Tuesday, 19 January 2021

Abbozzo di riflessione sul PCI e sulla sua crisi di Roberto Fineschi

Abbozzo di riflessione sul PCI e sulla sua crisi
di Roberto Fineschi





Fonte: Cumpanis, dicembre 2020



Con molte riserve e ritrosie vergo queste note per il centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, non essendo io uno storico e tanto meno un esperto di questo tema specifico. Quanto segue sono riflessioni sviluppate soprattutto nella prospettiva di un conoscitore della teoria di Marx come teoria della processualità storica. Si tratta di commenti provvisori, schematici e quanto mai aperti a essere discussi. Sono riflessioni che hanno inevitabilmente sullo sfondo il presente e le sue problematiche. Il tema abbozzato è quello dello snodo degli anni settanta, la figura di Berlinguer e i cambiamenti storici allora intervenuti e probabilmente ancora irrisolti.


1. Gli anni settanta e Berlinguer come figura di un momento di svolta


Gli anni settanta sono segnati dalla strategia del “compromesso storico” che, nella mente dei suoi promotori, si reggeva su due fondamentali premesse teoriche, strategiche e di fatto:

1) la crisi del comunismo sovietico come modello di socialismo praticabile in occidente (in realtà iniziava a delinearsi l’idea della sua impraticabilità in generale): esso non funzionava in quanto autoritario (i freschi fatti cecoslovacchi del ‘68 lo avevano dimostrato) e in quanto non-europeo (impossibile realizzarlo nell’Europa occidentale con la sua complessa stratificazione sociale e le sue diffuse libertà formali);

2) il colpo di stato in Cile: una via parlamentare al socialismo non era possibile perché, anche in caso di vittoria elettorale, le forze dell’imperialismo mondiale avrebbero messo fine in forma violenta a tale esperienza.

Dati questi due assunti, la strategia di avvicinamento alla gestione del potere e alla trasformazione della società italiana si poteva concretizzare solo attraverso due passaggi fondamentali:

1) rendersi “accettabili” ai padroni militari dell’occidente (gli Stati Uniti), il che implicava prendere atto di trovarsi in territorio nemico e di conseguenza sottomettersi alle sue regole per quanto concerne l’uso estremo della violenza. Ne conseguiva la permanenza sotto l’ombrello “protettivo” della NATO e ciò andava in parallelo alla presa di distanza dall’Unione Sovietica (percorso autonomo);

2) l’allargamento della base di supporto, adesso “democratica” e non più solo socialista fino a includere le forze progressiste borghesi. In caso di vittoria elettorale di questo fronte, anche se avessero cercato per via autoritaria di sopprimere il governo, l’opposizione nella società civile sarebbe stata troppo forte in quanto avrebbe incluso una parte delle stesse forze borghesi. L’ampio blocco storico di sinistra già messo in campo era, fino ad allora, stato sufficiente a resistere ai tentativi di colpo di stato, ma non sarebbe bastato in caso di vittoria elettorale di un fronte della sola sinistra (vedi Cile). D’altra parte, era valorizzato l’elemento democratico all’interno dello schieramento cristiano, sia fuori che dentro l’istituzione partitica della Democrazia Cristiana.

Questa strategia poneva la questione della legittimazione democratica, seppur giocata tutta nei termini imposti della guerra fredda. La realtà era, infatti, che quel poco di democratico che esisteva nella Repubblica italiana era frutto dell’azione del Partito comunista e di altre forze popolari e poco o niente aveva a che vedere col mondo liberale “occidentale”. La logica della guerra fredda e le drammatiche carenze relativamente a diritti personali nell’est europeo imponevano però che il discorso si ponesse in termini assai diversi che richiedevano una “legittimazione” democratica del PCI. Di qui il fondamentale errore di ridurre la questione della democrazia alle libertà borghesi formali, ovvero di accettare la discussione nei termini posti dall’avversario. Questo era tuttavia, probabilmente, il prezzo da pagare considerando il terreno “geopolitico” in cui questa strategia veniva attuata; ciò includeva anche una posizione sul leninismo che oscillava tra superamento e conservazione, sempre con una serie di distinguo e precisazioni che tradivano il bisogno di mollare quell’eredità considerata praticamente inutile ma allo stesso tempo parte costituente e necessaria di una forte identità politica che andava mantenuta. La soluzione proposta era quella della validità date determinate circostanze e del superamento una volta che se ne davano altre.

L’altro aspetto fondamentale, in qualche modo ricondotto a Gramsci, era la presa di coscienza che in Occidente la società era più complessa, che erano inevitabili posizioni plurali, insopprimibili, soprattutto la realtà cattolica in Italia. Come si accennava, dunque, queste forze non potevano né essere cancellate né escluse da un progetto praticabile di governo; ecco quindi l’altra gamba della prospettiva “democratica” e non unicamente socialista. Questa era, del resto, presentata come una riedizione del compromesso raggiunto nella scrittura e approvazione della Costituzione, una ripresa del progetto di Togliatti e la rivendicazione di una via indipendente, originale e autonoma al socialismo.

