma di valore divenendo lavoro astratto. A differenza di quanto affermato dall’economia politica classica, la sostanza di valore non è il lavoro concreto erogato nella produzione, bensì il lavoro astratto, cioè il lavoro che attraverso lo scambio con denaro si conferma come parte del lavoro sociale complessivo.
La forma di valore che i prodotti del lavoro assumono è, quindi, il portato di quella forma particolare di organizzazione della produzione nella quale esiste un’universale dipendenza delle unità produttive, ma nella quale ogni unità produttiva eroga lavoro in modo indipendente dall’altra. Esiste, cioè, una divisione sociale del lavoro che è priva di coordinazione antecedente alla produzione stessa. L’assunzione della forma di valore da parte dell’oggetto prodotto, il fatto cioè che quell’oggetto prodotto sia venduto, è il modo nel quale il lavoro erogato nella produzione si dimostra socialmente necessario: è il modo nel quale il lavoro erogato da quella unità produttiva si pone in rapporto con le altre unità produttive.
L’economia, che concepisce il valore quale elemento costitutivo del rapporto (produttivo o di consumo) tra uomo e cosa, si rivela incapace di concepire la genesi del valore, cioè l’origine di quella specifica organizzazione della produzione il cui fine è la valorizzazione.


5. Le categorie dell’economia politica come momenti della realtà sociale

La riflessione di Marx non si limita alla constatazione dell’assolutizzazione del rapporto di capitale, egli procede ulteriormente e si chiede che cosa conduca l’economia politica a naturalizzare le forme specifiche in cui si attua la produzione capitalistica; perché l’economia politica sia vittima del carattere di feticcio della merce e dunque preda del feticismo; da dove sorga l’assolutizzazione delle forme specifiche del modo di produzione capitalistico. Per Marx, la naturalizzazione, l’assolutizzazione e il feticismo dell’economia politica dipendono direttamente dalla forma di cosa che il rapporto sociale assume: il feticismo dell’economia politica non è quindi solo errore metodologico della scienza. Lo scambio di cose che si determina sul mercato fa apparire i caratteri specifici della produzione capitalistica, la sua specifica forma di socializzazione del lavoro, come caratteri oggettuali dei prodotti del lavoro, una «proprietà sociale di natura di queste cose»:
[La forma di merce] riflette agli uomini, come in uno specchio, i caratteri sociali del lavoro come caratteri oggettuali dei prodotti stessi del lavoro, come proprietà sociali di natura di queste cose; dunque riflette anche il rapporto sociale dei produttori con il lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti che esiste al di fuori di loro. (Marx 2011, 83)
Il rapporto sociale che lega le unità produttive l’una all’altra si attua per mezzo di uno scambio di cose. Esso, cioè, assume una forma oggettuale che sta di fronte agli agenti sociali, ed è proprio in questa forma oggettuale che risiede l’eternizzazione compiuta dall’economia politica del modo di produzione capitalistico.
Il dislocamento del rapporto sociale tra le unità di produzione in un rapporto sociale tra oggetti è appunto «un rovesciamento e fa apparire [erscheinen lässt] i rapporti fra persone come proprietà di cose e come rapporti fra le persone e le proprietà sociali di queste cose» (Marx 1993c, 543). È, quindi, il carattere di feticcio della socializzazione capitalistica del lavoro che porta la riflessione economica al feticismo, alla naturalizzazione dei rapporti sociali capitalistici, al concepire come naturale la forma di valore che i prodotti del lavoro assumono[11].
In questo senso, la critica dell’economia politica è, da un lato, critica del feticismo, e dall’altro, deduzione di tale feticismo a partire dall’esposizione dell’oggetto a cui il sapere dell’economia si rivolge: il carattere di feticcio che assume la socializzazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico, il suo carattere oggettuale, è l’origine del feticismo dell’economia politica.


6. Critica dell’economia politica e critica del valore

Se riflettiamo ancora sulla teoria del valore e lasciamo da parte le feticizzazioni dell’economia politica, è possibile scorgere un ulteriore senso della critica marxiana. Una volta che il valore è, con Marx, compreso quale rapporto sociale è possibile sviluppare una critica dell’economia politica come critica del valore, cioè critica di un rapporto sociale di produzione che è istituito attraverso le azioni degli agenti sociali ma che si impone loro come una legge di natura a cui sono soggetti[12].
La legge del valore, quale rapporto fondamentale che regola la forma di moto della società capitalistica, non è fatta valere consapevolmente dagli scambianti[13] – come invece suggerisce l’idea smithiana del lavoro come pena e come sacrificio a cui spesso le esposizioni della teoria del valore, in ultima istanza, rimandano – è, bensì, un processo sovraindividuale che si attua obiettivamente rispetto alla coscienza degli scambianti e a cui ogni singolo agente sociale è soggetto. Ogni singolo capitalista, che ha come obiettivo la massima valorizzazione del proprio capitale, organizza il processo di produzione in base alla tecnica di cui dispone e alle informazioni relative alla domanda di quel prodotto. Determina, in questo modo, quanto lavoro concreto devono contenere le proprie merci. Tuttavia, quanto di quel lavoro erogato si confermi nella circolazione come lavoro astratto, lavoro socialmente necessario, quindi valore, egli non può saperlo prima della vendita della propria merce: se il lavoro concreto è presente alla considerazione cosciente del produttore, il lavoro astratto rinvia a un processo sovraindividuale che si attua nella circolazione e che si impone obiettivamente agli agenti economici come media che agisce dopo e indipendentemente dalla erogazione individuale.
La teoria marxiana, quindi, consiste nello «svolgere come la legge del valore si impone» (Marx e Engels 1975, 598), comprendere cioè quel processo obiettivo che si attua al di fuori della possibilità di controllo degli agenti sociali: in questo senso, la critica dell’economia politica rappresenta l’«anamnesi della genesi» dell’autonomizzazione dei rapporti sociali e rimanda alla necessità di una riappropriazione della forma di moto della società[14].


