di Luigi Cavallaro
su il manifesto del 07/01/2007
Nel suo ultimo saggio, edito da Carocci, Roberto Fineschi dimostra attraverso un'analisi rigorosa dei testi come il limite del dibattito sui rapporti fra metodo marxiano e dialettica hegeliana consista nel non essere mai usciti dall'ottica interpretativa dell'autore del «Capitale»
Il rapporto Marx-Hegel è uno dei luoghi classici del marxismo. Da Althusser a Colletti, da Croce (e Gentile) a della Volpe, da Lukács a Popper, la bibliografia sul tema è sterminata e ha dato luogo a interpretazioni antitetiche, in cui il metodo marxiano è stato di volta in volta definito «dialettico-hegeliano», «dialettico-antihegeliano», «antidialettico-antihegeliano-empirista», e così via. Ed è proprio nell'approccio a un tema così complesso che possiamo nuovamente apprezzare la competenza con cui nel suo importante volume Marx e Hegel. Contributi a una rilettura (Carocci, pp. 206, euro 18), Roberto Fineschi sta procedendo nel suo scavo di lungo periodo all'interno della problematica marxiana.
Fineschi è un maratoneta della filologia. La sua esposizione (sempre chiara nonostante l'obiettiva complessità dei temi affrontati) rifugge da ogni sensazionalismo: niente frasi a effetto, niente slogan, solo una paziente e rigorosa analisi dei testi condotta sulle versioni originali, dei cui termini-chiave non di rado egli offre nuove traduzioni, in modo da svelarne l'essenza categoriale. Non che trascuri la letteratura secondaria, beninteso: lo confermano diciassette pagine fitte di bibliografia in coda al volume. Solo che ogni affermazione, interpretazione o traduzione proveniente da quanti hanno scritto su Marx e Hegel è da lui sottoposta a una rigorosa verifica diretta sui testi di Marx e Hegel, in modo da evitare quanto più possibile quel ricorrente equivoco che si genera quando l'intentio lectoris (specie se lettore «autorevole») si sovrappone, soffocandola, all'intentio operis.
È figlio di questo metodo il principale risultato che lo studio di Fineschi offre al dibattito: a suo avviso, infatti, le ambiguità che concernono il rapporto fra Marx e Hegel scaturiscono non soltanto dal modo in cui si legge Marx, ma soprattutto dal modo in cui «lo stesso Marx si rapporta al problema del metodo (e a Hegel come autore di riferimento)». Il limite di fondo che, secondo Fineschi, ha afflitto il dibattito sul metodo marxiano e sui suoi rapporti con la dialettica hegeliana consiste infatti «nel non essere usciti dall'ottica interpretativa di Marx»: è la sua interpretazione di Hegel che non è mai stata posta in discussione, dai marxisti come dai non marxisti, ed è di qui, a suo avviso, che originano gli equivoci e i paradossi che hanno intessuto la querelle, a cominciare da quello famoso di Lucio Colletti, che rinnegò il marxismo quando si rese conto che dentro c'era ... la dialettica!
Per dimostrare il proprio assunto, Fineschi procede in primo luogo a una ricognizione approfondita dei testi marxiani, in modo da mettere in luce ciò che cambia nell'analisi del pensatore di Treviri man mano che abbandona la temperie filosofica giovanile. I luoghi principali sono quelli classici (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e i Manoscritti del 1844, poi la celebre Introduzione del 1857 ai Grundrisse e l'altrettanto celebre Poscritto alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale) e la sua analisi testuale mostra che la vera «presa di distanza» che Marx compie nelle opere della sua maturità concerne non Hegel, ma - potremmo dire - il modo in cui la sua «anteriore coscienza filosofica» aveva interpretato Hegel.
