Wednesday, 16 September 2020

Vota NO! Oltre il no!

 


Si avvicina inesorabile la data del voto al referendum. Va da sé che bisogna votare no!


Questo è importante, ma di per sé non è la soluzione del problema democratico in Italia e la mobilitazione intorno a questa sacrosanta campagna di difesa della costituzione non si può/deve esaurire qui. 

La posta in gioco è la riduzione del concetto di democrazia alla mera possibilità di votare, la qual cosa è ovviamente molto importante, ma di per sé non protegge dal rischio di una non-rappresentatività di fatto. Basti guardare all’esempio statunitense dove la partecipazione al voto si riduce in genere a circa il 40% degli aventi diritto, in quanto il resto non ha praticamente rappresentanza. È un processo che ha prodotto nuove forme dispotiche, in quanto si sono ottenuti gli stessi risultati tipici di una oligarchia tradizionale ma con il geniale vantaggio di aver garantito il “democratico” diritto di voto. È una struttura censitaria più sofisticata di quella tradizionale che permetteva di votare solo a chi avesse un determinato reddito; adesso questo limite non c’è più, ma siccome per fare una campagna elettorale con una qualche possibilità di successo sono necessarie montagne di soldi, solo pochi gruppi oligarchici se lo possono permettere. È un gioco elettorale della upper middle class e della upper class relativamente al quale dalla lower middle class in giù si percepisce chiaramente che è quasi inutile partecipare. Il diritto teorico è cancellato dall’impossibilità di fatto. L’uno vale uno, l’atomizzazione dell’elettorato in individui, ben lungi dal garantire una partecipazione democratica, produce l’effetto di una massa-sommatoria-di-singoli incapaci individualmente di elaborazione politica (perché è fattualmente impossibile pensare la complessità del presente da soli), che si trova in balia di chi invece si è organizzato e detta le proposte alle quali si può dire sì o no (con una dinamica simile a quella dei like su facebook o altri social) ma sulla cui elaborazione non si ha alcuna capacità di incidere.

Pare a me evidente che la mancanza di organi di socializzazione intermedi sia il problema. Storicamente, per una certa fase, i partiti hanno svolto più o meno bene questa funzione. Essi erano organizzati in sezioni che votavano, che promuovevano soggetti ed idee, che poi in congressi venivano discusse e formalizzate. La vita democratica del partito era una forma di politica partecipativa. Notoriamente, questo modello è entrato in crisi; da una parte per cause interne, in quando la vita democratica si è talvolta ossificata in dinamiche verticistiche per cui la partecipazione della base era divenuta pleonastica. In parte per l’affermarsi di modelli culturali individualistici, per cui anche sottostare alle regole di una vita di partito appariva limitativo della “libertà” personale. In parte per la deriva partitocratica per cui i partiti tornavano a essere veri e propri comitati d’affari e di gestione del potere in una classica e poco nobile maniera. 

La crisi, il collasso, la scomparsa dei partiti tradizionali non pare però abbia prodotto un sistema più democratico; i nuovi soggetti politici hanno scientemente smantellato una rete territoriale forte e radicata, optando ancor più per una politica verticistica e plebiscitaria basata, sostanzialmente, sul marketing (qui Berlusconi a livello europeo è stato veramente antesignano), nella quale l’effettiva discussione dei temi politici è stata completamente sottratta all’opinione pubblica che - dis-alfabetizzata o neo-analfabeta - ormai non sa neanche più di che cosa si parli. Che scomparendo i partiti politici di massa sarebbero scomparsi il clientelismo, l’occupazione dei luoghi di potere e via dicendo è stata una mera, ingenua illusione; distruggendo la parte organizzativa e di base dei partiti in realtà si è semplicemente re-instaurata la precedente situazione dei puri comitati di affari (e della inanità delle forze antagoniste). Non mi pare nemmeno che lo spontaneismo, a partire dal brigantaggio postunitario per passare attraverso il cazerolazo argentino per arrivare al movimento dei movimenti abbia ottenuto grandi risultati o successi storici vagamente paragonabili a quelli conseguiti con le lotte organizzate.

Con questo non voglio certo fare il nostalgico dei vecchi partiti o sostenere che essi rappresentassero il paradiso in terra, anche perché se la loro natura democratica e partecipativa è entrata in crisi fino alla loro dissoluzione qualche motivo evidentemente c’è stato; dalle perverse dinamiche interne alle pressioni esterne, ma anche per trasformazioni reali e ideologiche di fondo del capitalismo crepuscolare. Detto questo dolorosamente e chiaramente, pare a me che non si possa non prendere atto che il movimentismo e l’ “uno vale uno” sono stati ancora peggio e hanno ulteriormente ridotto la partecipazione democratica e la possibilità di incidere nelle decisioni politiche.

La questione delle forme di partecipazione è, credo, uno dei primi punti all’ordine del giorno. Altrimenti la mobilitazione per questo referendum, come già successo nel caso di quella contro la controriforma renziana, sarà magari pure “vittoriosa” (speriamo!), ma rischia di far ricadere poi nella frustrazione del giorno dopo per cui con questo successo poco cambia. Insomma, per passare dalla difensiva alla controffensiva, la questione delle forme di organizzazione/partecipazione è decisiva, del coinvolgimento/mediazione dei meri individui in soggetti collettivi capaci di effettiva azione storica. Mancando questo tipo di soggetto, possiamo singolarmente aver ragione e fare le considerazioni più vere e profonde del mondo, ma senza la benché minima possibilità reale di incidere. Qual è il senso dei vari microatomici, pulviscolari partiti comunisti o sinistri attualmente esistenti? Proprio impossibile mettersi insieme con regole di gestione e programmi minimi condivisi e rispettati al di là del singolo evento elettorale?

Adesso però cominciamo facendo la prima cosa possibile in ordine di tempo, votiamo no al referendum!


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