... eppur si muove.
Nel contesto dei "Venerdì critici
", con ricercatori giovani e meno giovani discuteremo di estetica, storiografia, teorica politica, classici del marxismo.
A presto aggiornamenti, per adesso un teaser :) :)
Il testo è ora raccolto in Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni
Tra Dante e Marx. Noterelle sull’azione storica
1. In occasione del centenario dantesco vorrei sviluppare qualche noterella sulle sue riflessioni di teoria politica. Che, tra le istituzioni universali, il primato spetti all’imperatore piuttosto che al papa, che la loro conflittualità, lo scarso interesse del primo alle questioni “italiane” ecc. giochino effettivamente un ruolo nella governance mondiale, ai nostri occhi non appare onestamente un tema rilevante, almeno in questi termini. Significa questo che i problemi teorici affrontati da Dante, il contesto in cui la sua riflessione si articola non abbiano niente su cui farci riflettere? Ovviamente no. Tra i temi più interessanti, a mio parere, figura la complessa relazione tra istituzioni, bene universale, e le “parti”, nonché la questione dell’efficacia del “ben fare” rispetto al corso storico.
Limitandosi ai cosiddetti canti politici (il sesto di ciascuna cantica), già nel discorso su Firenze di Ciacco – punito nel III cerchio dell’Inferno tra i golosi – emerge il tema delle “parti” (qui i guelfi bianchi e i guelfi neri) e della loro lotta intestina:
(Inferno, 74-75).
Il problema tuttavia non riguarda solo chi agisce a fin di male; com’è noto, pure coloro che “a ben fare posero gli ingegni”, che non agirono per superbia, invidia o avarizia ma nella prospettiva del bene comune, saranno dannati se non avranno accettato la volontà divina e il suo piano provvidenziale. Dante, ricordando alcuni dei protagonisti della vita politica fiorentina del suo tempo, chiede:
(Inferno, 79-82).
(Inferno, 85).
Passiamo adesso al VI canto del Purgatorio; l’invettiva di Sordello – il più famoso dei trovatori italiani che Dante incontra nel secondo balzo dell’antipurgatorio tra i peccatori morti violentemente – indica nell’assenza della salda guida dell’imperatore la causa principale dell’instabilità politica della penisola italica. Essa sta a fondamento tanto delle lotte fratricide tra grandi famiglie, feudatari ecc., quanto della crisi di Roma. La situazione è così drammatica che Sordello “osa” interrogarsi, provocatoriamente, sull’imperscrutabilità dei piani divini e sullo iato tra essi e la tragica realtà che si mostra agli occhi dell’attore politico del tempo:
(Purgatorio, 118-123),
Infine, nel sesto canto del Paradiso – secondo cielo di Mercurio, dove Dante incontra gli spiriti giusti – si ha un più preciso riferimento all’errore di Guelfi e Ghibellini, i “partiti” del tempo. Giustiniano, icona dell’impero universale, afferma che essi o lottano contro il vessillo imperiale, il “pubblico segno” – i guelfi –, o se ne appropriano indebitamente facendone un simbolo di parte e non universale – i ghibellini:
(Paradiso, 97-102).
Seguendo le indicazioni dei passi menzionati, lo schema che si delinea pare il seguente. La responsabilità morale e politica è individuale e l’errore ha due origini gerarchicamente articolate: da una parte essi nascono dal cadere vittima del peccato, vale a dire agire per avarizia, brama di potere, invidia. Qui, a differenza di altri passi, non viene inserita nella lista la lussuria; aggiungendo quest’ultima il quadro è un grande classico (maschilista): potere, denaro, donne. Ciò detto, c’è però un secondo livello, vale a dire sbaglia altrettanto ed è destinato alla dannazione colui che, pur mirando a valori universali, lo fa non abbracciando al contempo la prospettiva trascendente, divina. Il “ben fare” non basta. Una prospettiva puramente laica dell’agire politico, per quanto sincera e alta, non è sufficiente.
Di fronte agli individui e alle loro responsabilità si ergono delle istituzioni universali, rispettivamente il papato e l’impero, rispetto alle quali essi hanno dei doveri spirituali e politici. Sia l’imperatore che il papa devono agire in vista del bene comune e rifuggire il particolare. Il rapporto tra universale e particolare è diretto: il secondo sta immediatamente sotto il primo e gli risponde individualmente. Questo rapporto immediato era reso più complesso dall’esistenza dei comuni, ma essi valevano come uno, come del resto i feudi, di fronte all’imperatore, l’universale politico, che quindi aveva il dovere di raccoglierli in una unità. Il prevalere del peccato e del vizio e l’apparente limitatezza del ben fare in ciascuno dei poli di questo rapporto portava all’inesorabile instabilità che affliggeva la realtà contemporanea. Le parti paiono dunque aggregati di individui che si uniscono nella ricerca di un particolare.
A valutare dalle numerose invettive dantesche contro Firenze, Pisa, Siena, l’Italia nel suo complesso, vari imperatori, innumerevoli papi, pare difficile dire quando un sistema così strutturato sia stato efficace nella storia… praticamente mai. La sua teorizzazione – esposta in modo più esplicito e “scientifico” nel De Monarchia – vale dunque solo come, diciamo, ideale regolativo, come dover essere che pone l’obiettivo di un’armonia che non esiste nel momento dato, ma che a ben vedere non è mai esistita neppure in passato, se non in dei mitici tempi andati per i quali Dante non dà riferimenti storici esatti.
Qui, inesorabilmente, viene fuori la questione del piano provvidenziale: se nell’azione umana non prevale la ragione e lo spirito, o se l’azione umana, seppur condotta in conformità a ragione e spirito, non produce un mondo giusto e pacificato, non si può che ipotizzare l’esistenza di un piano razionale e pacificato che trascenda le capacità di comprensione individuali e che si renda manifesto solo nel viaggio ultraterreno. Il viaggio terreno non ha senso in se stesso, ma lo acquista nella prospettiva escatologica dell’aldilà; l’anima individuale, nel mondo, si salva dal mondo. Il mondo come tale gli individui non riescono a salvarlo o a governarlo; poiché la presenza di Dio si manifesta ma non si lascia comprendere pienamente, si ipotizza che ci sia un piano imperscrutabile, un governo più alto esperibile ma non concettualizzabile nella sua concretezza. Bisogna solo fare quello che è giusto fare per salvare la propria anima, senza garanzia alcuna che ciò porti a un effettivo miglioramento della realtà dal punto di vista dell’attore vivente, ma con la fede incrollabile che questa azione abbia senso in quanto razionale e divina.
Si noti a questo punto che, se questo governo più alto ci sia – piano provvidenziale – o non ci sia – sorte o fortuna –, dal punto di vista pratico delle capacità di gestione dell’attore nel mondo non cambia niente: il mondo resta ingovernabile. Infatti, rispetto a questa semplificata ricostruzione dello schema dantesco, la modernità ha dapprima cercato di riformulare in termini razionalistici l’idea del piano provvidenziale, per poi abbandonare l’idea stessa di un piano e lasciare il mondo a se stesso nella sua meccanicità materialistica o, addirittura, nella sua irrazionalità costitutiva, comunque senza finalità.