Intraprendere questa via democratica, almeno negli auspici, non significava abbandonare il cammino verso una società futura diversa e comunista, che però non poteva essere il “socialismo finora realizzato”. Questa via indipendente fu battezzata “eurocomunismo”, “terza via” e alla fine “terza fase”. Quale fosse però il contenuto concreto di questo progetto e come esso si distinguesse tanto dal Socialismo reale quanto dalla socialdemocrazia restava nella sostanza di difficile definizione. La presenza di iniziativa privata, proprietà privata, mercato a lato di una sostanziale partecipazione statale alla gestione dell’economia parevano in realtà delineare una classica prospettiva socialdemocratica e semplicemente rispecchiare la realtà di fatto della gestione della maggior parte delle economie occidentali europee avanzate. Difficile scorgere elementi più peculiari che permettessero quanto meno di indicare i caratteri concreti di una terza via, soprattutto mostrare quegli elementi di discontinuità qualitativa che permettessero di configurare un vero e proprio diverso modo di produzione socialista (o comunista che dir si voglia).

Pur mettendo da parte le oggettive difficoltà nel delineare concretamente un’alternativa di lungo periodo, si riscontravano altri due problemi fondamentali legati alla strategia che si voleva intraprendere:

1) la sopravvalutazione della sponda democristiana al progetto del compromesso storico, anche forse nella figura di Moro, la più “attenta” a questa strategia;

2) l’idea, rivelatasi assolutamente utopistica, che si potesse uscire dalla logica bipolare di Yalta e che bastasse prendere le distanze dall’URSS perché gli Stati Uniti accettassero un Partito comunista al governo. La “provvidenziale” morte di Moro rimise tutte le cose al loro posto in questo senso. Come è noto, il progetto era decisamente inviso anche ad est e lo stesso Berlinguer ritenne di esser stato vittima di un attentato del KGB in Bulgaria al quale sopravvisse per miracolo.

La scomparsa di Moro, unica sponda possibile e credibile sul versante DC per proseguire in questo percorso, sancì la fine del compromesso storico, l’avvento del pentapartito, l’isolamento e la progressiva atrofia del PCI. Ebbe inizio qui quella involuzione (controrivoluzione) conservatrice poi giunta fino alla svolta neoliberale degli anni ottanta-novanta che portò gli stessi eredi del PCI ad essere attuatori di una politica di smantellamento di moltissime delle conquiste sociali ottenute in decenni di lotte.

Anche qui, però, non si può sottovalutare il peso della crisi del modello sovietico. La successiva crisi polacca, la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’Unione sovietica; non si può negare che questi ultimi eventi furono salutati come una vera e propria liberazione da larghe fasce di militanti. Anche rivedendo documentari del tempo, le testimonianze tradiscono imbarazzo o addirittura vergogna da parte di tanti nell’essere accostati ai paesi del Socialismo reale. Il passaggio al PDS è il culmine di questo processo di vero e proprio smarrimento, di malessere che era ovviamente esacerbato da un decennio di marginalizzazione e sconfitte vissute durante il periodo del pentapartito.


2. Il dilemma


Non si tratta adesso tanto di “incolpare” Berlinguer delle conseguenze di questo processo, quanto, piuttosto, di individuare i problemi storici e teorici effettivi cui egli cercò di dare una risposta. Personalmente credo che le sue risposte vi furono, ma che i problemi fossero effettivi. La ricerca di una via alternativa da lui intrapresa nasceva infatti dall’impossibilità di proporre una società come quella realizzata nel Socialismo reale per il mondo occidentale. Era questo il problema di fondo: quello non era un progetto “allettante” per gli occidentali che semplicemente non lo volevano. La questione non era posta ancora nei termini di fallimento completo, ma piuttosto di peculiarità della società occidentale per cui non si poteva imporre un modello, nato e sviluppatosi con delle caratteristiche specifiche, a una società che ne aveva di sostanzialmente diverse. In realtà, la sensazione sempre più estesa dell’irriformabilità di quel modello maturava nel senso comune di sinistra. Berlinguer ebbe dunque l’idea di sganciarsi non per un capriccio, ma perché quella sembrava una scelta dettata dagli sviluppi storici più recenti. La ricerca di un’alternativa era dunque la presa d’atto, che pareva ormai evidente, che il Socialismo reale non funzionava come era e che, in quella forma, non poteva essere proposto, almeno in occidente. Al di là di possibili esagerazioni e deformazioni prospettiche, la crisi del modello sovietico era una questione reale.

