Sunday, 20 December 2020

Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare di R. Fineschi

  1. Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare


Trascrizione leggermente rivista della conferenza tenutasi online il 3 maggio 2020 organizzata dalla Rete dei Comunisti. Video. Inedito.


Lo sforzo di questo intervento è iniziare a pensare le dinamiche di classe, la configurazione dei soggetti che agiscono storicamente e politicamente in quella sottofase dello sviluppo del modo di produzione capitalistico che chiamo “capitalismo crepuscolare”; si vedrà come il nodo della violenza nasca intrinsecamente in seno a queste dinamiche e come la violenza ed il suo inasprimento siano un portato necessario dello sviluppo di strutturazioni sociali complesse.

Uno dei punti chiave di questa fase è la “crisi” del concetto di persona. Il concetto di persona è la chiave logica, istituzionale, giuridica del mondo borghese e per un largo periodo di tempo la sua rivendicazione è stata una lotta progressista; se si pensa al periodo rivoluzionario, conflittuale della classe borghese contro le forze dell'ancien régime, è proprio l'affermazione dell'universalità della persona, dell’uomo in generale come principio che ha carattere assolutamente positivo. Qui già emerge un punto chiave: la storicità di queste categorie; questa storicità implica che una categoria come quella di persona abbia una funzione storicamente progressiva in un determinato momento di sviluppo dei rapporti di forza e che possa averne una negativa, o diversa, in altre fasi. Perché nella teoria di Marx, che fa da orizzonte di riferimento in queste considerazioni, un concetto chiave è quello della storicità dei soggetti e dei modi di produzione; nel caso specifico ciò significa che, secondo Marx, l’uomo in generale non esiste, la persona astratta non esiste come dato naturale, è piuttosto essa stessa risultato di processi storici, di modificazioni dei modi di produzione che implicano esattamente che questo stesso concetto di uomo in generale si produca storicamente. Si tratta di un punto veramente chiave, perché tutta l’ideologia borghese si basa sul naturalismo della persona, cioè sul ritenere che uomo e persona siano la stessa cosa. Questa è la grande funzione storica della filosofia di John Locke per esempio, che teorizza come i diritti naturali, l’uguaglianza, la libertà e ovviamente la proprietà, facciano parte dello stesso pacchetto.

Se noi pensiamo in termini di persona l’uomo come tale, se riduciamo le nostre rivendicazioni politiche alla personalità, questo ahimè ci vincola a un contesto di senso borghese che non riusciamo a spezzare. Qui il discorso si fa di nuovo complicato: nelle condizioni attuali, per esempio, la rivendicazione dei diritti personali è nuovamente diventata un elemento progressista, perché a molti esseri umani è negata la personalità, quindi rivendicare per loro il diritto a essere persone è chiaramente positivo; non è tanto negare la rivendicazione della personalità il problema, ma credere che questo sia sufficiente, cioè che ristabilire i diritti della persona come tale a livello universale ci liberi dal modo di produzione capitalistico e dallo sfruttamento. Infatti, è proprio il modo di produzione capitalistico a imporre la persona come struttura universale di senso. Di nuovo, Marx ci insegna nei primi capitoli del Capitale ma prima ancora nei Grundrisse, che la persona è la forma di soggettività che ci viene imposta dalla circolazione delle merci: libertà, uguaglianza sono le precondizioni del mercato. Solo in quanto libero e uguale e titolare di proprietà io posso essere uno scambiante ed è proprio il modo di produzione capitalistico che universalizza questo concetto a tutta la specie umana. Ciò ha la sua dimensione progressiva, ma se ci riduciamo a rivendicare libertà e uguaglianza a livello personale ricadiamo in Prudhomme, siamo utopisti, vale a dire che vorremmo gli aspetti positivi del modo di produzione capitalistico, ma senza capire che tali concetti sono il frutto del modo di produzione capitalistico stesso. Molti movimenti libertari, rivendicando la libertà individuale, sono in certe fasi progressisti, ma, se questa posizione si radicalizza, di nuovo si ricade dalla padella nella brace, cioè in una ideologia individualistica che è veramente il fondamento concettuale del modo di produzione capitalistico e della borghesia stessa. 