2. Qual è il tentativo marxiano in questo contesto? Nasce sicuramente dall’eredità hegeliana. Essa, letta laicamente, si configura come una ricostruzione a posteriori di una razionalità che si è già dispiegata nella storia mostrando di avere una finalità: lo sviluppo dello spirito non è meramente meccanico ma segue una tendenzialità; Hegel afferma che essa è effettiva, in quanto si è mostrata nella storia come una struttura razionale che la razionalità stessa, esistente in forma cosciente nel filosofo, è in grado di comprendere e spiegare. Certo, a giudicare dalle sue lezioni sulla filosofia della storia, neppure in passato i momenti storici in cui il reale è stato razionale sono stati poi molti, ma comunque Hegel formula livelli di razionalità sostanziale – le epoche della storia nella Filosofia del diritto – che hanno delle linee di sviluppo che, a posteriori, si lasciano ricostruire come svolgimento finalistico dello spirito. Questa comprensione tuttavia ci dice dov’è andata la storia e perché [1], ma non ci dice dove andrà.
Qui arriva l’ambizioso Marx: dire dove la storia andrà. È un’ambizione piena di problemi e probabilmente non si lascia sciogliere nell’ottimistica autoaffermazione di una società futura che non solo nasce come potenzialità, ma che addirittura si realizza scalzando più o meno necessariamente quella capitalistica. Questa filosofia della storia in senso fortissimo è stata criticata da ogni versante, anche all’interno dello stesso marxismo e variamente riformulata, fino agli estremi di un ritorno al rapporto dell’individuo/individui con la contingenza (o il caso che dir si voglia). Credo che questa sia una strada che finisce per perdere la sostanza del materialismo storico. A mio modo di vedere la soluzione intermedia la si trova nella capacità marxiana di teorizzare la finalità attiva nel presente: non tanto di dire che ci sarà necessariamente il passaggio a una società futura, ma nel mostrare come il presente abbia delle linee di tendenza ancora non propriamente in atto, non completamente sviluppate. La teoria marxiana permette di comprenderle e di indicare verso quali sviluppi si tenderà all’interno del modo di produzione capitalistico, affinché esso si realizzi pienamente. Non è una finalità escatologica: non è né trascendente (Dante) né ricostruibile solo rispetto al passato (Hegel), ma formulata a partire dalla comprensione scientifica del presente e rivolta al presente (nel senso dello sviluppo dell’epoca presente, non del necessario passaggio a un’epoca futura). Non è quindi neppure una filosofia della storia forte come quella della tradizione marxista, ma non è neppure il ritorno a un destrutturato rapporto tra gli individui e il caso (o pochissimo strutturato sulla base di una ricostruzione delle contingenze via via date).
In base alla comprensione di queste tendenzialità si può cercare di formulare un’azione storica e politica razionale non in virtù di una fede incrollabile o di un’intuizione felice a proposito del corso della storia nel momento corrente, ma in virtù di leggi e tendenze che configurano soggetti e una loro azione possibile [2]. Con questo, a Marx sarebbe riuscita la magia di trasformare la filosofia (o la teologia) in una scienza non dell’aldilà o del dopo, ma dell’ora e, quindi, forse, anche in uno strumento pratico per cambiare il mondo [3].
Note:
[1] Ciò non significa che la storia sia finita ma che è compiuta fino a questo momento; ciò anzi indica l’alba di una nuova epoca dello spirito della quale però non si può dire niente prima che essa stessa si sia compiuta.
[2] In questo contesto è un tema particolarmente delicato il rapporto tra il tutto e le parti, ovvero tra individui, soggetti collettivi, totalità che, evidentemente si articola in maniera assai diversa rispetto a quanto accadeva in Dante. Il nodo della questione, che qui evidentemente non può essere trattata, è evitare la riduzione dei soggetti storici a meri individui (l’acme dell’ideologia borghese che si ripresenta in varie salse libertarie anche a sinistra) o a generici processi transindividuali (l’irrazionalismo delle non meglio definite ere) e/o alla loro “narrazione”.
[3] Alcune ulteriori considerazioni su questo punto nel mio Note provvisorie per una Teoria della Rivoluzione.
Da "La città futura" del 30/12/2022
di Roberto Fineschi, Presidente dell'Associazione
È sorta l'Associazione culturale Laboratorio Critico che si prefigge, sulle orme del lascito di Alessandro Mazzone, di costituire un punto di riferimento per coloro che intendono arricchire la militanza con l'indispensabile substrato teorico.
1. Dieci anni fa moriva Alessandro Mazzone, rilevante figura intellettuale del marxismo italiano. Nell’occasione della ricorrenza alcuni ex-studenti - “i mazzoniani” - insieme alla figlie hanno deciso di dar vita a un’associazione culturale dal nome Laboratorio Critico. Il suo obiettivo non è una mera commemorazione rituale, ma la ripresa e il rilancio di un approccio critico, di un metodo di studio, di un campo di ricerche che oggi faticano a trovare spazio non solo nel panorama universitario, ma in quello intellettuale in senso più ampio.
Qualcuno potrebbe affibbiare la generica etichetta di “marxismo” a questo ambito culturale; al di là dei luoghi comuni e delle intenzioni dispregiative, se ben intesa, non credo che questa sarebbe alla fine una definizione sbagliata o in contraddizione con le intenzioni di Mazzone. L’importante è intendersi. Se il marxismo è il tentativo di trovare un nesso plausibile tra la riflessione teorica e la sua “traduzione” pratica o, viceversa, di formulare spiegazioni sistematiche e razionali a prassi storiche, sicuramente è questo un contenitore all’interno del quale l’operazione che si sta cercando di mettere in piedi si colloca. Il contesto è quella della complessa mediazione tra teoria e prassi.
In questa prospettiva, una deriva da evitare è il “prassismo”, vale a dire la riduzione della teoria a mera ancella della pratica, a formulazione posticcia e strumentale dell’azione immediata o spontanea dei soggetti politici (del resto non meglio definiti e/o occasionalmente individuati nella contingenza). È una strada esiziale che facilmente degenera nell’opportunismo e nel tatticismo senza strategia (se in qualche modo riesce a darsi una forma organizzata), o peggio in mera manovalanza del nemico se resta informe. L’altro estremo, altrettanto pernicioso, è il teoreticismo fine a se stesso, una turris eburnea fatta di bizantinismi e di un nuovo latinorum che, difficile da leggere, fornisce astratti formulari buoni per i convegni e per confondere le poche buone idee sopravvissute rendendole a loro volta inutilizzabili.
