Saturday, 31 October 2020

Social e capitalismo crepuscolare (living in a box) di Roberto Fineschi



Social e capitalismo crepuscolare (living in a box)

Funzionamento e funzione dei social nelle dinamiche del capitalismo crepuscolare.


da La città futura

di Roberto Fineschi 30/10/2020 Cultura





Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.

1) Costruire la “scatola”

I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.

1.1) Lo scienziato sociale

I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.

Il prodotto che loro forniscono – senza che questo raggiunga il livello cosciente – funziona assecondando questa stimolazione profonda da loro stessi prima innescata. Il modo in cui esso opera serve a mantenere fedele l’utilizzatore in base a un meccanismo detto di “ricompensa variabile” che trasforma lo stimolo da esterno a interno (il cosiddetto “condizionamento operante”): esso muove da un bisogno cui il prodotto da loro fornito dà risposta in maniera da stabilire un impulso a ripetere spontaneamente e regolarmente quell’operazione (“scrollare” o “aggiornare” per esempio). Sono meccanismi ben conosciuti, consolidati in pratiche sociali di massa, già utilizzati in contesti politici, commerciali.

Il grande teorico del comportamentismo che ha sviluppato questo approccio è B.F. Skinner. Celebri i suoi studi con la famosa Skinner’s box: dei ratti messi dentro una scatola venivano sottoposti a vari tipi di stimolazione per indurli a maturare comportamenti “spontanei” senza stimolazione successiva. Usando questi sistemi di condizionamento sono riusciti a insegnare a dei piccioni a giocare a una sorta di ping pong. È la base del sistema utilizzato per addestrare cani, elefanti e animali in genere. Ora forse anche esseri umani. [2]

1.2) Il designer

Qui entra in campo il secondo professionista, il designer, che non fa vestiti e modelli come ingenuamente pensavo io; crea invece delle pagine web, della app e quant’altro in modo tale da fornire un oggetto che inneschi tutti i meccanismi di cui sopra. “Captology” l’hanno chiamata: utilizzare i vari devices per “persuadere” l’utilizzatore non solo a fare determinate cose, ma a adottare permanentemente determinati comportamenti, ovvero trasformare azioni in abitudini consolidate.

Uno dei più importanti centri di ricerca e di diffusione di questo approccio è la Stanford University in California e in particolare il gruppo cresciuto intorno a B.J. Fogg. La maggior parte delle idee e dei processi implementati oggi sugli smartphone sono tutti presenti in potenza nel suo libro Persuasive Technology, dal significativo sottotitolo Using Computers to Change What We Think and Do (San Francisco, 2003). Il tema centrale è quello della “persuasione” e “captology” sarebbe un acronimo basato sulla frase “computers as persuasive technologies”. Tuttavia, è troppo intelligente il nostro autore per celare la vera intenzione di fondo espressa dalla parola nella sua radice latina: la forma intensiva del verbo “capio”, “preso con accortezza”; quindi si tratta in realtà della “scienza del catturare”, volendo “dell’imprigionare”. In testi come questo non si fa mistero di quali siano le intenzioni, per quanto ci si nasconda dietro una foglia di fico: si dice che comunque un condizionamento ci sarebbe, quindi tanto vale studiarne scientificamente le modalità piuttosto che essere vittime degli effetti collaterali...

Il modo in cui questi oggetti e i loro software sono fatti ci sollecitano per far partire il meccanismo (“trigger”), lo implementano fin quando non diventa abitudine e poi lo mantengono stabile. Il designer è colui che trasforma l’oggetto (il device) nello strumento di attuazione, di pratica effettiva, del piano dello scienziato sociale. Il modo in cui Facebook, Twitter e altri sono disegnati è appositamente ideato per farci cadere in questo meccanismo che ha l’obiettivo dichiarato di cambiare stabilmente il nostro comportamento senza che noi ce ne accorgiamo.