Emblematica, in questo senso, è l'Introduzione del '57, non a caso scritta dopo che, «by mere accident», Marx aveva riletto la Scienza della logica: qui, a più riprese, egli sente il bisogno di avvertire che il duplice processo di risalita dal concreto all'astratto (al fine di porre le «determinazioni più semplici») e di ridiscesa dall'astratto al concreto (al fine di riprodurre quest'ultimo come «unità del molteplice») sarebbe cosa differente dal metodo hegeliano di «concepire il reale come il risultato del pensiero» e più volte rimarca che l'«errore di Hegel» consisterebbe nel credere che il pensiero produca effettivamente il reale, invece di limitarsi a riprodurlo «come un che di spiritualmente concreto».
Il problema - obietta a ragione Fineschi - è che questa è precisamente l'interpretazione che la «Sinistra hegeliana» (Bauer e Feuerbach su tutti) aveva dato di Hegel, trasformandolo in una specie di «Spinoza+Fichte»: una interpretazione che considerava la Fenomenologia dello Spirito (e in particolare il capitolo dedicato al Sapere assoluto) come lo snodo concettuale decisivo per intendere l'intera filosofia di Hegel. Testi alla mano, Fineschi mostra però che quell'interpretazione non regge: che il processo di comprensione coincida con la creazione oggettuale delle cose Hegel non lo pensa né lo dice, al punto che, nell'Introduzione del '57, Marx - evidentemente condizionato dalla propria «anteriore coscienza filosofica» - finisce con l'attribuire a Hegel una visione del rapporto fra pensiero e realtà che però, anche terminologicamente, è fichtiana e che proprio nella Fenomenologia Hegel aveva criticato.
L'errore in cui è rimasto imprigionato il dibattito Marx-Hegel è, in altri termini, quello di confondere Hegel con l'idealismo soggettivo: tutta l'infinita polemica su materialismo e idealismo si fonda su questo falso presupposto, nonostante gli studiosi di Hegel abbiano chiarito «ad nauseam» il carattere oggettivo dell'idealismo hegeliano. Quando si sia sgombrato il campo da questa erronea credenza - e va ascritto a merito di Fineschi l'averla rivelata come tale, con un procedimento non dissimile da quello che, in un suo studio precedente (Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del «capitale», La Città del sole, 2001), lo aveva portato a denunciare il carattere spurio della famigerata «teoria del valore-lavoro» - la questione diventa un'altra, cioè stabilire in cosa diverga la teoria marxiana del divenire storico rispetto a quella hegeliana, individuando i soggetti e le forme di codesto divenire. È qui che, in effetti, potrebbe emergere un limite della Darstellung hegeliana, che la renderebbe irriducibile a quella marxiana dell'Introduzione del '57. Per quanto la discussione ferva tutt'ora tra gli studiosi hegeliani, non sono in pochi, infatti, a sostenere che Hegel non sviluppa la logica del reale in base alla sua struttura interna, ma impiega all'uopo una logica generale in sé svolta. «L'empirico è quindi surrettiziamente inserito in una deduzione logica a priori e coartato dentro regole di una logica ad esso estranea», scrive Fineschi. Invece, la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, che Fineschi giustamente colloca al centro della teoria marxiana della storia, impone di costruire una «logica peculiare dell'oggetto peculiare», ossia una logica per ciascuna di quelle loro possibili «unità» che sono i «modi di produzione» storicamente determinati.
C'è d'altra parte una tensione irrisolta nel pensiero marxiano, e bene fa Fineschi a metterla in rilievo. Per quanto cioè Marx si sforzi di fuoriuscire dalla teoria (pseudo-)hegeliana della storia come alienazione dell'essere generico per dedicarsi alla costruzione di una propria teoria, basata appunto sulla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nemmeno lui riesce a venire completamente a capo delle idee vecchie che si ramificano in tutti gli angoli della mente e in più di un luogo - specie quando evoca la frusta problematica dell'«alienazione» - sembra ricondurci verso il mondo aporetico di Bauer e Feuerbach.