Il marxismo teorico a cui si ambisce è invece un tentativo di formulazione, evidentemente a partire dalla teoria marxiana del capitale, di un contesto quadro, epocale, di funzionamento del modo di produzione capitalistico. La formulazione del vecchio Moro è rimasta notoriamente incompiuta, ma già in questa sua forma ha dimostrato capacità di previsione che nessun altro apparato teorico è stato in grado di eguagliare. Accontentarsi di questo ovviamente non avrebbe senso, ma ne ha ancora meno gettare alle ortiche quanto di buono è stato fatto e che non è stato superato da altri paradigmi teorici. Ecco, questo è il punto: si ritiene che il paradigma teorico sia solido; di nuovo: incompleto, migliorabile, sviluppabile, ma ciononostante solido nelle strutture portanti. L’associazione muove da questo punto di partenza e, sulla scia della lettura che né ha dato Mazzone, cercherà di orientarsi in due direzioni:
1) da una parte alfabetizzazione, nel senso di organizzare seminari, progetti, pubblicazioni che non solo non lascino morire questo patrimonio, ma che aumentino il numero di persone che hanno dimestichezza con esso. Infatti c’è una differenza profondissima tra ascoltare Tizio che ti racconta come funziona il capitalismo e studiare con metodo, sistematicità e tempo la teoria marxiana del Capitale. O tra orecchiare che le classi sono in conflitto e studiare il Manifesto. Un processo formativo non può non passare dalla “ri-digestione” personale di un lascito teorico. L’associazione intende creare le occasioni affinché ciò possa accadere, da una parte organizzando seminari di lettura, dall’altra “fidelizzando” chi ha intenzione di imbarcarsi in questa avventura: i pur importanti eventi pubblici saranno relativi a occasioni specifiche, ma nella sostanza si preferirà lavorare con i membri, cioè con coloro che accetteranno il gratificante onere di seguire un percorso in cui ci si sarà da faticare con lo studio personale;
2) dall’altra realizzare/pubblicare ricerche più specialistiche, sempre a partire dal lascito di Mazzone e dagli sviluppi che un certo orientamento degli studi ha avuto in Italia e all’estero.
Ma non è questa tutta teoria? E la pratica? Questa obiezione è quella ingenua del prassismo, ovvero di chi si illude che qualsiasi tipo di formazione intellettuale debba essere immediatamente spendibile nella mia attività politica di oggi pomeriggio. Invece qui l’obiettivo è sviluppare una serie di nozioni teoriche che permettano di conoscere la “grammatica” del modo di produzione capitalistico. Capirne i meccanismi di fondo è la premessa perché io, oggi, questa settimana, questo mese, riesca a comprendere come ciò che sto facendo nella mia attività politica di ora si collochi in un processo più ampio che ha delle linee di tendenza solo alla luce delle quali posso formulare delle strategie e quindi dare un senso, un orizzonte e un contesto alla mia azione puntuale. Sapere come funziona il corpo umano non cura a priori tutte le malattie, ma dà al medico la possibilità di capire se la persona che gli sta di fronte sta bene o male e di stabilire che cosa è necessario fare per curarla. Le cose non stanno diversamente per chi si prefigge lo scopo di cambiare il mondo per renderlo un posto migliore. Se è sbagliato limitarsi a interpretarlo (il malato non guarisce se non si passa alla cura), è altrettanto vero che senza interpretarlo quanto più correttamente possibile non si riesce a cambiarlo (il malato non guarisce se gli do la cura sbagliata).
Con tutti i limiti di un’associazione di questo tipo, ci si auspica di contribuire almeno un po’ alla ripresa del dibattito teorico informato e del processo trasformativo della realtà effettuale.
2. Il primo risultato concreto dell’associazione è stata la pubblicazione di una raccolta di scritti di Alessandro Mazzone del periodo 1999-2012 con il titolo Per una teoria del conflitto. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la Rete dei comunisti e raccoglie importanti contributi di carattere teorico-politico in cui l’autore si è sforzato di scendere dal rarefatto mondo dell’astrazione filosofica a quello più concreto e complesso del conflitto storico-politico, di cui la riflessione teorica stessa è parte integrante. Il testo si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo. A conclusione troviamo un importante contributo che getta un ponte tra la riflessione teorico-politica più diretta e la possibilità di un approfondimento di tipo più formale legato alla dimensione filologica della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA2).
Chi fosse interessato al libro o all’attività dell’associazione, può consultare il sito laboratoriocritico.org.
Originariamente apparso su "Marxismo oggi", 2005/2
Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
Ratzinger, a Roma via Friburgo
Glauben heißt nichts
anderes
als die Unbegreiflichkeit Gottes
ein Leben lang auszuhalten
1. Il “pastore tedesco”
L’evento è stato mondiale, oggi più che in passato. L’esposizione mediatica cui la Chiesa Cattolica (d’ora in poi CC) è stata sottoposta sotto Giovanni Paolo II ha reso l’elezione pontificia un fatto più internazionale che mai. Chi gode della parabola o delle fibre ottiche avrà ammirato in varie lingue – dall’inglese al francese, passando per il tedesco – agonia e funerali del fu regnante, preparativi ed elezione del nuovo: una vera e propria ubriacatura eterea.
Della concezione politico-sociale di fondo – o della Dottrina Sociale che dir si voglia – della CC si è già detto in passato (vedi Contraddizione, n. 77), vediamo che riflessioni si possono fare oggi a proposito del nuovo pontefice: Joseph Ratzinger. Il “pastore tedesco”, come è stato beffardamente ma efficacemente battezzato dal quotidiano “Il manifesto”, ha sfatato la consuetudine per cui chi entra papa esce cardinale; dato per vincente dai bookmaker, ha pagato poco chi ha scommesso su di lui: entrato papa è uscito papa col nome di Benedetto XVI.
Nato in Baviera nel 1927 in una famiglia profondamente cattolica da padre gendarme, non è tuttavia filo-nazista – così si legge nella sua autobiografia1 – anzi vive con apprensione l’entrata in guerra e la politica espansionistica hitleriana. Non ancora diciottenne, Joseph prenderà parte al conflitto nella contraerea – ma lui non spara – quando l’esercito tedesco era arrivato ad arruolare perfino i ragazzini. Studia teologia e si fa la fama di “liberal”, tanto che, giovanissimo, partecipa al Concilio Vaticano II come consulente del cardinal-arcivescovo di Colonia Frings; i buontemponi in rosso lo battezzano bonariamente il “teenager” in quanto, allora poco più che trentenne, tale sembrava in mezzo a tante cariatidi. Il “’68” rappresenta però una svolta decisiva nella sua vita, soprattutto nell’atteggiamento; il nostro rimane infatti scioccato dalla “violenza” e dal relativismo del movimento studentesco. Alla ZDF – la televisione di stato tedesca dove avevano già pronto un film sulla storia del neopontefice la sera stressa dell’elezione! – in un’intervista ad un testimone si dice che rimase scioccato dall’irruzione in aula di un gruppo di studenti, nel corso di una manifestazione, che gli tolse parola e microfono. Soprattutto che la CC fosse vista con il baluardo del “vecchio” da spazzare via lo colpì profondamente; l’acme di questo travaglio fu raggiunto quando su di un muro lesse: “Cristo è mio nemico”.
Lo sviluppo successivo della sua carriera ci porta ai giorni nostri: pubblica come teologo da posizioni sempre più rigide, tanto che lo stesso Paolo VI – entrato in conclave progressista, uscito conservatore2 – nel 1977 lo fa arcivescovo di Monaco e l’anno successivo cardinale. Nel 1981 si ha il penultimo decisivo passaggio: prende il timone del Sant’uffizio, edulcorato oggi in Congregazione per la dottrina della fede, che guida fino al momento in cui sale – a furor di conclave: pare abbia preso 95 voti su 115 disponibili – al soglio col nome di Benedetto XVI.