1.3) L’ingegnere informatico

La terza figura necessaria al funzionamento della scatola è l’ingegnere incaricato di progettare il famoso algoritmo. Che cos’è un algoritmo? È una successione di istruzioni e passi da eseguire su dei dati per ottenere dei risultati. Questi passi devono essere elementari (non ulteriormente semplificabili), interpretabili in modo diretto ed univoco dall’esecutore, l’algoritmo deve essere finito (un numero limitato di passi relativamente a un numero limitato di dati), l’esecuzione deve avvenire in un tempo finito e deve portare a un unico risultato. Questo schema base viene poi implementato in un’infinità di modi sempre più complessi. I più sofisticati imparano da soli a mano a mano che operano a fornire risultati sempre più precisi a partire da una mole di dati impressionante. Qual è la sintesi dell’azione dei tre colleghi?

Perché le teorie del primo, rese operative dal secondo, possano funzionare, è necessario raccogliere ed elaborare una quantità gigantesca di dati sull’utente. Chi raccoglie i dati? Il nostro inseparabile amico smartphone (e tutti i device che ormai popolano il nostro mondo sempre più capillarmente). Che cosa ha di diverso lo smartphone dai vecchi device? La straordinaria capacità di essere sempre con noi, di sollecitarci continuamente e quindi di fornire in tempo reale una mole impressionante di feedback: qualunque cosa facciamo è raccolta dalla smartphone, che abbiamo sempre in tasca in qualunque luogo o situazione ci troviamo, che ne manda traccia all’elaboratore. Lì, l’algoritmo fornito dall’ingegnere, dopo averci lui stesso stimolato, inizia a “calcolare” le nostre risposte e ci profila. Piano piano, continua a raccogliere dati e ci sollecita in maniera sempre più personalizzata e precisa, proprio come si farebbe mandando degli impulsi elettrici al sistema nervoso di un ragno per vedere quale zampetta alza… insomma, per chi non lo avesse ancora intuito, è una nuova sofisticata Skinner’s box! Così facendo, crea un avatar di noi stessi che sa prevedere che cosa desideriamo e quali saranno le nostre scelte future: ci fa la sedia della forma del sedere e ce la propone al momento giusto (qui fanno addirittura i colti e parlano di Καιρός! [3]); vale a dire: ci conosce meglio di noi stessi e ci propone quello che più vorremmo nel momento in cui lo desideriamo. [4] Ci coccola come una tenera mamma… ma chi è che ci coccola? E perché lo fa?

2) Il modello imprenditoriale

Il perché è semplice: tenerci attaccati allo schermo il più a lungo possibile (e le statistiche dicono che, grazie alle procedure descritte, ci riescono molto bene). A che fine? Per rispondere a questa seconda domanda dobbiamo porci la prima di cui sopra: chi è che lo fa? La risposta è semplice: un imprenditore, un capitalista, che ha come obiettivo quello di valorizzare il suo capitale. Come lo valorizza? Vendendo pubblicità. Il meccanismo suddetto garantisce agli inserzionisti un pubblico ben disciplinato, del quale si sa tutto, il quale non ha consapevolezza del meccanismo in cui è inserito e al quale è dunque più semplice vendere quello che l’inserzionista vuole vendere. Far incontrare produttore e consumatore. Il cerchio è chiuso. La prosaica fine è che quello che alcuni definiscono un gigantesco meccanismo di manipolazione di massa ha lo scopo di vendere pubblicità…

A quale prezzo tutto ciò? Regalare ai social le nostre identità affinché esse vengano rigirate come un calzino, indagate nei loro meandri più intimi e profondi; queste informazioni vengono utilizzate per una profilazione commerciale e persino per cambiarci (!) subliminalmente, addirittura condizionando in base a stimolazioni subconscie il nostro comportamento, le nostre abitudini. Non è un film di fantascienza, è quanto già succede quotidianamente a miliardi di persone. In cambio di tutto ciò ci viene fornito – in modo programmato, lo ricordo ancora una volta – l’equivalente di una coperta di Linus, un ciuccio, una pasticca per dare una risposta alle nostre ansie per avere delle piccole gioie momentanee. Il meccanismo funziona molto bene: è l’utente che lo vuole! Questa volontà però è stata prodotta a sua insaputa attraverso una intenzionale applicazione di tecniche e procedure comportamentali studiate a tavolino con quell’esplicito obiettivo.

