Thursday, 28 December 2023

Ricapitolone di fine anno 2023

 

Ecco il consueto "ricapitolone" di fine anno ad uso degli interessati e di chi in questi giorni proprio non trovi di meglio da fare. Anno meno prolifico di altri, ma un qualche spazio per amenità varie è saltato fuori.

L’anno è iniziato con l’uscita della traduzione in castigliano del mio Un nuovo Marx:

1) Fineschi R (2023). Un nuevo Marx. BARCELLONA:El Viejo Topo, ISBN: 9788419200334

Sempre con respito internazionale, segnalo un articolo in inglese apparso su “Crisis and critique” in cui espongo le mie idee sul concetto di classe, forme e figure, ecc.

2) Fineschi R (2023). Marx's Class Theory 2.0. CRISIS AND CRITIQUE, vol. 10, p. 88-102, ISSN: 2311-5475

Infine, negli atti appena usciti, il mio intervento tenuto al convegno catanese per il bicentenario engelsiano:

3) Fineschi R (2023). Engels editore del Capitale. In: (a cura di): Borghese G., Sgro' G., Tinè S., Engels duecento anni dopo (1820-2020). NAPOLI:La Città del Sole, ISBN: 9788882925413

In seconda battuta, non per importanza ma per il tagio più pubblicistico, tre interventi su “La città futura” con riflessioni di vario tipo. Il primo sul cataclisma turistico e la camerierizzazione dell’italico popolo a uso di ricchi stranieri:

4) Camerieri a casa nostra! Ovvero: dell’italico destino

Il secondo sul rapporto tra mondi pre-moderni “digeriti” dentro la modernità capitalistica a partire da alcune riflessioni “amiatine”:

5) Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernità

Infine, in occasione del centenario della nascita, un inizio di riflessione su Calvino e il suo marxismo, passato sotto traccia in molte interpretazioni, ma decisivo per comprenderne la prima fase della sua produzione e gli ulteriori sviluppi:

6) Calvino è stato marxista. In memoriam

E con questo è tutto. A tutte/i auguri di buone feste.

Tuesday, 26 December 2023

Ricapitolone di fine anno 2023

 

Ecco il consueto "ricapitolone" di fine anno ad uso degli interessati e di chi in questi giorni proprio non trovi di meglio da fare. Anno meno prolifico di altri, ma un qualche spazio per amenità varie è saltato fuori.

L’anno è iniziato con l’uscita della traduzione in castigliano del mio Un nuovo Marx:

1) Fineschi R (2023). Un nuevo Marx. BARCELLONA:El Viejo Topo, ISBN: 9788419200334

Sempre con respito internazionale, segnalo un articolo in inglese apparso su “Crisis and critique” in cui espongo le mie idee sul concetto di classe, forme e figure, ecc.

2) Fineschi R (2023). Marx's Class Theory 2.0. CRISIS AND CRITIQUE, vol. 10, p. 88-102, ISSN: 2311-5475

Infine, negli atti appena usciti, il mio intervento tenuto al convegno catanese per il bicentenario engelsiano:

3) Fineschi R (2023). Engels editore del Capitale. In: (a cura di): Borghese G., Sgro' G., Tinè S., Engels duecento anni dopo (1820-2020). NAPOLI:La Città del Sole, ISBN: 9788882925413

In seconda battuta, non per importanza ma per il tagio più pubblicistico, tre interventi su “La città futura” con riflessioni di vario tipo. Il primo sul cataclisma turistico e la camerierizzazione dell’italico popolo a uso di ricchi stranieri:

4) Camerieri a casa nostra! Ovvero: dell’italico destino

Il secondo sul rapporto tra mondi pre-moderni “digeriti” dentro la modernità capitalistica a partire da alcune riflessioni “amiatine”:

5) Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernità

Infine, in occasione del centenario della nascita, un inizio di riflessione su Calvino e il suo marxismo, passato sotto traccia in molte interpretazioni, ma decisivo per comprenderne la prima fase della sua produzione e gli ulteriori sviluppi:

6) Calvino è stato marxista. In memoriam

E con questo è tutto. A tutte/i auguri di buone feste.

Tuesday, 31 October 2023

Intervista sulla MEGA apparsa su Pangea (estratto)


Intervista sulla MEGA apparsa su Pangea (estratto)


Lei da anni lavora alla revisione e alla pubblicazione dell’opera omnia di Marx e di Engels. Può riassumere in breve per cortesia le vicende che hanno contrassegnato lungo i decenni questa immane avventura editoriale e politica?