2. Il background dell’elezione. Il paladino della conservazione
Se non è qui possibile dire adeguatamente del papa precedente, si potrà almeno notare che, al di là della celebrazione mediatica, Giovanni Paolo II non passerà alla storia per essere stato un papa progressista.3 Eletto col precipuo scopo di lottare contro il comunismo, sotto il suo pontificato la CC ha registrato un progressivo arroccamento su posizioni ultratradizionaliste. Questo lo si poteva capire anche solo guardandogli intorno: fra i suoi supporter principali figurava l’Opus Dei – la assai discussa organizzazione spagnola filo-franchista, critica radicale del Concilio Vaticano II simbolo dello sbando della chiesa contemporanea –, oppure dall’identikit dei collaboratori che si è scelto, uno per tutti: il Segretario di Stato, cardinal Sodano, amico intimo del caro Pinochet. Per non dire poi degli scandali politico-finanziari legati allo IOR – la banca vaticana – su cui la Santa Sede ha impedito di indagare ulteriormente.
Fra questi collaboratori, fra le figure di primissimo piano, spiccava il cardinale Joseph Ratzinger che, come si è detto, fu messo a capo di uno dei dicasteri chiave, diciamo l’officina ideologica di Santa Romana Chiesa, il Sant’uffizio. Se si prendono come pietra di paragone alcune delle soluzioni più innovative del Concilio Vaticano II si ha un’idea della chiusura che si è avuta in tempi recenti: di fronte alla auspicata collegialità nella gestione della CC si è avuto un accentramento sempre più forte del potere nelle mani del solo pontefice – o di chi lo esercitava al suo posto considerate le sue condizioni negli ultimi anni di regno; a dispetto dell’auspicato maggior peso dato ai laici non si sono visti passi significativi in questo senso; se poi per l’ecumenismo qualcosa si è fatto, si è fatto anche contro con i tentativi di proselitismo nella Russia dei fratelli ortodossi e soprattutto col documento ufficiale della ratzingeriana Congregazione per la dottrina della fede – Dominus Jesus – in cui si riafferma l’extra ecclesiam nulla salus, o al divieto delle Eucaristie comuni con i protestanti. Se guardiamo alla liturgia ed alle sue forme, recenti sono i divieti – a dire il vero poco o per nulla rispettati nelle parrocchie – contro l’uso delle chitarre alla messa, contro le derive dalla liturgia canonica, contro le ragazze chierichetto che potrebbero far cadere in tentazione il prete che celebra. Tale sessuofobia di stampo tridentino riemerge d’altronde nella condanna delle pratiche sessuali prematrimoniali, nel divieto della contraccezione – con le criminali conseguenze che questo comporta per es. in Africa a proposito del contagio di massa da AIDS – e degli omosessuali è meglio non parla proprio. E via dicendo: niente matrimonio per i preti, pur non esistendo nessun vincolo evangelico al proposito, e le donne in casa a fare la calza, Maria come modello. Ratzinger in persona non ha mai visto di buon occhio neppure che siano stati girati gli altari – notoriamente prima del Concilio Vaticano II il prete dava le spalle alla comunità – né l’abbandono del latino come lingua liturgica; a molti non sarà sfuggito che la messa funebre di Giovanni Paolo II è stata detta in tale affascinante lingua morta. Per chi non lo sapesse, poi, il dogma dell’infallibilità ex cathedra del papa quando si pronuncia su questioni di dottrina è relativamente recente, è stato cioè sancito nel corso del Concilio Vaticano I, da Pio IX nel 1871, mentre l’esercito italiano entrava a Roma ponendo fine al potere temporale dei papi. Tale atto “progressista” è stato recentemente rafforzato attraverso l’estensione dell’infallibilità a questioni di dottrina “ordinaria” – motu proprio papale Ad tuendam fidem (1998) –, a testimoniare come la centralità teologica e politica del papa sia un elemento tutt’altro che secondario agli occhi di chi oggi in Vaticano comanda (quindi alla bella faccia dell’ecumenismo e della collegialità della gestione della chiesa). Infine solo una menzione alla Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede del gennaio 2003 ai cristiani in politica; in essa, al di fuori di ogni tentativo di condizionamento, si dice categoricamente che cosa essi devono fare per comportarsi correttamente.
Molte di queste decisioni sono state prese direttamente, o indirettamente influenzate, dall’allora cardinal Joseph Ratzinger. 4
Per riprendere lo schema tracciato da Gramsci nei Quaderni dal carcere, il potere Vaticano si divide grosso modo in tre correnti: i modernisti, che, detto più che sommariamente, cercano di “aggiornare” la dottrina cattolica in senso appunto “moderno”, ossia legato ad una fede più riformata che controriformata; gli integralisti, legati al neotomismo che si rifanno al Sillabo di Pio IX, alla chiusura radicale alla “modernità” (ossia ai principi democratici introdotti a partire dalla Rivoluzione francese); ed i gesuiti nel mezzo che utilizzano passato e moderno a seconda delle circostanze per mantenere il controllo fattuale del potere. Come atteggiamento esemplare di questa politica realistica Gramsci indica l’operato di Pio XI che, per quanto dottrinalmente non si distacchi dai suoi intransigenti predecessori, usa l’Azione cattolica e diversi elementi “popolari” per recuperare il terreno perduto dalla “cultura” cattolica in alcuni decenni di cieca chiusura.5
In questo conclave il rappresentante “modernista” era il cardinal Martini, che aveva recentemente parlato della necessità di un Concilio Vaticano III, di libertà per i preti di scegliere se sposarsi o meno, di collegialità nella gestione della Chiesa. Proprio Ratzinger ha commentato che poiché già sui risultati del Concilio Vaticano II era ancora necessaria una “profonda riflessione”, di un terzo non se ne vedeva francamente la necessità. Le serie preoccupazioni legate all’elezione di un papa che si presenta come il baluardo della conservazione sono state al centro di tutti i dibattiti televisivi su CNN, BBC, France 5 e ZDF – sulla RAI si sono trasformati in accenni fra le laudi, anche su questo piano gli ultimi della classe.
Sarà un papa della continuità nel segno della conservazione? Così si annuncia, ma solo i fatti ce lo diranno. Le premesse sono quelle dette.
3. Il cristianesimo secondo Ratzinger
Se questo è il quadro in cui inizia il pontificato di Benedetto XVI , ci si può legittimante chiedere quale sia la concezione del Cristianesimo e della Chiesa che ispira la sua azione. Assai chiarificatore risulta in questa direzione un testo del neopapa, la sua (relativamente) celebre Introduzione al Cristianesimo, scritta nel 1968, tradotta in varie lingue e più volte ristampata. Come si vedrà, se la dottrina ufficiale della CC è ad oggi quella di San Tommaso, essa si integra bene qui con le correnti di pensiero più attuali ed entra a pieno titolo, per questa via, nella lotta delle idee contemporanea. Premetto che, a mio modestissimo parere, Ratzinger non passerà alla storia della speculazione mondiale. Posso sbagliare, ma la sua riflessione, come avrò modo di mostrare successivamente, su molti punti decisivi sembra fare acqua o prestare il fianco a obiezioni forti. Ciò detto, questo poco cambia al peso storico-politico che simili prese di posizione possono avere grazie proprio all’attività pratica del nostro. Non è neppure detto che lui riesca ad attuare le sue idee, la storia è beffarda in questo senso, ma capire come la vede può aiutare a interpretare meglio quello che fa.
Il caso ha voluto che il volume in mio possesso,6 che ho acquistato in una libreria dell’usato, sia stato regalato dall’Autore medesimo a chissà chi nel lontano 1978. Sul retro della copertina si può leggere la dedica autografa che sintetizza efficacemente la sua concezione del Cristianesimo: “Credere non significa altro che sopportare l’ineffabilità di Dio per una vita intera”.7 Il resto del paragrafo sarà dedicato alla spiegazione di questa frase.