3) Domande

Le domande ovviamente sono molteplici. La prima è se tutto ciò si possa considerare legale. L’inventore della “captology” non chiama questa procedura manipolazione, ma persuasione, perché le persone sono convinte a fare certe cose, le fanno volontariamente. È un argomento molto debole, perché nell’idea di volontarietà è implicita la consapevolezza e la conoscenza di quello che si sta facendo, quando qui è evidente che i meccanismi messi in campo si basano scientemente su risposte precoscienti del nostro organismo e della nostra mente. Fogg evita di affrontare esplicitamente il tema del rapporto tra “persuasione” e “manipolazione”. Preferisce impostarlo in termini di persuasione e “coercizione”, la quale sarebbe evitata proprio per la volontarietà dell’atto (p. 15). La questione è tuttavia la stessa, perché senza consapevolezza non si capisce bene che cosa significhi volontario.

In vari libri in cui si teorizza, esplicita, addirittura manualizza questo approccio, c’è sempre un capitoletto sulla “questione etica”. Dato che alla fine non si può negare che si tratti di manipolazione, si imposta la discussione parlando di una manipolazione a fin di bene e una a fin di male, come se questo fosse un punto di partenza negoziabile (!). A questo punto si introduce il tema della responsabilità nell’utilizzo commerciale, dando qui per scontato che sia lecito utilizzare un sistema esplicitamente manipolatorio a fini commerciali (!!). Concesso anche questo, inizierebbe la vera discussione, ovvero si dovrebbero implementare queste procedure solo se a fin di bene; il criterio fondamentale per stabilire la nobile finalità è capire se il prodotto lo utilizzeremmo noi stessi. La decisione su come operare è comunque delegata alla buona coscienza dell’imprenditore (!!!).

Al di là di questa pseudodiscussione, la vera domanda è: è lecito che sistemi dichiaratamente manipolativi siano implementati a livello di massa? Sistemi il cui controllo è nelle mani di imprenditori privati, che per giunta sono fuori dalla giurisdizione nazionale?

La seconda domanda è medica: gli effetti anche fisici dell’abuso di device sono già clinicamente evidenti e statisticamente rilevati; dal 2007, anno di introduzione degli smartphone, ansia, crollo delle capacità di concentrazione, compulsività, depressione, modificazioni della postura e molti altri, sono “patologie” conclamate e collegate all’uso di smartphone e in costante diffusione. Dipendenza fisica e psicologica.

La terza domanda è “ideologica”: questi servizi non filtrano, sono pseudo-“neutrali”. Essi fanno associazioni e ci propongono qualsiasi cose sulla base della nostra profilazione. Il sistema non sta a “sindacare” se a me interessi il calcio, a Tizio squartare gli animali e a Caio la violenza sui bambini, ci dà ciò che ha capito catturare la nostra attenzione, qualunque cosa sia, legale o illegale, vera o falsa, piacevole o perversa, perché vuole semplicemente che restiamo attaccati al device il più a lungo possibile. Si crea allora una bolla di alienazione in cui la realtà non è solo filtrata dalla macchina (perché queste sono tutte procedure automatiche realizzate in base ai calcoli dell’algoritmo), ma è ridisegnata in modo tale da corrispondere a ciò che desideriamo, qualunque cosa essa sia. Perdita della percezione della realtà.

Quarto: questo meccanismo potrebbe essere intenzionalmente utilizzato non solo a fini commerciali, ma per spingere persone a determinati comportamenti politici; non solo a votare per Tizio o Caio, ma ad agire abitudinariamente in una determinata maniera, a cambiare umore (cosa già verificata efficacemente da “esperimenti” realizzati da alcuni social). I rischi potenziali sono chiaramente di grande impatto. Chi ha cercato di condizionare il voto per la Brexit o le elezioni non ha hackerato il sistema, ma ha semplicemente utilizzato le possibilità offerte dai social per targettizzare la propaganda politica.