La storia della pubblicazione delle opere di Marx ed Engels è purtroppo troppo lunga per essere riassunta brevemente. Procedendo per sommi capi, si può innanzitutto affermare che è stata travagliata per due ragioni principali: la prima è l’uso politico di Marx che ha inevitabilmente, nel bene e nel male, influito sul destino del suo lascito. In secondo luogo, bisogna aggiungere che gran parte di esso era in forma manoscritta, quindi opere non pubblicate che avevano bisogno di un importante intervento editoriale. Questi due motivi hanno causato una estrema lentezza e problematicità nella realizzazione delle varie edizioni storiche.

Il primo tentativo di un’edizione storico-critica è stato fatto tra gli anni Venti e Trenta per opera del russo Rjazanov nel contesto delle politiche culturali sviluppatesi dopo la Rivoluzione di Ottobre. Per avvenute complicazioni sempre di carattere politico (scilicet: stalinismo), Rjazanov fu epurato e sostituito da Adoratskij. Tuttavia, sia per motivi politici che per il sopraggiungere della guerra, la prima Marx-Engels-Gesamtausgabe (questo il titolo dell’edizione, acronimo mega)fu interrotta e non più ripresa. Al suo interno apparvero ad es. in versioni molto controverse i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ‘44 e la cosiddetta Ideologia tedesca. Altre opere pubblicate al suo interno o in collegamento a essa sono La critica del diritto statuale hegeliano, La dialettica della natura e i Grundrisse.



Dopo la Seconda guerra mondiale si è avuta la pubblicazione di varie edizioni di Opere, nessuna delle quali storico-critica. All’edizione russa, la prima di impianto generale, fece seguito quella tedesca, i celeberrimi Werke (in genere menzionati con l’acronimo mew, Marx-Engels-Werke). Anche sulla base di questi progetti furono concepiti i Collected Works in 50 volumi, sulla cui struttura era esemplata anche l’edizione italiana degli Editori Riuniti, conosciuta come meoc (Marx-Engels, Opere Complete, talvolta denominata solo meo) ora ripresa indipendentemente l’una dall’altra da Lotta comunista e La città del sole.

La nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (in genere menzionata come mega 2), è stata iniziata dopo molte controversie nel 1975 ed è tuttora in corso di pubblicazione; inizialmente sotto la direzione degli Istituti per il marxismo-leninismo rispettivamente di Mosca e Berlino, è ora curata da una fondazione internazionale (imes, Internationale Marx-Engels Stiftung) di diritto olandese ma con base operativo presso l’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo. Rispetto a una normale edizione delle opere, vengono pubblicati in essa tutti i lavori a tutti i livelli di lavorazione, quindi inclusi manoscritti preparatori, appunti, abbozzi, ecc. Essa sta cambiando la faccia a diverse delle opere tradizionalmente lette; ad es. i menzionati Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca e il Il capitale non sono più le opere che abbiamo conosciuto e letto fino ad oggi. C’è insomma in senso letterale “un nuovo Marx” da studiare.

Alla luce dei Suoi lavori, la saggistica e la curatela del primo libro del Capitale, riuscirebbe che fino ad oggi, mi passi la disinvoltura, abbiamo letto un Marx se non spurio almeno da rivedere nelle linee essenziali. Può fornirci qualche ragguaglio?

Da una parte è vero, ma bisogna stare attenti a non esagerare e farsi prendere la mano da una sorta di cancel culture marxologa. Molte delle linee essenziali emerse nel dibattito tradizionale non sono affatto sbagliate. La questione fondamentale è che quel dibattito ha raggiunto dei vertici importanti per poi arenarsi su alcuni punti cui non è riuscito a dare risposte soddisfacenti: per es. il tema della trasformazione storica, oppure il cosiddetto valore-lavoro e la trasformazione dei valori in prezzi, giusto per citare due temi emblematici. Il nuovo Marx, filologicamente più corretto, permette di riprendere questi temi con una strumentazione più precisa e di ridefinire alcune delle premesse da cui quei dibattiti avevano preso le mosse. Questa operazione credo permetta di andare oltre l’impasse storica, o quanto meno ci dà delle aperture importanti per un Marx decisamente attuale. Giusto per riprendere l’esempio che citavo e dare la misura delle “incrostazioni” interpretative: Marx non ha mai utilizzato né l’espressione materialismo storico né quella di valore-lavoro; se la prima è stata inventata da Engels, la seconda è farina del sacco addirittura di Böhm-Bawerk, uno dei suoi nemici giurati. Grazie all’edizione storico-critica si può finalmente riprendere il discorso a partire dalle parole di Marx e non da quelle di chi, anche autorevolmente, lo ha interpretato.

Lei ha accennato in particolare a una “revisione” del Capitale, dell’Ideologia tedesca e dei Manoscritti del 1844. Vorrebbe aggiungere qualche dettaglio?