Ratzinger non è un ottimista. Significativamente la premessa al libro si apre con la seguente frase: “La questione di quale sia il contenuto ed il senso del credo cristiano è, oggi come mai prima nella storia, avvolta da una nube di incertezza” (p. 5). Ed assai più cariche di tragicità esistenziale sono le immagini evocate per descrivere la condizione del credente: un uomo aggrappato all’albero maestro di una nave che si inabissa nell’oceano in tempesta; è il simbolo dell’uomo attaccato alla croce, ma la croce non è attaccata a niente, pencola sul baratro del nulla (p. 16). Le immagini sono suggestive e romantiche, la fede appare non come un credo quia absurdum perché l’assurdità sarebbe già un punto fermo: è un credo nonostante tutto o meglio nonostante il nulla. Questo avvio non è casuale ed esplica pienamente l’attitudine del nostro: la fede non è pacificante, ma è una continua scelta di fronte all’abisso del nulla. L’uomo che sta per essere inghiottito dal nulla si aggrappa alla croce e da essa cerca senso e salvezza, ma niente garantisce razionalmente la saldezza della croce sul baratro.
Questa condizione di incertezza è dichiarata comune al credente ed al non-credente, infatti nessuno dei due può escludere categoricamente che non possa essere l’altro ad avere ragione. Alla fine entrambi fanno una scelta di fronte all’incertezza assoluta del reale: “Il «forse» è l’ineludibile confutazione, a cui non ci si può sottrarre, in cui anche egli [il non-credente], nel rifiuto, fa necessaria esperienza dell’irrifiutabilità del credere. Detto diversamente: il credente e il non-credente sono entrambi partecipi, ognuno a suo modo, del dubbio e della fede, se non si nascondono a se stessi ed alla verità del loro essere. Nessuno dei due può eludere completamente il dubbio o la fede; per l’uno la fede è presente contro il dubbio, per l’altro essa è presente attraverso il dubbio e nella forma del dubbio. Questa è le condizione fondamentale del destino umano…” (p. 19).
La realtà del mondo è il nulla e Dio non vi è esperibile, questo è il fondamento del dubbio: Egli non appartiene alla dimensione del visibile e del toccabile, è invece ad essa alieno in linea di principio, non meramente in chiave cronologica o topica. La prospettiva della fede è un “rovesciamento” di quella sensibile, esperibile: “L’uomo è essenza che guarda, alla quale lo spazio della sua esistenza appare delimitato dallo spazio della vista e del tatto. Ma in questo spazio della vista e del tatto, che determina l’essere-in-luogo dell’uomo, Dio non lo si trova e mai ve lo si troverà per quanto questo spazio possa essere allargato … Dio non è semplicemente adesso, fattualmente, al di fuori del campo visivo, ma è colui che non si sarebbe capaci di vedere neppure se fosse possibile andare oltre; no, egli è colui che sta per essenza al di là, per quanto il nostro campo visivo possa essere allargato” (pp. 21s.). Quindi credere significa che il campo dell’esperibile non può essere considerata la totalità dell’esperienza umana. L’opzione per la fede è ritenere che “ciò che non è possibile vedere, che in nessun modo può entrare nel campo del visibile, non sia il non-effettuale, il non-reale, bensì, al contrario, [la fede è ritenere che] ciò che non si può vedere rappresenti addirittura il vero effettuale, il vero reale, ciò che fa da sostrato e rende possibile ogni realtà effettiva … Tale atteggiamento è raggiungibile invero solo attraverso ciò che in linguaggio biblico si chiama «mutamento» [Umkehr], «conversione» [Bekehrung]” (p. 22). Poiché questa inversione vive essenzialmente nelle condizione del dubbio e dell’insicurezza, la fede è un sempre ripetuto salto nel baratro, nell’abisso.
Il problema del rapporto fra tradizione e progresso, topico nel ’68 innovatore, è quindi non una falsa questione, ma quantomeno secondaria, che rischia di distogliere dal punto vero e proprio. Di fatto in qualunque fase della storia dell’uomo la condizione è sempre quella dell’incertezza ed il nuovo non dà alcuna garanzia di maggiore sicurezza. La tradizione ha al contrario la forza della pratica abitudinaria e della consuetudine. Un tempo la tradizione era il saldo punto di riferimento, ritenuto in quanto tale una sicurezza, il ’68 – e più in generale la modernità – vuole invece il progresso. La teologia cattolica – a dire il vero Ratzinger rimanda a se stesso in nota – tende sempre più a leggere la tradizione come la vera nuova forma di progresso.
Poste tali premesse, Ratzinger cerca di tracciare un rapido schizzo dello sviluppo degli atteggiamenti filosofici principali della storia del pensiero. In particolare l’attenzione è volta al rapporto fra Essere immutabile [Stehen] e Realtà effettuale [Wirklichkeit], che è cambiato nel tempo.
L’antichità è il periodo in cui si studia la natura dell’essere, l’ontologia, ciò che è tale perché immutabile nel suo essere. Il transeunte ha valore metafisico secondario. La scienza dell’eterno è episteme, conoscenza in senso forte, ciò che viene fatto è competenza invece della tecne che non è scienza vera e propria. Lo storicismo rappresenta il primo drastico cambiamento di prospettiva e lo si fa risalire a Vico per la teoria secondo cui “il vero è il fatto”. Attenzione al fatto che si può conoscere perché è l’uomo che lo ha posto in essere. Prima invece era l’essere il concetto centrale (p. 29). Con la matematizzazione della riflessione si afferma pienamente la mentalità della misurazione propria dell’epoca contemporanea. Risalire alla causa. Per questo la teoria del fatto dà conoscenza effettiva perché in questo ambito possiamo risalire alla causa e la conoscenza della causa è la unica conoscenza effettiva. Nell’oceano del dubbio, il fatto rappresenta il nuovo punto fermo per la costruzione dell’esistenza umana. Così la storia sta accanto alla matematica ed è adesso l’unica vera scienza. Tutto diventa storia, Hegel per un verso, Comte per un altro trasformano perfino l’essere in un processo storico. Marx l’economia, Darwin l’evoluzione.
Il secondo cambiamento drastico avviene con l’avvento del pensiero tecnico. Non più il fatto, ma ciò che deve essere fatto, il faciendum è il nuovo fondamento ontologico (emblema di questa concezione è la Tesi 11 di Marx). Dice Ratzinger: “La verità con la quale ha a che fare l’uomo non è né la verità dell’essere né alla fine quella delle sue azioni passate, bensì è la verità del cambiamento, della formazione del mondo, una verità riferita al futuro ed all’azione” (p. 32). Questo porta dal dominio della storia al dominio della tecnica. Poiché la ricerca della verità dei fatti non sembrava supplire alla verità speculativa, allora non si credette che alla verità delle cose che si possono ripetere. Il modello scientifico dell’esperimento e della ripetibilità misurabile, unione di fatti e matematica è il nuovo criterio assoluto di verità.