Inutile negare che tutti abbiamo abboccato, siamo stati presi all’amo (“hooked” dicono in gergo); [5] non solo lo sprovveduto analfabeta, ma anche il sofisticato professore universitario (i progettisti se ne vantano), ma addirittura le stesse persone che hanno progettato il sistema, perché non solo il meccanismo è subliminale, ma agisce sulle pulsioni più profonde del nostro comportamento. Certo, non tutti sviluppano una vera e propria dipendenza, ma non ci si deve scordare che il meccanismo nasce con quell’obiettivo e che dall’altra parte dello schermo ci sono mille computer, sofisicati algoritmi progettati dalle menti più brillanti al mondo che sono lì ad attendere proprio noi, presi uno a uno col nostro telefonino in mano per fare quanto sopra descritto. Chi vincerà?

Ovviamente sull’altro piatto della bilancia ci sono gli incredibili servizi che i device offrono: come ci rendono più semplice la vita, quanto ci facilitano il lavoro e il piacere che ci danno anche grazie ai social. Anche la profilazione ha i suoi aspetti positivi perché è molto difficile trovare tra i milioni di prodotti quelli che ci interessano veramente; i suggerimenti di Netflix per esempio mi fanno risparmiare molto tempo evitandomi di visionare una parte dell’offerta che effettivamente non mi interessa affatto. Sugli aspetti positivi si potrebbero scrivere pagine e pagine, ne siamo tutti consapevoli. Quindi, che fare?

4) Un passo in più

Il primo passo è fare quanto meno i borghesi progressisti, quindi richiedere che si regolamenti, si pongano dei limiti fiscali, di diritto d’autore, di responsabilità giuridica, di raccolta dati a questi organismi; ancorarli territorialmente in modo che debbano pagare tasse, rispondere a normative scelte e votate dai cittadini dai quali traggono i loro esorbitanti profitti. Quindi porre la domanda di fondo di cui sopra: si può accettare che un sistema intenzionalmente manipolativo e così capillarmente efficace sia implementato non solo a fini commerciali, ma a qualunque fine? Ne va credo proprio del concetto di democrazia, anche nel mero senso formale liberale (libertà, uguaglianza, che cosa significherebbero?). Anche perché i nostri amici, creando un sistema che dà dipendenza (il cellulare è stato definito la nuova sigaretta, se non peggio; il piacere dato dal suo utilizzo attiva le stesse zone del cervello attivate dagli stupefacenti e la sua assenza causa “astinenze” del tutto analoghe), avrebbero sicuramente la maggior parte degli utenti dalla loro parte in caso di decisioni drastiche.

Se una regolamentazione è auspicabile, si tratta però di fare un passo in più e comprendere come ciò si colleghi alle dinamiche di quello che chiamo capitalismo crepuscolare. In primo luogo vale la pena far notare che mettere insieme i tre signori di cui si parlava nel primo paragrafo e dar vita a questo meccanismo è stato possibile, come nel caso di altre innovazioni tecnologiche fondamentali, per dare risposta alle esigenze della riproduzione sociale in forma capitalistica, in particolare far migliorare il meccanismo per cui domanda e offerta si incontrano. Insomma, valorizzare il capitale.