Si tratta probabilmente di un altro aspetto di quella «tensione latente tra la teoria marxista e il comunismo di Marx» che - secondo Etienne Balibar - è stata spinta all'estremo dalla riflessione di Louis Althusser. E poiché, proprio in questi giorni, salutiamo anche l'arrivo in libreria della prima traduzione integrale di Leggere Il Capitale (pubblicato da Mimesis nella collana «Althusseriana», pp. 428, euro 30), possiamo sperare che, avendo Fineschi rimesso finalmente la questione coi piedi per terra, si ricominci a discuterne in modo più produttivo. Magari all'insegna del compiacimento con cui Lenin annotava, a conclusione del suo riassunto della Scienza della logica, che «in quest'opera di Hegel, che è la più idealistica, vi è il meno di idealismo e il più di materialismo».
Fineschi è un maratoneta della filologia. La sua esposizione (sempre chiara nonostante l'obiettiva complessità dei temi affrontati) rifugge da ogni sensazionalismo: niente frasi a effetto, niente slogan, solo una paziente e rigorosa analisi dei testi condotta sulle versioni originali, dei cui termini-chiave non di rado egli offre nuove traduzioni, in modo da svelarne l'essenza categoriale. Non che trascuri la letteratura secondaria, beninteso: lo confermano diciassette pagine fitte di bibliografia in coda al volume. Solo che ogni affermazione, interpretazione o traduzione proveniente da quanti hanno scritto su Marx e Hegel è da lui sottoposta a una rigorosa verifica diretta sui testi di Marx e Hegel, in modo da evitare quanto più possibile quel ricorrente equivoco che si genera quando l'intentio lectoris (specie se lettore «autorevole») si sovrappone, soffocandola, all'intentio operis.
È figlio di questo metodo il principale risultato che lo studio di Fineschi offre al dibattito: a suo avviso, infatti, le ambiguità che concernono il rapporto fra Marx e Hegel scaturiscono non soltanto dal modo in cui si legge Marx, ma soprattutto dal modo in cui «lo stesso Marx si rapporta al problema del metodo (e a Hegel come autore di riferimento)». Il limite di fondo che, secondo Fineschi, ha afflitto il dibattito sul metodo marxiano e sui suoi rapporti con la dialettica hegeliana consiste infatti «nel non essere usciti dall'ottica interpretativa di Marx»: è la sua interpretazione di Hegel che non è mai stata posta in discussione, dai marxisti come dai non marxisti, ed è di qui, a suo avviso, che originano gli equivoci e i paradossi che hanno intessuto la querelle, a cominciare da quello famoso di Lucio Colletti, che rinnegò il marxismo quando si rese conto che dentro c'era ... la dialettica!
Per dimostrare il proprio assunto, Fineschi procede in primo luogo a una ricognizione approfondita dei testi marxiani, in modo da mettere in luce ciò che cambia nell'analisi del pensatore di Treviri man mano che abbandona la temperie filosofica giovanile. I luoghi principali sono quelli classici (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e i Manoscritti del 1844, poi la celebre Introduzione del 1857 ai Grundrisse e l'altrettanto celebre Poscritto alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale) e la sua analisi testuale mostra che la vera «presa di distanza» che Marx compie nelle opere della sua maturità concerne non Hegel, ma - potremmo dire - il modo in cui la sua «anteriore coscienza filosofica» aveva interpretato Hegel.
Emblematica, in questo senso, è l'Introduzione del '57, non a caso scritta dopo che, «by mere accident», Marx aveva riletto la Scienza della logica: qui, a più riprese, egli sente il bisogno di avvertire che il duplice processo di risalita dal concreto all'astratto (al fine di porre le «determinazioni più semplici») e di ridiscesa dall'astratto al concreto (al fine di riprodurre quest'ultimo come «unità del molteplice») sarebbe cosa differente dal metodo hegeliano di «concepire il reale come il risultato del pensiero» e più volte rimarca che l'«errore di Hegel» consisterebbe nel credere che il pensiero produca effettivamente il reale, invece di limitarsi a riprodurlo «come un che di spiritualmente concreto».