Il capitale è particolarmente toccato dalle novità, perché finalmente sono stati resi disponibili tutti i manoscritti originali per il secondo ed il terzo libro sulla cui base Engels ha dato alle stampe le versioni canonicamente lette. Il loro stato era ben lungi dalla compiutezza e l’editore dovette volente o nolente intervenire in maniera incisiva. Anche le diverse edizioni del I libro curate personalmente da Marx, le modifiche in esse e i manoscritti interlocutori tra un’edizione e l’altra sono di grande importanza per definire le premesse categoriali della teoria del capitale nel suo complesso. Qui la forza delle letture tradizionali, soprattutto tra gli economisti, è tale per cui ci vorranno anni affinché una lettura alternativa trovi ascolto. Da un punto di vista filologico, tuttavia, le premesse per cambiare paradigma rispetto alla canonica teoria del valore-lavoro sono a mio modo di vedere molto solide. Per quanto riguarda le opere cosiddette “giovanili”, quello che emerge è un loro ridimensionamento; se da una parte le nuove edizioni permettono di scorgere in esse le tracce di sviluppi futuri, dall’altra mostrano implacabilmente come le conoscenze marxiane tanto di filosofia che di economia fossero in quel periodo in via di gestazione e di definizione. Un processo che non avrebbe visto scarti decisivi prima del 1857, anno in cui, almeno nelle intenzioni, inizia la formulazione di una vera e propria teoria sistematica del modo di produzione capitalistico. Anche qui bisogna ovviamente procedere cum grano salis, senza esagerare nel sensazionalismo. Resta tuttavia il fatto che tanto i Manoscritti economico-filosofici che L’ideologia tedesca restano “opere” interlocutorie di cui appena ci ricorderemmo se Marx non avesse poi scritto Il capitale. Qui ha involontariamente fatto molti danni la “rottura” althusseriana. Se da una parte infatti era più che giusto mettere in guardia contro il naturalismo antropologico dei Manoscritti economico-filosofici e dell’alienazione concepita in quei termini, dall’altra è stato deleterio (e filologicamente insostenibile) pensare che ciò significasse rompere con Hegel e con la filosofia tout court. La conseguenza è stata da una parte che molti filosofi si sono occupati dell’alienazione e del Marx giovane e solo successivamente del Capitale solo cercandovi in vari modi conferme dell’alienazione giovanile; dall’altra molti economisti si sono disinteressati dei problemi filosofici ed epistemologici di chiara matrice hegeliana che si trovano nella teoria matura del capitale senza intendere i quali non si capisce veramente quell’opera anche a livello di funzionalità delle categorie.
 


L’utilità teorica dell’operazione è indubbia. Vorrei però capire se, a Suo giudizio, ve ne è una politica.

Se sono utili ce lo dirà la storia, come si suol dire. Scherzi a parte, credo che il paradigma teorico marxiano, per quanto incompleto e parzialmente da aggiornare, costituisca a oggi il modello di riferimento migliore che abbiamo a disposizione per interpretare non solo la “società contemporanea”, ma anche la sua dinamica a 360° (economica, sociale, ideologica, addirittura militare). È altrettanto certo che, così com’è, esso non può bastare, ma da esso si può ripartire proficuamente come valida alternativa all’individualismo metodologico imperante e all’antropologismo naturalistico altrettanto diffuso. Qui l’utilità è scientifico-cognitiva. Questa conoscenza può essere molto utile a chi ha finalità politiche e sociali, ovvero a chi “vuole cambiare il mondo”. Qualunque movimento politico che voglia incidere a livello storico non può non avere un apparato teorico di livello; qui ancora molti faticano a distinguere, causa anche alcune varianti del marxismo stesso, tra conoscenza scientifica e suo uso ideologico. È questa una perversione della dialettica di teoria e prassi che ha portato a un appiattimento della teoria sulla prassi per cui la teoria finiva volenti o nolenti a ridursi a propaganda o al massimo a strategia/tattica. Da questo, a mio parere, si deve e si può uscire con una teoria affinata e più capace di concepire le linee di tendenza del presente, al di là delle contingenze politiche.

Quali sono i punti dell’opera di Marx su cui studiosi e militanti dovrebbero ritornare? E perché?