Ciò detto, si può ricordare che una delle caratteristiche salienti del modo di produzione capitalistico è sicuramente la creazione ideologica dell’atomo individuale, scollegato da un contesto lavorativo, da legami sociali, da realtà collettive. Se, però, da un lato il modo di produzione capitalistico in auge creava questa ideologia, dall’altro, costituiva nel processo produttivo dei legami pratici di unità e solidarietà. La fase crepuscolare, attraverso l’automazione, la subordinazione delocalizzata, le nuove tecnologie che individualizzano sempre più anche tipologie di lavoro di fatto cooperative, spezza questi legami e produce l’apparenza dell’individualità anche nello stesso processo produttivo. Inoltre, generando una disoccupazione di massa e una pletora di individui costretti a vivere di espedienti come singoli, si determina una condizione per cui essi si trovano pure esclusi e senza prospettiva; il loro motto è mors tua vita mea. Infine, il tempo libero che la produttività crea per molti ha bisogno di essere riempito; l’incapacità sempre più diffusa di farlo costruttivamente è sia il segno del fallimento culturale del capitalismo, sia la causa prima del bisogno del cosiddetto “intrattenimento” al quale i social e internet danno una risposta anche di altà qualità, costante e infinita.

Nel capitalismo crepuscolare, inteso come quel contesto sociale in cui l’individualismo atomizzato diventa la forma principale di soggettività, non sorprende che si radicalizzi un profondo bisogno di socialità. Qui ovviamente la connettività di internet e i device che la consentono sono la risposta più semplice, efficace e intrigante. Che i legami instaurati siano solidi e di lunga durata è probabilmente più dubbio, almeno nei grandi numeri. La risposta alla socialità effimera dei social (nel senso che gli individui creano legami così superficiali da essere individualmente reversibili in qualunque momento senza che ne vada della loro identità personale, restano quindi sostanzialmente sempre dei singoli che si relazionano con una massa anonima) può solo nascere da contesti pratici di vita, di azione, di produzione che diano un contenuto concreto alla parola “sociale”. Non bisogna dunque credere, a mio avviso, che i social inventino i problemi cui danno risposta (bisogno disperato di socialità). Non inventano neppure il conflitto sociale (che sarebbe dovuto a qualche malintenzionato che li userebbe per manipolare e polarizzare le masse). [6] La crisi di socialità, il conflitto sono nella dinamica sociale e i social ne sono ribalta e detonatore. Sono strumenti potentissimi, potenzialmente pericolosissimi nel senso suddetto, ma sono momenti di un processo storico sociale che non si riduce a loro. Anzi, semmai tendono a disinnescare soprattutto il conflitto sia mandando in pappa il cervello degli utenti, sia canalizzando le pulsioni più violente di rivolta verso gli obiettivi più fantasiosi e improbabili, assolutamente innocui per chi vuole evitare cambiamenti sociali sostanziali e progressisti. Insomma, si tratta di un potente strumento che può sfuggire di mano, ma che non crea i contenuti che veicola. Credere dunque che regolando i social la conflittualità cesserebbe perché riusciremmo a parlarci non accecati dalla fake news è, questo sì, veramente ideologico. Il conflitto sociale, i processi alienanti dell’atomizzazione (e quindi un uso perverso dei social) si superano solo superando le dinamiche strutturali/sovrastrutturali storicamente determinate che li producono.

Note:

[1] Sul tema è recentemente uscito un interessante documentario su Netflix dal titolo The Social Dilemma. Estremamente istruttiva anche una puntata di Presadiretta disponibile su Raiplay. Il problema si sta ponendo anche in termini di tenuta del sistema anche da un punto di vista prettamente “borghese”. Si veda S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, 2019.

[2] Skinner espose la sua “utopica” società umana “ideale”, addestrata in base ai principi del comportamentismo, in un celebre e controverso romanzo dal titolo Walden Two (1948). Essa si autoregolava in base al “condizionamento ambientale” di contro all’inesistente “libero arbitrio”.

[3] Kairos, la divinità greca del “momento opportuno”. Questo il desideratum di Fogg nel libro sopra citato (p. 41); quel sogno è oggi realtà.

[4] Molto informativa la puntata di Presadiretta dal titolo “Tutti spiati”.

[5] Esistono manuali per creare un business capace di “prendere all’amo” il cliente: Nir Eyal (with R. Hoover), Hooked: How to Build Habit-Forming Products, 2014.

[6] Queste un po’ le ingenue conclusioni di The Social Dilemma.

Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”

 

Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”

L’enciclica di Francesco caldeggia nella sostanza la versione più soft dello stato corporativo ed è coerente con la dottrina sociale della chiesa. I comunisti devono invece porsi il problema di trasformare la struttura sociale.


Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”

Fratelli tutti, l’ultima enciclica di papa Francesco, ha suscitato reazioni diverse ed è stata salutata (o deprecata) per le sue “aperture”. Vediamo i contenuti per capire quanto questo papa sia quel pericoloso “comunista” che viene dipinto dalle fazioni più retrive del mondo cattolico.

 1) Critica del presente

 L’enciclica prende di petto alcune delle questioni più scottanti dell’attualità sociale e politica, assumendo posizioni chiare. Critica alcuni punti chiave colpendo su due fronti: da una parte le modalità e le istituzioni della gestione neoliberista; dall’altra gli atteggiamenti più duri e intransigenti riconducibili a schieramenti cosiddetti populisti. Ne ha in sostanza per tutti; vediamo in che termini.

 1.1) Critica del neoliberismo

 Il papa non le manda a dire: l’economia finanziaria e le sue speculazioni sono una delle principali cause dell’attuale crisi mondiale (§§ 12, 52, 53 ,75, 109, 144); i suoi effetti perversi determinano rapporti squilibrati con i paesi più poveri e quindi il loro sfruttamento (§§ 122, 125, 126); causano la vuota e omologante cultura globalistica (§ 100) e il paradossale individualismo che gli fa specchio (§§ 12, 105, 144).

 Non basta: il problema di fondo è il mercato! È mera illusione pensare che possa autoregolarsi (§§ 33, 109), questo è un dogma neoliberale (§ 168)! È addirittura necessario pensare a istituzioni che lo regolino, a una sua gestione mondiale (§ 138). Senza questo tipo di regolazione, libertà e giustizia restano irrealizzabili (§§ 103, 108, 170-172).

 E ora viene l’affondo finale: la proprietà non è sacra! È un diritto secondario (§ 120) e deve avere una funzione sociale (§ 118).

 Botte da orbi alle élites finanziarie dunque e a quei partiti che guardano in quella direzione cercando un nume tutelare o un ideale regolativo al grido di meno Stato e più mercato (e qui per fare la lista di tutti quelli che ci rientrano non basterebbero le pagine).

 1.2) Critica del populismo

 Sarà mica populista allora? Non scherziamo. Il papa stigmatizza la politica di chiusura nei confronti dei migranti (§ 39), condanna la schiavitù cui sono condannati dallo stesso sistema di cui sopra (§§ 86, 130-132), cerca di distinguere tra legittime rivendicazioni popolari e populismo (§§ 157 ss.), critica la pseudocomunicazione legata al mondo dei social (§ 42) e l’orrore di violenza e aggressività che essa produce (§ 44).

 Anche qui non è difficile trovare nomi e cognomi di personaggi vari colpiti dagli strali di queste critiche.

 2) Svolta epocale?

 Da sinistra, da sempre, moltissimi associano la chiesa cattolica ai poteri forti. Le sue gerarchie in particolare e, dunque, il papa come suo sovrano supremo sono stati spesso visti come rappresentanti influenti del “potere” e delle posizioni più reazionarie e intransigenti. Senza andare a scavare nella storia, i ricordi di un Ratzinger o, giusto per citare i grandi classici, di un Pio XII sono freschi nella memoria degli spiriti progressisti. Leggere dunque di un papa che prende così apertamente posizione contro, praticamente, tutti gli schieramenti politici che al momento sono protagonisti del panorama politico italiano e internazionale può fare una certa impressione. Cerchiamo di vederci più chiaro.

 La prima cosa da ricordare è che le forze conservatrici non sono un unicum indistinto. Se è vero che nei momenti critici spesso formano uno schieramento unico, di base esse possono differenziarsi e in diverse situazioni essere in contrasto tra di loro. Non solo individualmente tra singoli capitalisti, ma anche come organizzazioni più complesse che possono avere anche dimensione istituzionale, se non addirittura statuale in certi casi. Non c’è dunque da stupirsi che il fronte conservatore o moderato si articoli in maniera variegata e internamente conflittuale.