In questo quadro Ratzinger si chiede quale sia il posto della fede. In primo luogo la teologia ha sbagliato nel seguire la riflessione su questo terreno, mettendo la fede sul piano storico. Poiché la crisi dello storicismo ha deluso anche le aspettative di una interpretazione storica della fede basata sulla conoscenza dei suoi presupposti storici, si è cercato di rifugiarsi nella dimensione del faciendum con la Teologia della liberazione che quindi condivide la stessa erronea illusione della modernità, ovvero cercare Dio nel mondo reale, presente o futuro che sia, con mezzi oggettivi.8
Al rapporto sapere/fare, proprio dell’impostazione storicistica e tecnicistica, Ratzinger contrappone quello essere immutabile/capire [Stehen-Verstehen]; non è detto che le due coppie siano antitetiche, ma sono certo distinguibili. Infatti, già l’ellenismo ebbe la tendenza erronea ad intellettualizzare la fede: “La fede verrebbe intellettualizzata, invece di esprimere l’essere immutabile sul saldo fondamento della fidata parola di Dio, essa viene messa in relazione col comprendere intellettuale e con l’intelletto e con ciò sviata su un piano assai diverso e del tutto inadeguato … la fede è infatti il consegnarsi al non-fatto-da-sé e mai fattibile, che proprio per questo fa da fondamento e rende possibile tutto il nostro fare” (p. 37).
Si rende chiaro a questo punto quando fino ad adesso era implicito sullo sfondo, ma già palese probabilmente agli addetti ai lavori: si rimanda alla distinzione heidegeriana fra pensiero calcolatore e pensiero della coscienza. Il primo è quello del calcolo e del Faciendum, il secondo è quello del Senso dell’essere. I due sono paritetici ed alternativi e si aderisce ad uno o all’altro per scelta; la fede è naturalmente legata al secondo. Quindi “ogni uomo deve, in una qualche forma, prendere posizione nell’ambito della decisione fondamentale e non si può che decidere in base al proprio credo. È un campo che non ammette risposta diversa da quella di un credo ed è proprio questo che nessun uomo può aggirare. Ogni uomo deve, in un qualche modo, «credere»” (pp. 38-39). Che cosa è allora la fede, veramente? La risposta ormai è chiara: è un modo di stare la mondo non riducibile al sapere; c’è un qualcosa che precedere non solo la conoscenza, la lo stesso fare dell’uomo, un fondamento, un senso che lui riceve come dato e che come tale non può essere conosciuto attraverso il sapere e il fare (p. 39).
Ciò detto, Ratzinger vede profilarsi una possibile critica di irrazionalismo: se pr scegliere fra conoscenza razionale e conoscenza intuitiva non esiste criterio alcuno, giustificazione dimostrabile possibile come dire che è in qualche modo razionale decidersi per la fede? Bisogno allora mostrare come la fede abbia delle ragioni o meglio come essa sia intrinsecamente logos, senso, fondamento, anche se ciò non sta sul piano della conoscibilità razionale, bensì su quello del senso che si dà (p. 41). Credo – Amen è tutta la struttura fondamentale della professione di fede apostolica – il testo che agli occhi di Ratzinger esprime il cuore del cristianesimo. La ricerca che si basa invece su ciò che può essere fatto finisce sempre per rimandare alla misurabilità ed al dato quindi non cerca la Verità, il Senso, ma la giustezza e la correttezza. Non cerca l’in sé, cerca il per noi. Al posto della ricerca dell’essere subentra la ricerca dell’utile. Invece il concetto di verità prende le distanze da quello di calcolabilità: Verità, senso, fondamento, logos, questo è il fondamento della fede. Questa forma altra di comprensione la si chiama Verstehen, capire: “La forma in cui l’uomo riceve il suo rapporto con la verità dell’essere non è il Sapere, ma il Capire: Capire il Senso a cui ci si è affidati. E invero si dovrà aggiungere che solo nell’essere immutabile [Stehen] si apre il Capire [Verstehen], non al di fuori di esso. L’uno non si dà senza l’altro, poiché Capire significa cogliere e comprendere il Senso, che si è ricevuto come fondamento, come Senso vero e proprio. Penso che questo sia il significato preciso di ciò che chiamiamo Capire: che noi impariamo a cogliere il fondamento, sul quale ci siamo posti, come il Senso e la Verità; che noi impariamo a conoscere che il fondamento rappresenta il Senso” (p. 43). Così la tecnica non può ottenere quello che può invece il discorso su Dio, discorso che capisce, che è capace del logos, quindi razionale; tale discorso è la teologia e questa razionalità è il diritto dei greci nel cristianesimo.
Fondata la fede è giunto il momento di fondare la chiesa. Di nuovo: il modo per entrarvi e la “svolta”, la Kehre la cui paternità viene attribuita esplicitamente a Heidegger. La professione di fede apostolica è la formula che al meglio esprime lo spirito della chiesa e di questa svolta: struttura dialogica che implica l’accettazione di un dato; la fede viene dall’ascolto della parola donata, la filosofia dal riflettere (pp. 51-53). E la collettività e la dialogicità sono tanto più necessari quanto non tutti hanno un accesso privilegiato a Dio, quelli che non ce l’hanno abbisognano di colloquiare con gli illuminati per godere almeno di luce riflessa. Questo insieme è la chiesa e solo come tale essa corrisponde alla struttura dialogica della fede (p. 55). Se tutti fossero mistici non ci sarebbe bisogno del dialogo, invece alcuni Dio non lo vedono direttamente. La comunità è quindi il cammino dell’uomo verso Dio, un cammino che l’uomo può e deve percorrere e che, come mera conoscenza, non avrebbe forza.
Per sintetizzare: 1. la condizione dell’uomo è quella nichilistica della distuzione di tutti i valori, la realtà è l’abisso del nulla; 2. questa condizione è comune a tutti, non esiste alcuna forma di conoscenza razionale che possa cogliere il senso di questo nulla, il dubbio assoluto è quindi anche dell’ateo sul suo ateismo; 3. esiste però una via che si vuole arazionale – non irrazionale – per cogliere il fondamento, quella dell’ascolto della parola, del mistero che si rivela al di fuori delle vie conoscitive moderne (distinzione fra comprensione via calcolo e via coscienza che sono fra loro sostanzialmente alternative, irriducibili e avrebbero all’inizio pari validità conoscitiva; ci si professa per una delle due per fede, ma poi in realtà la seconda è quella autentica); 4. l’ascolto di questa parola diventa il fondamento della realtà effettuale, ma non per via dimostrativa, piuttosto per comprensione nella comunità cristiana della verità di quel messaggio attraverso il convincimento fondante; si vorrebbe poi questo convincimento “razionale”.
In Vaticano è sovrano un heideggeriano. Questa sorprendente conclusione alla fine non è neppure tanto strana e mostra una volta di più come il pensiero del filosofo tedesco si presti un po’ a tutti gli usi; questo, del resto, non tanto per la malafede o tendenzionsità di chi lo legge, quanto per la sua intrinseca natura. Infatti, se l’essere che si svela celandosi lo chiamiamo Dio, se la tradizione che accettiamo come manifestazione dell’essere è quella cattolica, il discorso fa poche pieghe. C’è poi l’ascolto della Parola, la svolta, la critica della conoscenza scientifica, ecc. ma la faccio breve, soprattutto perché non mi interessa mostrare nei dettagli che Heidegger sia la fonte ispiratrice di questa concezione, del resto l’autore stesso non pare farne mistero. Mi pare più interessante invece mostrare come questo messaggio, benché suggestivo, non si sottragga a critiche che si possono esprimere anche in parole povere e che forse ha qualche senso sottoporre all’attenzione del lettore.