Il concetto di persona ha due facce: ha la sua dimensione progressiva ed in certe fasi storiche è legittima rivendicazione, però non può essere l’orizzonte di senso di una conflittualità sociale che voglia un cambiamento di struttura; in questo senso Marx insiste nel mostrare che libertà, eguaglianza, proprietà sono una parvenza fenomenica, sono cioè il modo in cui i soggetti del processo si relazionano alla superficie della società, ma non costituiscono l’analisi strutturale della dinamica storica di trasformazione. Secondo Marx, i soggetti strutturali di questa dinamica storica sono le classi. Questa la critica fondamentale al mondo politico, economico, ideologico borghese: i soggetti storici non sono gli individui, sono le classi. Anche qui bisogna stare attenti perché è molto semplice proporre un’interpretazione riduzionistica di classe, che si basa sostanzialmente su parametri sociologici: gli individui nella fabbrica, gli individui che hanno un certo tenore di vita, un certo livello di reddito. Queste non sono classi, sono ceti, cioè raggruppamenti di determinati individui realizzati in base a criteri sociologici. Quella che invece Marx propone è una definizione funzionale di classe, vale a dire fondata sul ruolo che le classi come soggetti, come incarnazione delle forze di produzione, si trovano a svolgere nei rapporti di produzione. Il nesso concettuale fondamentale è il rapporto tra capitale e lavoro salariato, è questo il dualismo di fondo che Marx propone. È una prospettiva molto più ampia della pur complessa e importante figura dell’operaio di fabbrica. In questo senso la funzionalità del lavoro salariato nella prospettiva della valorizzazione con tutte le modifiche che il modo di produzione capitalistico impone alle dinamiche del lavoro sono categorie che funzionano ancora. Di questo mi sono occupato in altri contesti proponendo una distinzione tra forme e figure in cui adesso non posso entrare perché ci porterebbe troppo lontano; il punto chiave è tuttavia comprendere i mutamenti di forma che il processo lavorativo subisce una volta che diventa capitalistico: questi sono sostanzialmente il carattere cooperativo, parziale e appendicizzato del lavoro in una condizione di subordinazione alla valorizzazione del capitale. In questi termini, queste categorie funzionano veramente ad ampio spettro, vanno a individuare come potenziali soggetti politici antagonisti del capitale tutta una serie di figure che in precedenza venivano escluse perché non erano l’operaio di fabbrica o riconducibili all’operaio. In questo senso questa distinzione è molto importante perché apre moltissimo lo spettro di applicazione della teoria marxiana delle classi. Dico questo come premessa necessaria al discorso vero e proprio che adesso vengo ad affrontare.