 Compreso questo, l’enciclica sorprende ma solo fino a un certo punto; non ci si deve infatti scordare che la chiesa cattolica è sempre stata avversaria del mondo liberale, persino dai tempi in cui esso era una forza progressiva. Si rammenti l’aspra campagna antiliberale e antimoderna di Pio IX, ma anche la critica della questione sociale di Leone XIII o dell’esplicito appoggio alle soluzioni corporative del fascismo da parte di Pio XI. La chiesa cattolica è sempre stata avversaria del mondo liberale. Nel secondo dopoguerra, la guerra fredda e il pericolo comunista l’hanno portata vicino agli Stati Uniti, ma non certo per un’adesione al liberalismo. Del resto la soluzione italiana vedeva le forze moderate ancorate alla Democrazia Cristiana ed esplicitamente appoggiate dal Vaticano. La DC non era certo una forza liberale, ma contigua all’idea della gestione statale dall’alto della società, con il cattolicesimo come religione di Stato e un approccio paternalistico direttivo; insomma, non particolarmente in linea con i principi liberali classici. In tutti i documenti della chiesa, incluso il catechismo, l’idea dei limiti strutturali del liberalismo è sempre stata presente. Non può dunque sorprendere la critica del neoliberalismo e del suo culto del mercato. Gli esiti individualistici, il culto del dio denaro al quale sacrificare ogni valore di solidarietà, coesione sociale, comunità sono considerati tra le ragioni prime della perdita di identità, della crisi dei valori, dell’egoismo e della violenza della società contemporanea.

 D’altro canto non può stupire, per quanto non fosse scontata, la critica della barbarica violenza perpetrata contro i migranti, i popoli del terzo mondo, gli “ultimi”. Se non altro a livello di principio sono questi temi estremamente sensibili per la chiesa cattolica. Non a caso la forte e continua insistenza sulla parabola del buon samaritano a cui è dedicato un intero capitolo (§§ 70 ss.).

 Nelle critiche sviluppate su questi due fronti il papa va a toccare interessi o dell’altissima borghesia o del ceto medio che invece vede nei rispettivi approcci sopra esposti un qualcosa di positivo e auspicabile. Per queste forze – non solo conservatrici ma addirittura reazionarie, che racchiudono una fetta non indifferente del popolo che si dichiara cattolico – l’atteggiamento fermo e pacatamente progressista di papa Francesco risulta odioso e compromissorio; infatti lo attaccano senza pietà.

 Pur ammettendo dunque che di papi peggiori ce ne sono stati, non ci si deve lasciar confondere dal contesto. Nel panorama attuale le posizioni da “democristiano di sinistra” del papa sembrano quanto mai rivoluzionarie perché al suo cospetto la politica sconclusionata e senza prospettiva delle forze politiche appare in tutta la sua inadeguatezza, se non nella sua violenta barbarie. Purtuttavia, da qui a considerare le sue posizioni di sinistra o addirittura comuniste ce ne corre assai. Questo ce lo dice la stessa enciclica che stiamo commentando e forse vale la pena riprendere qualche punto.

 3) La persona umana

 Il fondamento della filosofia sociale per come emerge dall’enciclica ma anche da altri documenti tradizionali è la “persona umana”. Si tratta di un concetto quanto mai controverso dall’importanza cruciale; vediamolo meglio.

 Innanzitutto la forza di questo concetto si presenta come verità oggettiva e assoluta, non soggetta a negoziazione (§§ 206, 208, 210). Non accettare una fondazione assoluta della verità viene vista come una concessione al relativismo e quindi alla non fondabilità di fatto di una morale condivisa.  La persona come valore primario (§§ 14, 22, 23, 83), la dignità umana anche basata sulla dignità del lavoro (§ 127), la persona umana (§§ 188) sono il fondamento su cui si regge tutta l’intelaiatura della solidarietà e dei valori mutui di fratellanza (§§ 40, 48) e di rispetto del prossimo come uguale a sé (§§ 80, 81, 138).