7. Conclusione

Il concetto di «critica dell’economia politica» che abbiamo cercato di enucleare permette di sviluppare alcune considerazioni relative al metodo della critica. Ciò che vale la pena sottolineare è la natura ancipite del metodo della critica marxiano. Se, da un lato, è critica delle categorie, quindi critica del sapere dell’economia politica, dell’elaborazione concettuale del modo di produzione capitalistico prodotta dalla scienza, essa è sempre critica di un sapere determinato che è tale perché è sapere di un oggetto determinato. La critica del sapere diviene perciò critica dell’oggetto del sapere e comprensione delle condizioni sociali oggettive che hanno originato quella forma specifica di sapere. Potremmo dire che la critica dell’economia politica è critica del capitale quale totalità oggettiva e soggettiva: da un lato, quale sistema della produzione come «scopo a se stessa» che si basa sull’appropriazione di lavoro non pagato e che dà vita a un sistema di socializzazione della produzione che si rende autonomo dagli agenti sociali che lo istituiscono; dall’altro, quale luogo di costituzione delle categorie dell’economia politica la cui inadeguatezza non è solo riconducibile alla mancanza di senso teorico degli economisti proprio perché le categorie sono riflesso, espressione e prodotto dei rapporti sociali capitalistici: esse sono un momento della realtà sociale stessa. Ed è proprio in quanto esse sono «forme di pensiero socialmente valide, dunque oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato» (Marx 2011, 87) che Marx può descrivere il proprio lavoro sia come «critica delle categorie economiche» che come «sistema dell’economia borghese esposto criticamente», cioè, «esposizione del sistema e critica dello stesso per mezzo dell’esposizione» (Marx e Engels 1973, 577-578).