Il capitalismo crepuscolare. Secondo la teoria di Marx, il modo di produzione capitalistico ha un funzionamento che implica una dinamica, vale a dire che non ripete meccanicamente lo stesso processo identico a se stesso, ma dà a questo processo una direzione, cioè delle tendenzialità di fondo che nel loro progredire modificano la stessa struttura dinamica del processo. Esso non si ripete sempre uguale a se stesso, ma nel suo svolgimento cambia di funzionamento, ha degli aggiustamenti strutturali man mano che progredisce. Il modo di produzione capitalistico funziona in quanto è processo di valorizzazione del capitale, questa, ridotta ai minimi termini, la chiave essenziale del capitalismo: l’investimento di denaro deve fruttare più denaro di quanto originariamente investito. Da dove viene questo surplus? Viene dal pluslavoro, dallo sfruttamento dei lavoratori, e via dicendo. È proprio per aumentare questo sfruttamento, il plusvalore, che il modo di produzione capitalistico modifica sostanzialmente il modo di lavorare e modifica anche la propria struttura. Praticamente, quello che va a fare per aumentare la produttività è aumentare la parte che si investe in macchinari, “capitale costante” lo chiama Marx, quello che non è “capitale variabile”, cioè la forza-lavoro. Questo meccanismo di aumento del capitale costante, quindi l’aumento della produttività del lavoro, permette, per  vari motivi che in questa sede non si possono riassumere, l’aumento dello sfruttamento e quindi della produzione di plusvalore. Questa è una dinamica autocontraddittoria perché per realizzare un plusvalore, per aumentarlo, il modo di produzione capitalistico tende ad escludere il lavoro vivo dal processo di lavoro, attraverso l’automazione, l’incremento della produttività del lavoro. Questa dinamica è di fondo costante però va a cicli, ci sono cicli in cui è più forte ed altri in cui è ridotta; tuttavia, di fondo tende ad aumentare quella che si chiama composizione tecnica ed organica del capitale. Ciò determina trasformazioni per cui, in processi particolarmente avanzati, la necessità di lavoro vivo si riduce sempre di più, perché le macchine riescono a fare prima e meglio e in quantità superiore tutta una serie di produzioni che anteriormente richiedevano un largo impiego di lavoratori. È sotto gli occhi di tutti che grazie all’informatizzazione, all’intelligenza artificiale questo livello di sostituzione del lavoro vivo attraverso le macchine sta raggiungendo livelli impensabili, addirittura andando a sostituire il lavoro intellettuale. Leggevo qualche tempo fa di studi di avvocati che per fare il lavoro di sintesi e raccolta di leggi su di un determinato argomento utilizzano un software che lo fa più rapidamente di un vero e proprio team di persone prima necessario. Addirittura a livello giornalistico la raccolta di articoli su di un determinato soggetto, una specie di resumè del contenuto, adesso la fa un software. Il processo di sostituzione non riguarda più il solo lavoro “materiale”, come si diceva una volta, ma sta investendo anche il lavoro più intellettualmente sosfisticato. Come conseguenza di questo processo avviene un cambiamento strutturale nel modo di produzione capitalistico che riguarda l’esercito industriale di riserva. Nella teoria del capitale di Marx è teorizzata la disoccupazione; quella dell’esercito industriale di riserva è una teoria della disoccupazione. Marx va a spiegare come una larga massa di lavoratori non troverà lavoro. Questa tendenza è definita elastica, cioè va e viene, ha delle dinamiche di espulsione e riassorbimento. Nel capitalismo crepuscolare, proprio a causa di questo incremento spaventoso della composizione tecnica e dell’automazione, tale dinamica dell’esercito industriale di riserva tende a irrigidirsi, a non essere più elastica; di conseguenza, il processo di riassorbimento o è lentissimo o addirittura assente. Questo implica tassi di disoccupazione spaventosi; la flessibilità corrisponde a questa necessità o i mini-job tedeschi: facciamo fare lo stesso lavoro a tre persone dividendo un salario per tre così abbiamo tre occupati invece di uno, ma il salario sommato resta lo stesso. Perché? Perché di fatto c’è una pletora incredibile di forza-lavoro. Questa pletora è la precondizione di tutta una serie di dinamiche che appunto portano alla violenza come ultimo fattore.


In termini generali il modo di produzione capitalistico è un modo di produzione basato sulla violenza perché il suo fondamento, il pluslavoro, è una espropriazione del lavoro dei lavoratori; essa è dunque nel DNA del modo di produzione capitalistico. Si tratta adesso di capire come questa dimensione della violenza si estenda al di là di queste dinamiche di fondo fino ad andare a intaccare le stesse idee borghesi fondamentali, lo stesso concetto di persona. 

Se l’elasticità dell’esercito industriale di riserva è rigida e se l’offerta di lavoro è spaventosamente più ampia della domanda, ciò significa che anche il lavoro qualificato, che anche la potenziale capacità contrattuale del lavoro più sofisticato diminuisce fortemente perché ce ne sono troppi anche di quelli bravi. Non solo troppi “normali” o poco bravi, troppi bravi. Non esiste più una conflittualità basata sul fatto che, poiché questa qualità ce l’ho solo io, tu capitalista devi un po’ venirmi incontro; anche questo tende a scomparire, perché anche il lavoro da ingegnere è sottopagato per l’eccesso di offerta. Al di là delle capacità contrattuali, quello che scompare è un concetto fondamentale dell’ideologia borghese, cioè il rapporto tra merito e realizzazione/guadagno. Nell’ideologia borghese si dice: tu, più studi, più ti impegni e più avrai successo. Non è così, perché, nel capitalismo crepuscolare anche un lavoro altamente qualificato, un forte investimento in “capitale umano” come amano dire gli ideologi contemporanei, non necessariamente rende. Il rapporto merito/lavoro/guadagno è uno dei concetti fondamentali dell’ideologia borghese a partire dal protestantesimo, è un cardine di questo mondo ideale e va a spezzarsi. 