 Vediamo il primo punto, quella della fondazione della verità. Nel contesto dell’enciclica questa verità si fonda in termini religiosi. Se è vero che si cerca di affiancarla al discorso di una sorta di morale razionale, nella sostanza la fondazione è nella fede. Il fatto di contrapporre questa verità assoluta alla storicità (ridotta a relativismo) è l’altra questione di fondo: non si riesce a concepire la verità come un processo che si costituisce. Non necessariamente dunque essa per il suo mutare in contesti e circostanze diverse risulta non fondata. La prospetticità della verità nel suo farsi storico non significa meramente relativismo, ma una costruzione che si definisce oggettivamente e razionalmente nella sua processualità e che quindi è contestualmente vera. Il tentativo del Marx della teoria del capitale è proprio questo: costruire una teoria dinamica del processo storico che sia anche una teoria dinamica della verità (per questo aspetto sicuramente sulla scia di Hegel). Nei termini di Marx, proprio il sostanzialismo della persona e la sua identificazione con l’umano come tale rappresentano la più sofisticata delle ipostasi dell’ideologia borghese, frutto della parvenza oggettiva della circolazione delle merci, il feticismo della merce visto dal lato dei latori della dinamica sociale.

 Assunti gli individui come sostanziali, trasfigurati come persone umane, la dinamica sociale si articola come loro interazione quali enti già dati ab origine e quindi il risultato della loro interazione è meramente esito del loro comportamento individuale, come una sorta di sommatoria. Di conseguenza, se essi abdicano ai principi di solidarietà, fratellanza, mutua assistenza il mondo non può che andar male. Farlo andar bene è legato, di nuovo, alla loro decisione di fare, dal punto di vista soggettivo, diversamente. Infatti manca nell’enciclica qualsivoglia riferimento a dinamiche storiche oggettive. Il cambiamento dunque non è legato a modifiche delle dinamiche di fondo del processo storico, ma ai doveri delle persone umane di rendere questo concetto universale fino in fondo.

 Sembrerebbe questo il mero modello liberale basato sugli individui sostanziali, ma in realtà c’è un elemento in più, vale a dire il dovere di fratellanza. L’atomo individuale, in quanto persona umana, ha un legame ab origine col suo simile non solo di uguaglianza formalistica, ma di dovere morale. Rispetto al mondo classico liberale c’è dunque in più la mutua solidarietà che può/deve esprimersi anche a livello istituzionale come doveri dello Stato o di altra istituzione di mediare e garantire livelli minimi di umanità correggendo eventuali storture che possano verificarsi. Il modello sociale che più corrisponde a questa prospettiva non è dunque il libero mercato, ma lo Stato paternalistico corporativo che può essere nella sua versione soft la Democrazia Cristiana del dopoguerra, nella sua versione hard il fascismo. Infatti, data la struttura sociale per quella che è in quanto non la si può modificare e che quindi include stratificazione di classe e gerarchie sociali, esistono doveri collettivi individuali e istituzionali per cui i più poveri o disagiati vanno assistiti, curati, considerati fratelli; tutto ciò, però, senza intaccare le strutture.

Insomma, a chi abbia voglia di ripercorrere gli scritti relativi alla dottrina sociale della chiesa vedrà che nihil sub sole novum. C’è però da rallegrarsi del fatto che Bergoglio punti senza mezzi termini e con coraggio, considerata la situazione attuale, verso la versione soft dello Stato corporativo paternalistico, cioè auspichi una soluzione “democristiana”, decisamente “progressista” se paragonata al crudo cinismo dei due principali schieramenti politici in campo. Che si prenda questo atteggiamento come il non plus ultra del comunismo la dice però lunga su quanto manchino analisi, idee, prospettive. Su questo c’è molto da lavorare e non resta che rimboccarsi le maniche.

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