Ad A. Che un approccio esistenzialista radicale sia quello più idoneo per comprendere il posto dell’uomo nella realtà mi pare tutt’altro che scontato, soprattutto tutte da discutere sono le premesse implicite in tale atteggiamento. Tanto per iniziare lo “uomo in generale” non esiste; solo da tempi relativamente recenti infatti questa categoria è emersa nel pensiero occidentale. Se nasce col Cristianesimo – tutti siamo figli di dio – solo con la Rivoluzione francese diventa legge di Stato – senza scordarsi, fra l’altro, che la schiavitù è stata abolita in svariati luoghi successivamente a questo evento. La domanda fondamentale dell’uomo quindi varia da periodo storico a periodo storico e lo stesso soggetto che se la pone non è mai l’uomo in generale, ma un francese, un italiano, ecc. che vive in un determinato momento. Questo non significa d’altra parte abbandonarsi ad un relativismo assoluto, infatti questi diversi periodi possono essere pensati come aventi delle leggi di funzionamento specifiche che è possibile ricostruire (questo se non altro è l’oggetto della filosofia di Hegel e di Marx). Proprio perché possiamo definire obiettivamente diversi periodi storici, si può sostenere che l’uomo in generale possa essere pensato come astrazione che però si attua sempre in condizioni sociali determinate. Invece di tenere insieme Universale e Particolare (l’uomo in generale come risultato di processi sociali storicamente determinati), l’heideggerismo tende a separarli e ad affermare da una parte il relativismo assoluto delle condizioni, dall’altra l’assolutezza del fondamento al di fuori di esse. La tragicità esistenzialista nasce proprio dalla pretesa fissità di questa scissione. Il problema filosofico vero è elaborare delle teorie del processo storico, non dire semplicemente che le cose cambiano (questo sarebbe il processo storico) ed angosciarsi nel cambiamento alla ricerca di un punto fermo (pretendendo fra l’altro che tale angoscia personale sia la condizione universale dell’uomo).
L’altro punto centrale è quello del “forse”: non si può escludere che il credente abbia ragione. Ma qualcuno avrebbe risposto: “ignorantia non est argomentum”, ovvero: il fatto che una cosa non si possa escludere non significa che sia un qualcosa di reale, tanto meno che possa essere fondamento di alcunché. Perché possa essere ritenuta fondamento bisogna mostrare perché. È, al solito, il tentativo irrazionalista di nullificare le capacità conoscitive umane sancendo l’impotenza della ragione. Ma il fatto che non si sia mai finito di conoscere e che determinate tesi siano sempre sottoposte – e necessariamente da sottoporre – a verifica è una garanzia della capacità critica della ragione, non della sua impotenza. Dire che una tesi non è vera perché di essa si può dubitare (senza dire perché ed in relazione a quali elementi concreti) è un po’ da sciocchini in verità e non sottrae dall’obbligo – come si pretenderebbe – di dimostrare le tesi alternative, che non possono certo essere prese per buone solo perché sono al momento astrattamente ammissibili.
Ad B e D. A questa controcritica si cerca di rispondere attraverso la tesi per cui Dio non sarebbe conoscibile sul piano dell’esperienza, anzi ne sarebbe alieno in linea di principio. L’argomento va spesso insieme alla distinzione fra due vie della conoscenza, quella della razionalità, su cui si appiattisce indistintamente il calcolo matematico, la misurabilità scientifica ed il ragionare umano in genere, e la via della coscienza e dell’esperienza vissuta. Questa due vie sarebbero di fatto alternative e porterebbero a risultati conoscitivi diversi e contrapposti. Solo la via della coscienza porterebbe alla conoscenza effettiva del fondamento, che, fra l’altro, viene concepito come fisso ed immutabile.
Anche senza citare Hegel, per cui il vero ateo è quello che afferma che dio non è conoscibile (razionalemente), si può guardare con un certo scetticismo una tesi che spezza in modo così radicale non solo fede e sapere, ma capacità intellettuale e conoscenza immediata. Ma ancora più importante è rendere noto che gran parte della storia della filosofia è consistita nel tentativo di mostrare come le due dimensioni siano tutt’altro che antitetiche e che anzi facciano parte di un’organica via alla conoscenza anche se con delle distinzioni, che però sono di grado e non assolute. Solo con l’irrazionalismo – una delle tendenza più retrivamente reazionarie del mondo moderno e contemporaneo, sempre risorgente nelle forme più svariate – questa scissione viene presa per radicale proprio per ridimensionare le possibilità – democratiche e progressive alla fin fine – della conoscenza razionale. Hegel, al solito, dà il posto che compete alla conoscenza immediata, intuitiva; afferma solo che sbagliato è pretendere che essa sia quello che non è, ovvero conoscenza razionale, dimostrativa (che non significa matematizzabile, si chiamerebbe dialettica). Perché in realtà la pretesa ratzingeriana è doppia: da una parte si dice “questa è la verità” e dobbiamo prenderla per buona, dall’altra ci si esime elegantemente dall’onere di dimostrare perché dicendo che non è possibile. La verità resta però quella, perché la sento come tale. Ma come può essere universale ciò che sento io? Come posso stabilire che sia quello che sentono anche gli altri? E come sindacare se quello che sento sia vero o falso, giusto o no? Non esiste alcuna via percorribile e quindi si apre la strada all’affermazione arbitraria di concezioni del mondo, talvolta divine, talvolta ultramateriali. Con quali mezzi ad esempio confutare le tesi naziste? Se loro si sentono così e il piano dialogico della discussione/dimostrazione è espunto in partenza… non resta che picchiarsi.
L’altro errore/sciocchezza è che la ragione sia meramente meccanica e strumentale e che neghi il sentimento dell’uomo, parte integrante della sua essenza che quindi va recuperato. Ma in realtà sempre Hegel distingueva efficacemente e in modo lungimirante fra un approccio strumentale della ragione, che egli chiamava dimensione intellettuale del sapere (quella fra l’altro delle scienze empiriche che non è solo utile, ma legittima e necessaria al sapere nel suo complesso, ma che non esaurisce il concetto di ragione come tale), la cultura dell’immediato che pretende di conoscere Dio attraverso la legge del cuore e la ragione vera e propria, ovvero il discorso razionale, dialettico, sulla realtà (approccio che non pare poi così diverso, ad es. dal procedimento aristotelico di discussione degli endoxa). Il ratzingerismo invece fa sparire tendenziosamente questa terza dimensione e riduce la ragione a mera ragione strumentale; ciò non è casuale ovviamente: si vorrebbe con ciò far credere cioè che alla “ragione” – ridotta a calcolo tout court – c’è una sola alternativa possibile, la legge del cuore; scartata la conoscenza razionale (ma in realtà intellettuale) l’unica alternativa sarebbe l’irrazionalismo mistico cotto in varie salse. Ahiloro, non è così: c’è anche la dialettica.
D’altronde, il tentativo di Ratzinger di recuperare una dimensione razionale a tale approccio irrazionalistico attraverso il Verstehen, ovvero dicendo che la fede rappresenterebbe il vero logos, appare in verità piuttosto verbalistico soprattutto perché non si capisce in che cosa dovrebbe consistere la razionalità della cosa.