Il problema - obietta a ragione Fineschi - è che questa è precisamente l'interpretazione che la «Sinistra hegeliana» (Bauer e Feuerbach su tutti) aveva dato di Hegel, trasformandolo in una specie di «Spinoza+Fichte»: una interpretazione che considerava la Fenomenologia dello Spirito (e in particolare il capitolo dedicato al Sapere assoluto) come lo snodo concettuale decisivo per intendere l'intera filosofia di Hegel. Testi alla mano, Fineschi mostra però che quell'interpretazione non regge: che il processo di comprensione coincida con la creazione oggettuale delle cose Hegel non lo pensa né lo dice, al punto che, nell'Introduzione del '57, Marx - evidentemente condizionato dalla propria «anteriore coscienza filosofica» - finisce con l'attribuire a Hegel una visione del rapporto fra pensiero e realtà che però, anche terminologicamente, è fichtiana e che proprio nella Fenomenologia Hegel aveva criticato.
L'errore in cui è rimasto imprigionato il dibattito Marx-Hegel è, in altri termini, quello di confondere Hegel con l'idealismo soggettivo: tutta l'infinita polemica su materialismo e idealismo si fonda su questo falso presupposto, nonostante gli studiosi di Hegel abbiano chiarito «ad nauseam» il carattere oggettivo dell'idealismo hegeliano. Quando si sia sgombrato il campo da questa erronea credenza - e va ascritto a merito di Fineschi l'averla rivelata come tale, con un procedimento non dissimile da quello che, in un suo studio precedente (Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del «capitale», La Città del sole, 2001), lo aveva portato a denunciare il carattere spurio della famigerata «teoria del valore-lavoro» - la questione diventa un'altra, cioè stabilire in cosa diverga la teoria marxiana del divenire storico rispetto a quella hegeliana, individuando i soggetti e le forme di codesto divenire. È qui che, in effetti, potrebbe emergere un limite della Darstellung hegeliana, che la renderebbe irriducibile a quella marxiana dell'Introduzione del '57. Per quanto la discussione ferva tutt'ora tra gli studiosi hegeliani, non sono in pochi, infatti, a sostenere che Hegel non sviluppa la logica del reale in base alla sua struttura interna, ma impiega all'uopo una logica generale in sé svolta. «L'empirico è quindi surrettiziamente inserito in una deduzione logica a priori e coartato dentro regole di una logica ad esso estranea», scrive Fineschi. Invece, la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, che Fineschi giustamente colloca al centro della teoria marxiana della storia, impone di costruire una «logica peculiare dell'oggetto peculiare», ossia una logica per ciascuna di quelle loro possibili «unità» che sono i «modi di produzione» storicamente determinati.
C'è d'altra parte una tensione irrisolta nel pensiero marxiano, e bene fa Fineschi a metterla in rilievo. Per quanto cioè Marx si sforzi di fuoriuscire dalla teoria (pseudo-)hegeliana della storia come alienazione dell'essere generico per dedicarsi alla costruzione di una propria teoria, basata appunto sulla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nemmeno lui riesce a venire completamente a capo delle idee vecchie che si ramificano in tutti gli angoli della mente e in più di un luogo - specie quando evoca la frusta problematica dell'«alienazione» - sembra ricondurci verso il mondo aporetico di Bauer e Feuerbach.
Si tratta probabilmente di un altro aspetto di quella «tensione latente tra la teoria marxista e il comunismo di Marx» che - secondo Etienne Balibar - è stata spinta all'estremo dalla riflessione di Louis Althusser. E poiché, proprio in questi giorni, salutiamo anche l'arrivo in libreria della prima traduzione integrale di Leggere Il Capitale (pubblicato da Mimesis nella collana «Althusseriana», pp. 428, euro 30), possiamo sperare che, avendo Fineschi rimesso finalmente la questione coi piedi per terra, si ricominci a discuterne in modo più produttivo. Magari all'insegna del compiacimento con cui Lenin annotava, a conclusione del suo riassunto della Scienza della logica, che «in quest'opera di Hegel, che è la più idealistica, vi è il meno di idealismo e il più di materialismo».
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