Monday, 29 July 2024

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate


Dal significativo titolo “Stranieri ovunque”, la biennale di Venezia riporta nuovamente sotto i riflettori il tema della “decolonizzazione” e dello “Occidente” colonizzatore. Soggetto quanto mai controverso, proprio per la sua stratificata complessità, esso si presta a pericolose semplificazioni da cui, almeno in parte, non è esente la biennale stessa.
Una prima banale osservazione a margine è la seguente: manca il padiglione russo “colonizzato” dalla Bolivia; il padiglione “Corea” ovviamente è di pertinenza della “Corea del sud”; c’è un padiglione di Israele, dell’Arabia Saudita… Insomma l’inquadramento atlantico (la “colonizzazione atlantica”?) costituisce il quadro ge
nerale di un’esposizione che della decolonizzazione vorrebbe fare uno dei suoi temi centrali… Ma veniamo a bomba.
Il padiglione centrale dei giardini, a cura del brasiliano Adriano Pedrosa, è un repertorio sull’astrattismo per lo più pittorico con una carrellata di autori “non occidentali” che dimostrano come dagli anni Trenta in poi anche in altri paesi si seguissero efficacemente tali correnti. L’idea sarebbe dunque di rompere il canone “occidentale” alla luce di queste emergenze: gli outsiders sono bravi quanto gli insiders. Così facendo, tuttavia, questo canone viene piuttosto eretto a Canone con la c maiuscola al quale anche gli “altri” si conformano, “dimostrando” che anche loro erano bravi a seguirlo… Qui l’intenzione anticoloniale nasconde in verità una forte sudditanza culturale. Speculare a questo è l’atteggiamento, di verso opposto ma di direzione uguale, per cui si rifiuta qualunque modello che venga “dal di fuori” per sostenere il proprio nazionale: se per es. un’idea in Brasile è stata proposta da un italiano, questo sarebbe colonialismo. Si sostiene implicitamente che esisterebbe un qualcosa dato in origine prima di qualsiasi “contaminazione”, che andrebbe protetto dall’influenza straniera perché altrimenti sarebbe colonizzato; si finisce dunque per considerare qualunque influenza come una colonizzazione, quando invece normalmente si intende con ciò un’imposizione di modelli e costumi per via costrittiva e violenta. L’astratto identitarismo “originario” può pericolosamente diventare l’alter ego dell’anticolonialismo.


Questi cortocircuiti sono il frutto di malintese definizioni e di riduzionismi concettuali che nel migliore dei casi non portano a niente e nel peggiore a ideologie reazionarie.
La prima semplificazione è lo “Occidente”. Non tematizzato adeguatamente, esso viene fatto linearmente coincidere con colonialismo e imperialismo. Se sicuramente si tratta di due piaghe, è solo questo che ha prodotto l’Occidente? Le esperienze storiche e culturali che ricadono sotto questa etichetta sono le più diverse, anche di segno intrinsecamente opposto e contraddittorio: per es. schiavitù e democrazia, liberalismo, fascismo e comunismo; sono tutti la stessa cosa? Sono tutti negativi? Le idee di uguaglianza, libertà, per es. dove sono nate? Sono concetti occidentali. La decolonizzazione stessa è un concetto che è potuto nascere solo in un contesto “occidentale”.
Fatta l’equazione occidente=male, si procede alla successiva semplificazione non-occidente=bene. Siamo sicuri? Per es. una società basata sulle caste come quella indiana tradizionale, oppure su un feudalesimo brutale come quello tibetano, oppure sul cannibalismo tribale, o sulla superstizione religiosa siamo sicuri che sia migliore di quella occidentale?
Il presupposto non detto alla base del ragionamento di diversi decolonizzatori è che le idee di umanità, uguale dignità degli esseri umani e dei popoli sarebbero “per natura” e l’Occidente cattivo si sarebbe imposto negandole. Invece questi concetti sono nati e si sono sviluppati, in mezzo a mille contraddizioni, in occidente. A dispetto del suo antioccidentalismo, il presupposto del decolonialismo è un caposaldo della cultura occidentale.

È evidente che la storia umana è un processo complesso che si sviluppa per contraddizioni interne (colonialismo e imperialismo non sono una novità dei tempi moderni purtroppo). La metafora del dentro/fuori invece proietta queste contraddizioni su di un piano lineare che procede per sostituzioni complete di alternative autonome. Al contrario, la contraddizione è interna allo sviluppo stesso e si basa sul conflitto di dinamiche potenzialmente regressive o progressive. In esse i processi di inclusione ed esclusione sono organici e si possono affrontare e auspicabilmente risolvere solo considerando la dinamica contraddittoria del processo stesso. Questo processo, nell’epoca presente, ha la forma di moto del modo di produzione capitalistico dalle cui contraddizioni scaturisce l’essere umano in generale con la sua libertà ed eguaglianza e, contemporaneamente, la sua schiavitù salariale e/o coloniale; che produce il potenziale superamento del bisogno per tutti e, allo stesso tempo, la distruzione del pianeta e di popoli interi.

Se invece di essere anticapitalistico il processo di decolonizzazione diventa genericamente antioccidentale, si rischia di inseguire sogni pre-moderni, solo parventemente liberatori, o prospettare fughe in avanti post-occidentali dai contenuti indefiniti (quelle esperite storicamente non sono andate benissimo perché, malgrado il loro definirsi “oltre”, non hanno eliminato il capitalismo; hanno semmai tentato di reintrodurre la schiavitù e legittimare anche idelogicamente la barbarie imperialistica già ipocritamente praticata dal mondo liberale).


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