Torniamo alle nostre amate persone di cui parlavamo in precedenza. Che cosa significa essere “persona”? Essere liberi, uguali, avere proprietà, avere capacità di decidere che cosa fare. Ma qual è la condizione strutturale perché questi individui/persone possano fare queste cose? Nel mondo della produzione e circolazione di merci la condizione strutturale è che essi abbiano dei soldi; avere un reddito è la condizione materiale della pratica della personalità. Essere libero nel mercato capitalistico vuol dire poter comprare quello che si vuole; ma se non si hanno i soldi non si può comprare un bel niente. Essere uguali vuol dire poter fare quello che fanno tutti gli altri, ma se non si hanno soldi non si può praticare questa uguaglianza, perché mancano le condizioni materiali. La carenza di lavoro e di reddito mette in crisi materialmente il concetto di persona, in quanto, se la pratica della personalità passa attraverso la disposizione di reddito, il non avere reddito crea la condizione materiale affinché non si possa essere persone. 

Nella prospettiva del singolo individuo che cosa si può fare per essere persone? Avere un reddito. Come si può avere un reddito se non esistono le condizioni di impiego? Qui inizia strutturalmente una dinamica per cui molti individui sono propensi ad avere un reddito in maniera illegale; illegale non vuol dire semplicemente lavorare in nero, ma vuol dire anche raccomandazione, avere una pensione grazie al cugino del ministro ecc. ecc.; tutte dinamiche che permettono di essere persone avendo un reddito; ma - e questo è il punto decisivo - per avere questo reddito ed essere persone si viola il concetto stesso di persona perché non si rispetta, nemmeno a livello formale, la libertà ed eguaglianza delle altre persone. Per avere un reddito e praticare la propria libertà ed eguaglianza si attuano delle pratiche che violano libertà ed eguaglianza. Ciò è necessario perché lo stesso sistema che crea l’ideologia della persona, determina condizioni materiali per cui sia strutturalmente impossibile che tutti diventino persone. Diventa dunque una pratica di massa la violazione della personalità per essere una persona. È una dinamica contraddittoria che culmina nella distruzione ideologica del concetto di persona o quanto meno della sua universalità

Le conseguenze di questa prassi sociale sono fondamentali perché ideologicamente diventano il retroterra del fascismo o di qualunque ideologia razzista. Se non è possibile che persona sia universale non per capriccio, ma perché non esistono le condizioni strutturali  per universalizzarne il concetto, se per essere persone si viola tale concetto, allora perché - pensa l’individuo atomizzato - non organizzare un sistema per cui il concetto di persona non sia universale ma sia sub-universale? Perché non restringere il concetto di persona in base a determinate caratteristiche? Per esempio, per citare fatti storici, gli ariani, perché non consideriamo persone solo gli ariani? Così la mia capacità di accedere alla personalità è meglio garantita, a me ariano ovviamente. Perché non limitiamo il concetto di persona ai soli italiani? Perché non limitiamo il concetto di persona ai soli cristiani? O perché non mettiamo due o tre princìpi insieme e costruiamo una bella ideologia? Ecco la risposta al perché il razzismo, il fascismo, la discriminazione diventano appetibili: perché la negazione della persona universale già esiste nella prassi degli individui che per essere persone violano la personalità. È già nella prassi che si limiti il concetto di personalità; essi già lo fanno, già lo violano. Perché non organizzare questa violazione come un sistema ideologico che garantisca la personalità solo ad alcuni? Allora prima gli italiani, prima quelli del nord, prima chiunque; i più bravi saranno più svelti nello strutturare questo apparato ideologico in una maniera tale che sia pervasivo ed egemonico in chiave retrograda e conservatrice.