Pur dichiarando e sforzandosi di mantenere una prospettiva comunista in questo processo di differenziazione specifica, al tentativo di sganciamento mancarono però le gambe; quale fosse il contenuto dell’Eurocomunismo, della terza via, della terza fase o come la si voglia chiamare, e come esso si differenziasse da un sostanzialmente tradizionale approccio socialdemocratico onestamente non pare chiaro. La crisi del PCI sembra dunque delinearsi in un contesto più generale di forte rallentamento del progetto di una società comunista come alternativa al capitalismo ed è dovuto a problemi storici e teorici effettivi che non si è inventato Berlinguer. Se quindi, da una parte, credo che egli prese atto di un nodo storico reale, dall’altra mi pare che le soluzioni alternative che propose non si siano rivelate efficaci.


3. Limiti della risposta


Berlinguer e la dirigenza del PCI, forse per un certo “gramscismo” e propensione sovrastrutturalista, mostrarono una sostanziale incapacità di comprendere le tendenze di fondo di quello che chiamo “capitalismo crepuscolare”. Ciò inevitabilmente implicava l’incapacità di formulare un’alternativa di struttura sociale una volta che quella sovietica veniva ritenuta fallace (o di formulare un’analisi adeguata delle sue criticità e un piano di correzione). La terza via, quindi, non si delineava perché non si sapeva dire che cosa mai sarebbe stata. “Ampliare la democrazia” senza piani strutturali rischiava, e rischia, di restare uno slogan se oltretutto la parola democrazia si definisce prevalentemente in termini di libertà borghesi.

A me pare che la mancanza di analisi e prospettiva strutturale spinse Berlinguer a proporre soluzioni basate su di una “riforma morale” e una “austerità” che rischiavano di rivelarsi illusorie nel senso che rinunciavano a comprendere che determinati processi degenerativi della morale pubblica erano/sono legati a dinamiche di fondo del modo di produzione capitalistico. La coppia morale/austerità poteva forse essere una mossa tattica efficace per coinvolgere quella fascia di cristiani e democratici estremamente sensibili a queste tematiche, anche in contrapposizione ad altri settori della Democrazia cristiana che potevano essere stigmatizzati come corrotti e degeneri. Etica dell’onestà e del lavoro potevano rappresentare un collante per il fronte democratico di sinistra e cattolico onesto. In mancanza, tuttavia, di una strategia concreta di trasformazione del nesso struttura/sovrastruttura, il rischio era di agire meramente a livello sovrastrutturale e quindi di venire in qualche modo legittimamente accusati di moralismo, o peggio ancora, da parte di alcuni, di consociativismo per il basso livello di conflittualità e le concessioni fatte in nome di quei principi.

Il cosiddetto “secondo” Berlinguer, nonostante la presa di coscienza dei limiti di fondo della strategia del compromesso storico, ancor meno del primo mi pare aver avuto risposte alla fase di passaggio storica o al cambiamento strutturale e ha finito per dialogare poco costruttivamente con movimenti, femminismo, ecologia, rendendosi conto dell’inadeguatezza della strumentazione tradizionale, ma al tempo stesso non avendo un’analisi obiettiva dei processi e quindi finendo forse per navigare a vista. Dopo di lui, con minori capacità e sensibilità, si è solo andati peggiorando fino al disastro finale neoliberale in nome di un governismo fine a se stesso. La proclamazione di valori borghesi, pur importanti, come assoluti nasconde se non altro implicitamente l’incapacità di pensare il presente sovrastrutturale come momento della dinamica complessiva di struttura e sovrastruttura, quindi di avere un’idea dei processi obiettivi e di inserirvisi, invece di inseguirli una volta che sono manifesti.

L’irrigidimento e l’ossificazione del marxismo tradizionale avevano certo contribuito al malinteso di considerare quella teoria completamente inadeguata alla comprensione del presente. In quella forma effettivamente lo era. Quell’ortodossia però non è stata sostituita da un’alternativa teorica all’altezza dei problemi da affrontare. Anzi, più che una critica vi è stato un abbandono acritico. Questo è stato, secondo me, un limite teorico di questa intrapresa. Il problema di fondo aperto e irrisolto da allora è quello della trasformazione storica del capitalismo crepuscolare e il vuoto teorico legato all’incapacità di pensare queste trasformazioni e le forme e le strutture di una eventuale società futura per come viene (o non viene) configurandosi in questa processualità stessa e dei soggetti (classi) attive in essa.