Note

* Una prima versione di questo contributo è stata presentata nel giugno del 2017 al Corso di perfezionamento in Teoria critica della società dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ringrazio vivamente Vittorio Morfino e gli organizzatori per l’invito.
[1] Sul tema della «deduzione materialistica» dell’economia politica risulta imprescindibile la riflessione di Lorenzo Calabi (in particolare 1976b), a cui è propedeutica la recensione critica al volume Valore di Claudio Napoleoni svolta in Calabi (1976a).
[2] Come afferma Ellen Meiksins Wood: «il punto è spiegare come e in che senso il capitalismo abbia determinato una cesura tra l’economico e il politico – come e in che senso questioni essenzialmente politiche come il potere di controllare la produzione e l’appropriazione o l’allocazione del lavoro sociale e delle risorse, siano state rimosse dalla arena politica e dislocate in una sfera separata» (Meiksins Wood 2016, 20).
[3] È in questo senso, e non come primo tentativo di analisi storiografica dell’antichità, che le pagine delle Formen continuano ad essere significative. Su questo, con accenti e prospettive differenti, cfr. Cazzaniga (1981), Meiksins Wood (2008), Basso (2008).
[4] Su questo punto è molto interessante la riflessione sviluppata da Ellen Meiksins Wood. La studiosa mostra che nei modi di produzione precapitalistici l’appropriazione del prodotto del lavoro altrui si fonda sull’esercizio di un potere extraeconomico (militare, politico ecc.), mentre nel modo di produzione ciò che garantisce tale appropriazione è il rapporto stesso tra capitale e lavoro salariato, il quale, solo dal lato della forma, si presenta come un contratto tra persone libere ed eguali. Tale contratto, nel riprodurre da un lato il lavoratore libero (in quanto persona e in quanto privo dei mezzi su cui poter esercitare la propria forza-lavoro) e dall’altro il detentore dei mezzi di produzione, riproduce il rapporto stesso di capitale. Nel modo di produzione capitalistico non è dunque possibile pensare il processo di produzione come mero momento tecnico: esso, fin dall’inizio, si costituisce quale rapporto sociale, nella cui attuazione concorrono elementi politici e giuridici. L’aspetto politico del rapporto di produzione non può essere, quindi, considerato momento accessorio o sovrastrutturale posto che «la ‘sfera’ della produzione è dominante non nel senso che è separata o che precede queste forme giuridico-politiche, ma piuttosto nel senso che queste forme sono proprio forme della produzione, gli attributi di un particolate sistema di produzione» (Meiksins Wood 2016, 27).
[5] È proprio a questa critica immanente che si riferisce Adorno quando afferma che lo scopo della teoria critica è quello di «misurare ‘ciò che è’ [der Fall ist] nella società, come l’avrebbe messa Wittgenstein, con ciò che la società afferma di essere [was es zu sein beansprucht], in modo da scoprire in questa contraddizione il potenziale, le possibilità per cambiare l’intera costituzione della società» (Adorno 2003, 31), «chiedere se la società è conforme alle proprie regole, se la società funziona in base alle leggi che essa afferma essere le proprie» (Adorno 1997, 506). Per Adorno il modello di una tale critica della società rimane la critica dell’economia politica di Marx, la quale appunto «procede a dedurre, dallo scambio e dalla forma di merce e dalla loro contraddizione immanente, ‘logica’, quel tutto di cui deve essere criticato il diritto all’esistenza. L’affermazione dell’equivalenza di ciò che viene scambiato, base di ogni scambio, è sconfessata dalle sue conseguenze. In quanto il principio di scambio si estende, in forza della sua dinamica immanente, al lavoro vivente degli uomini, esso si inverte necessariamente, nell’ineguaglianza oggettiva, quella delle classi. Esprimendo in modo pregnante la contraddizione: nello scambio tutto è in ordine, eppure gatta ci cova» (Adorno 1972, 36).
[6] Questa duplicità dell’economia politica si riscontra già in Hegel nella nota al paragrafo 189 dei Lineamenti di filosofia del diritto: «è questa una delle scienze che sono sorte nell’età moderna come il loro terreno. Il suo sviluppo mostra lo spettacolo interessante di come il pensiero (v. Smith, Say, Ricardo) movendo dall’infinita moltitudine di fatti singoli, che si trovano dapprima davanti ad esso, rintraccia i princìpi semplici della cosa, l’intelletto che è attivo in essa e che le governa» (Hegel 1999, 160). Ciò che per Hegel l’economia è in grado di cogliere, riportando la molteplicità dei fatti singoli all’unità della legge, è «l’intelletto della cosa», ovvero le determinazioni fisse di ciò che è presupposto all’analisi, di ciò che è oggetto, di ciò che è dato. E proprio l’assolutizzazione del dato e dell’oggetto, l’impossibilità di ricostruirne la genesi a partire dalla specificità dei rapporti sociali, costringe l’economia politica al ruolo di intelletto del sistema dei bisogni.
[7] Su questo è di fondamentale importanza la riflessione di Hans-Georg Backhaus, in particolare il saggio Il ‘rivoluzionamento’ e la ‘critica’ dell’economia compiuti da Marx: la determinazione del loro oggetto come totalità di forme impazzite presente in Backhaus (2016).
[8] Cfr. Dobb (1972), in particolare il capitolo «I requisiti di una teoria del valore».
[9] Sulla specificità della socializzazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico Cfr. Fineschi (2001, 48-66), Heinrich (1999, 196-251 e 2017). Merita attenzione lo sforzo compiuto da Riccardo Bellofiore (2017) di far interagire la socializzazione ex-post, che egli chiama «validazione monetaria finale», con il «lavoro immediatamente socializzato» di cui parla Marx nel capitolo sul Macchinario e grande industria, mostrando le diverse torsioni che la categoria di «lavoro sociale» assume nella sistematica marxiana.
[10] Per esempio nel paragrafo sul carattere di feticcio della merce.
[11] La distinzione tra feticismo e carattere di feticcio è stata sottolineata con forza in vari lavori da Riccardo Bellofiore, cfr., su tutti, Bellofiore (2013 e 2014). Nella stessa direzione sembra muoversi Ingo Elbe quando afferma che «vanno distinte 1. la reale reificazione e autonomizzazione dei rapporti sociali nel capitalismo e 2. la reificazione ideologica (feticizzazione, mistificazione) di questi rapporti in proprietà naturali delle cose o in modelli di socializzazione storico-universali», Elbe (2017, 96).
[12] L’espressione «critica del valore» è qui utilizzata nel senso di critica del modo di produzione capitalistico e della sua specifica forma di socializzazione, e non come rimando al corpus teorico sviluppatosi attorno alla rivista Krisis e a Robert Kurz.
[13] «Gli uomini non riferiscono, dunque, l’un l’altro i prodotti del loro lavoro come valori perché queste cose [Sache] valgono per loro come involucri meramente cosali [sachlich] di lavoro umano di genere uguale; vice- versa: in quanto nello scambio essi pongono l’un l’altro uguali, come valori, i loro prodotti di genere diverso, essi pongono l’un l’altro uguali, come lavoro umano, i loro lavori diversi. Non lo sanno ma lo fanno» (Marx 2012, 85).
[14] «Anamnesi della genesi» è l’espressione con la quale Adorno (1989, 223) definisce il materialismo storico in un dialogo con Sohn-Rethel, cfr. Reichelt (2008), Redolfi Riva (2013), Bellofiore e Redolfi Riva (2015), Taccola (2018).



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