Non si tratta di mera fumosa “ideologia”, il risvolto pratico è evidente: se il concetto di persona non è universale, alle non-persone non si deve garantire una pensione, una disoccupazione, la sanità. Alle persone questo suona bene, perché ci sono più soldi per loro. Se io sono italiano e l’immigrato non lo è, io ho diritto a questo e quello e l’immigrato no. Se avesse diritto anche lui, allora io ci perderei qualcosa perché quello che viene speso per lui non viene speso per me. Insomma, un fondamento per la guerra tra poveri. Sono discorsi ideologici che sentiamo tutti i giorni fatti da esponenti politici ben noti. Il meccanismo di fondo è questo e diventa egemonico di massa perché crea strutture corporative, crea un consenso corporativo nei confronti dello Stato nazionale che fa il “Socialismo nazionale”, il Nazionalsocialismo. Il portato ideologico è veramente gigantesco. 


Se noi restiamo nel contesto personale, quello che si configura sono sostanzialmente tre gruppi. Il primo è costituito da coloro che hanno la fortuna di essere persone e che quindi hanno diritti. Parte del secondo sono quei disgraziati che in occidente sono uguali agli altri ma non sono persone perché esclusi. C’è poi un terzo gruppo, enorme, il “terzo” mondo, cioè tutte quelle nazioni e popolazioni che non hanno fatto in tempo ad entrare nella fase progressista del modo di produzione capitalistico; per loro il sogno della persona neanche è un concetto, non ce l’hanno neanche in testa. Il passaggio attraverso la personalità per superarla e acquisire una figura superiore neanche esiste. Per loro personalità significa solo sfruttamento occidentale, senza limiti, schiavizzazione e via dicendo. Il concetto di persona concepito in questa maniera sub-universale, venendo meno nell’occidente stesso, che cosa implica? Implica che la non-persona non sia titolare di diritti: se io ammazzo una non-persona non ho ammazzato un uomo; questo passaggio ideologico fa sì che anche nella percezione il livello di tutela fisica dell’altro essere umano si ridefinisca e possa addirittura scomparire, perché se l’altro non è una persona anche i miei doveri di rispettarne l'integrità vengono meno: io posso farlo a pezzi, toglierli gli organi, ridurlo in schiavitù, farlo lavorare finché non muore. La violenza estrema. In questa prospettiva drammatica, gli atteggiamenti verso una pletora di individui che non possono accedere in linea di principio al dorato mondo delle persone sono due: la prima opzione è che posso umanitariamente cercare di farli sopravvivere creando qualche forma di sussistenza; l’opzione due è che li ammazzo; sono tutte e due pratiche che abbiamo visto ahimè ben presenti nella storia recente non solo del nostro paese.

Perché, data questa circostanza adesso la rivendicazione della persona appare progressista? Perché la stessa ideologia dominante l’ha abbandonata. L’ideologia borghese ha optato per il neoschiavismo, diretto o indiretto, palese o mascherato, e quindi rivendicare per tutti la personalità ora appare un progetto progressista e lo è di fatto. Però, di nuovo, se rimaniamo incatenati alla dimensione della persona come soggetto, non usciamo da questi vincoli. Per uscirne, si tratta di capire la dimensione di classe del conflitto ed essa va inquadrata in termini funzionali: l’altro del lavoro è il lavoro salariato. Qui lavoro salariato vuol dire molte cose: partita iva sono lavoratori salariati a cottimo, stagisti sono lavoratori a zero salario; non dobbiamo lasciarci ingannare dal mascheramento giuridico. Però, dato che chi ha effettivamente un lavoro è solo una parte di chi potenzialmente potrebbe lavorare, bisogna capire che chi è disoccupato o chi lavora in forme precapitalistiche sta dalla stessa parte di chi lavora: sono tutti subordinati funzionalmente all’estrazione di plusvalore e lavorano/non-lavorano con modalità che sono dettate, gestite, orientate dal capitale. Quindi è questo il nodo da cui partire per pensare la riconfigurazione di classe: solo riannodando i nodi funzionali di tutti questi soggetti eterogenei si può superare lo sfruttamento capitalistico con tutti i suoi effetti perversi. 


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