Ad C. Per la sua sommarietà ed il suo schematismo, la ricostruzione storiografica non meriterebbe in verità molti commenti e, a mio modesto parere, vale poco e si spiega tutta con la prospettiva gnoseologica sopra evidenziata. Ciò che fa emergere è il suo carattere esistenziale e la sua preoccupazione classista. Ratzinger ha paura delle cose che cambiano, più ferme stanno meglio le controlla. Quindi tradizione è sinonimo di sicurezza, di stabilità. Il marxismo, per prenderne una a caso, e tutte le filosofie che teorizzano il cambiamento sono quindi da condannare. Non bisogna cambiare ma ascoltare il fondamento che ha già parlato attraverso la tradizione. In realtà questo tipo di approccio è quello veramente positivista perché la realtà va accettata per come è e quindi i fatti come sono rappresentano l’assoluto che si è manifestato. In ogni caso, benché all’inizio si fosse detto che si trattava di un credo, che non si può dire quale sia la scelta giusta, ecc., una volta che ha scelto Ratzinger è abbastanza deciso nell’affermare la sua fede. Perché più ci crede più essa è vera.
Per menzionare solo due punti discutibili fra i molti, ci sarebbe da notare che la distinzione fra i due tipi di conoscenza che Ratzinger riprende da Heiddeger (calcolatrice e coscienziale) trova un assai significativo antecedente nella celebre distinzione operata da Dilthey fra conoscenza del mondo naturale e conoscenza del vissuto storico al quale Heiddeger stesso rimanda esplicitamente. Il caso vuole che Dilthey sia considerato quasi unanimemente il padre, o uno dei padri, delle Storicismo tedesco, sì, proprio del tanto deprecato storicismo di cui il ratzingerismo, piegandolo esistenzialisticamente, finisce per essere una delle tante varianti. E mi pare curioso anche mettere in luce come, nel tentativo di elaborare una filosofia radicalmente antipositivistica e per certi aspetti non lontana dall’heiddegerismo, la filosofia dell’atto di Gentile prenda le mosse esattamente dall’assunto vichiano per cui la “verità è il fatto”, principio in cui Ratzinger vede l’origine del positivismo (senza entrare nel merito della legittimità dell’interpretazione gentiliana di Vico). Forse un’analisi più attenta almeno di questi punti era consigliata.
Due parole infine sul fatto che Ratzinger torni spesso su termini che hanno a che fare col “rovesciamento” dell’approccio sensibile alla realtà, come Kehre, Bekehrung, Umkehr. Alcuni lettori ricorderanno che l’attacco radicale che risale a Feurbach – e che Marx farà suo – del misticismo che lui credeva di Hegel (e che forse più propriamente apparteneva alla destra hegeliana) consisteva proprio nel “rovesciarne” [Umkehrung] la prospettiva: prima il reale poi l’ideale, prima la realtà poi le idee, prima il sensibile poi l’astratto. Questa auspicata nuova “svolta” pare proprio il tentativo di tornare ad un approccio mistico, di cancellare in un sol colpo non solo la dialettica, ma anche i progressi del materialismo “volgare”.
Ad E. Si trova poi anche il modo di garantire la gerarchia ecclesiastica travestendola da comunitarismo: proprio perché alcuni sanno meglio ed altri peggio è necessario che questi si parlino; se tutti sapessero potrebbero evitare di parlarsi. Ma parlarsi è bello ed avvicina a Dio e quindi l’ineguaglianza gnoseologica costituisce il fondamento della struttura gerarchicamente comunitaria della Chiesa; naturalmente non si deve far altro che rispettare tale struttura, altrimenti finisce il dialogo salvifico fra uomini e uomini e Dio.
* * *
Adesso sappiamo perché il nuovo papa è attaccato alla tradizione e vede nel cambiamento un pericolo, nella conservazione la salvezza. Sappiamo anche come mai è profondamente pessimista, perché il fondamento di tutto è indimostrabile e crederci è atto da rinnovare continuamente sull’abisso del nulla.
Più in generale si può osservare che l’avversione al Vaticano II ed alla modernità in genere ed il ritorno al cattolicesimo della controfirma, del Concilio di Trento hanno fatto un salto in avanti: se i teologi antiliberali di fine ‘800 inizio ‘900 riproponevano ad oltranza la dottrina di San Tommaso contro il mondo moderno, adesso la reazione, anche quella cattolica, ha nuove armi, ovvero ha messo insieme un certo tipo di scolastica con l’esistenzialismo e l’irrazionalismo, ha dato veste contemporanea a cose vecchie e vecchissime, ha confuso la gioia e la speranza del messaggio cristiano con la paura del nulla, per venire a Roma è passata da Friburgo.9
1 Appena la nuova edizione: J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005. Per un profilo più breve vedi anche Joseph Ratzinger, Der konservative Sinnstifter, sulla “Frankfurter Allegemeine” del 20 aprile e Josef Ratzinger, le gardien de la doctrine, su “Le monde” del 21/4.
2 Cfr. G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia Repubblicana, 2**, Torino, Einaudi, 1995, pp. 299ss.
3 Lo si evince persino leggendo a campione, con un minimo di spirito critico, la monumentale biografia agiografica scritta da Gorge Weigel – Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, Milano, Mondadori, 2001. Lo spessore reazionario del suo pontificato emerge se non altro dal tentativo dell’autore di eludere come “inadeguata” la distinzione fra destra/sinistra, conservazione/progresso.
4 Dal recente libro di Giancarlo Zizola – esperto conoscitore di cose vaticane, sincero cattolico che si potrebbe dire senz’altro modernista – emerge chiara la preoccupazione legata a certe scelte filotradizionaliste ed anticonciliariste di Giovanni Paolo II. In tutti questi casi appare chiaro che il movens delle prese di posizioni papali è Ratzinger che viene più volte di fatto presentato come il protettore più estremo non della tradizione ma del tradizionalismo tridentino in Vaticano. È il nome più citato nel capitolo “Le sacre rivincite della Restaurazione”. Cfr. G. Zizola, L’altro Wojtyla. Riforma, restaurazione e sfide del Millennio, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
5 Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975, pp. 2088ss. Non si parlerà qui del relativo declino dei gesuiti e dell’emergere di formazioni assai più minacciose considerandone il cieco integralismo come ad es. la menzionata Opus Dei, Comunione e liberazione in Italia, I legionari di Cristo in Messico, ecc.
6 J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 19773 (ed. orig. 1968). Recentemente ripubblicato in italiano col titolo Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico della fede, Brescia, Queriniana, 2003.
7 È la traduzione dell’esergo. Assai curiosa pare a me l’abbreviazione autografa della firma, graficamente infatti è un “abbasso”, ovvero una W rovesciata. Se infatti prendete la “j” di Joseph e la inclinate verso sinistra, poi la “r” di Ratzinger e la inclinate invece verso destra e quindi ne incrociate le basi, il risultato è appunto un abbasso.
8 Notoriamente, come capo del Sant’uffizio, Ratzinger è stato alla guida di un drastico movimento di repressione della Teologia della liberazione, condannando ufficialmente i suoi esponenti più autorevoli – Boff fra tutti – ed incoraggiando capillarmente la sostituzione fisica o l’emarginazione di tutti i vescovi che non prendessero nettamente le distanza da essa.
9 Heidegger, come è noto, vi insegnava all’università. Ratzinger non ha abbandonato i toni apocalittici del passaggio nella valle di lacrime neppure recentemente, facendovi riferimento nell’omelia per la morte di Giovanni Paolo II e per quella di Don Giussani.
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