4. Problemi teorici e pratici


Alla questione organizzativa il PCI aveva dato una risposta estremamente efficace affrontando in maniera seria e consapevole i problemi di un partito di massa e della sua vita/gestione, pur con tutti gli inevitabili limiti e criticità legate al mastodonte che così venne creato. In realtà, la tenuta elettorale di quel partito anche dopo Berlinguer e i disastrosi anni Ottanta dimostra quanto solido fosse il legame, il grande cemento ideologico di solidarietà che ha resistito a lungo anche come PDS e resiste in parte tuttora come Partito democratico, per quanto sempre meno queste formazioni politiche avessero e abbiano a che spartire con il comunismo e con la sua più nobile eredità. Ciò è accaduto nonostante il PCI sia rimasto sorpreso dal ‘68 e ad esso estraneo, osteggiato dal terrorismo di destra e di sinistra degli anni settanta, dall’ostracismo degli anni ‘80 e devastato dal collasso sovietico. (Notoriamente le scelte di fondo del PCI furono criticate “da sinistra” come consociative e come un tradimento della prospettiva rivoluzionaria almeno a partire dagli anni sessanta e poi sempre di più negli anni settanta da diversi gruppi e fazioni alcuni dei quali optarono per la “lotta armata”. Detto sommariamente e al netto delle controversie sugli anni di piombo, pare a me che gli stessi gruppi terroristici non avessero poi tanto chiaro che cosa fare in caso di successo. L’incapacità di coinvolgere le masse nei loro piani mi pare indicare come la questione dei soggetti fosse anche da loro inadeguatamente intesa; anche le prospettive trasformative apparivano tutt’altro che ben definite; dalle varie “risoluzioni strategiche” non mi pare emergere un’immagine concreta di come il mondo futuro si stesse configurando. Al di là della questione delle diverse modalità di lotta e della loro legittimità, mi sembra che nessuno avesse una risposta alle questioni delle trasformazioni epocali in cui ci si trovava ad agire). Purtuttavia, senza una teoria e un’ideologia, una formazione politica non sta in piedi e quell’unione finisce per sgretolarsi. La versione ossificata del marxismo-leninismo non era più proponibile già negli anni settanta e ovviamente non può esserlo oggi; non certo per rinnegarla, ma per comprenderne grandezza e limiti storici, vittorie e sconfitte, verità ed errori. Il nodo fondamentale non è più, a mio modo di vedere, se quella teoria fosse giusta o sbagliata; si tratta di comprendere invece che si è passati a una nuova fase del modo di produzione capitalistico; quella teoria, o meglio la sua inevitabile semplificazione a uso politico, non può non adeguarsi a questo passaggio se ha la pretesa di incidere in esso. Non solo da un punto di vista teorico, ma anche pratico due nodi paiono a me centrali; 1) come nel capitalismo crepuscolare si riconfiguri la nozione tradizionale di classe operaia come soggetto antagonista privilegiato (questione dei soggetti storici); 2) come si lasci pensare l’autogoverno razionale di una società non capitalistica; ciò include una ricostruzione critica e non una mera damnatio memoriae dell’esperienza tentata in Unione sovietica (questione della transizione e della società futura).

Senza soggetto e senza prospettiva trasformativa di lungo termine sembra a me difficile rimettere in piedi un progetto politico che non si limiti alla mera difesa al ribasso di quanto si era ottenuto. Non si sta, ovviamente, sostenendo che un’alternativa teorica ai problemi irrisolti rappresenterebbe di per sé una soluzione anche pratica a essi; senza lotte reali e concrete non si fa un passo avanti. Tuttavia, queste lotte non possono non avere delle prospettive, degli orizzonti di senso da realizzare che possano fungere da scopo finale dell’azione dei singoli. Senza questa dimensione non è affatto semplice destare, spronare e trasformare le classi in soggetti politici.

Per una rinascita di un movimento comunista degno di questo nome e del suo passato pare a me siano dunque necessarie nuove ricostruzioni e analisi scientifiche, anche in senso filosofico di fondo; esse sono un elemento non certo unico ma quanto meno essenziale e ineludibile. In questo senso credo che serva fare i conti con Marx, con una ricostruzione critica e filologica non meramente della sua teoria “economica”, ma del suo progetto di disamina della società capitalistica come un tutto articolato. Essa non è identica come tale al marxismo – anche se ovviamente a esso è collegata – ed è tutt’altro che contraddetta, nelle sue linee di fondo, dagli sviluppi odierni del capitalismo contemporaneo; in verità essa è stata l’unica in grado di prevederne correttamente le dinamiche di lungo periodo (cosa che è riuscita assai peggio a quelle teorie mainstream che si è preferito abbracciare con i noti esiti disastrosi). Se riletta in maniera filologicamente accurata, pur nel suo stato incompiuto e in parte invecchiato, essa rappresenta un solido punto di partenza teorico per rispondere, tanto per cominciare, alle due domande di cui sopra: soggetti storici e transizione. Sono, a mio modo di vedere, quelle domande che sono sul tavolo e senza risposta dagli anni settanta.

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