Il discorso sarebbe molto lungo, credo tuttavia che gli aspetti salienti siano in prima battuta due. Il primo è la dinamica storica del modo di produzione capitalistico, le sue fasi interne, i processi autocontraddittori che portano alla modifica delle sue stesse leggi. Questo permette di teorizzare fasi e sottofasi della formazione economico-sociale capitalistica. Politicamente si agisce a un livello più concreto, quindi, per una politica razionale ed efficace, non si può che avere contezza della questione cruciale dei livelli di astrazione per non fare errori prospettici che condannano all’inefficacia. I soggetti politici non agiscono nel capitalismo in generale, ma in configurazioni specifiche determinate geograficamente, storicamente, legate a contingenze senza includere le quali l’azione politica diventa puro massimalismo.D’altra parte, a partire dalla teoria di Marx, si può proporre un più articolato concetto di classe che vada oltre la vecchia contrapposizione tra capitalisti e classe operaia e che includa nella conflittualità soggetti esclusi da quella riduzione. Anche qui il discorso sarebbe molto lungo, ma distinguendo tra figure storiche e forme teoriche di determinati soggetti economici e politici si riescono a fornire delle coordinate di riferimento per individuare possibili forme di aggregazione che funzionano al di là della figura storica della classe operaia che pur ha avuto – e ha tuttora – la sua grande rilevanza.

Entriamo nel dominio politico. A Suo giudizio, nonostante il biennio 1989-1991 e l’infiacchimento artatamente ordito dalla classe dominante della classe lavoratrice, la speranza in una rivoluzione quale Marx e i comunisti la intendono è ancora ben riposta o possiamo andare al mare anche noi?

Le questioni sono complesse ed è difficile rispondere in poche righe. Il tema teorico è quello delle linee di tendenza storiche e della dialettica evolutiva del modo di produzione capitalistico. Anche qui, cum grano salis, credo che le profezie marxiane sulla società futura fossero più legate allo slancio politico che a un’effettiva base teorica. Bisogna notare che l’ambizioso progetto della concezione materialistica della storia, vale a dire l’individuazione delle leggi di trasformazione storica che includessero tutta la storia umana, è rimasto un abbozzo e che Marx alla fine ha individuato le leggi di movimento del solo modo di produzione capitalistico. Ciò non significa che questo progetto sia naufragato, ma semplicemente che va ripreso e portato avanti. La comprensione delle leggi del passato ci serve per contestualizzare quelle del presente e per farci un’idea di quelle di un possibile futuro. In questo senso più che di passaggio necessario dal capitalismo al comunismo, credo che più assennatamente, da un punto di vista teorico, si possa ipotizzare la posizione delle premesse indispensabili da parte del modo di produzione capitalistico affinché una società di stampo socialista sia storicamente possibile. Queste premesse riguardano la produttività del lavoro, l’integrazione dei processi gestionali, lo sviluppo delle conoscenze adeguate alla gestione di siffatti processi, ecc. Se una società socialista senza queste premesse è impensabile, e queste premesse vengono poste in essere dal modo di produzione capitalistico, non è automatico che esse di per sé diano vita al socialismo. Le variabili in gioco sono superiori a quelle che la teoria riesce a determinare e questo dà una spazio di libertà all’azione politica e all’individuazione degli ulteriori passaggi necessari affinché il socialismo oltre che possibile diventi reale.

La fine dell’esperienza sovietica, che sarebbe non ingiusto ma semplicemente insensato liquidare nel bene nel male con l’oblio, non significa che le contraddizioni in cui si avvolge il modo di produzione capitalistico siano finite e tanto meno che le premesse per una società più razionale e giusta siano venute meno. Direi anzi che è esattamente il contrario: dopo il ’91, quelle contraddizioni sono diventate sempre più acute e la necessità di una via di uscita progressiva è ormai condizione di sopravvivenza del pianeta e del genere umano su di esso. Marx ci aiuta a cercare la strada giusta da percorrere.

Quali sono i soggetti politici attualmente operativi, in Italia e in Europa, che potrebbero non dirò guidare una rivoluzione, ma almeno intercettare le istanze rivoluzionarie in senso marxiano?

Direi che non ce ne sono, almeno organizzati a livello ampio (illusorio parlare di massa). La sconfitta dell’89-91 è stata di dimensione epocale e il processo di riaggregazione sarà lungo e difficile. In questa fase vedo con estrema difficoltà istanze rivoluzionarie, parlerei piuttosto di inevitabile ritirata strategica, per quanto possibile organizzata. Del resto, pare necessario un articolato e profondo processo di ripensamento delle forme alternative al capitalismo che da una parte non ricadano nel primitivismo o nell’anticapitalismo romantico, ma che dall’altra tengano adeguatamente conto delle problematiche reali legate alla gestione razionale e democratica di un’economia complessa ed integrata come quella attuale al di fuori di una logica di valorizzazione del capitale.





Che cosa risponde a chi ancora oggi seguita a mettere in dubbio la consonanza teorico-pratica tra Marx ed Engels?

Il problema, oltre che storiografico, è stato di carattere politico. La linea interpretativa che univa in simbiosi Marx ed Engels poi vedeva sfociare questo connubio in Lenin e Stalin, insomma l’emblema del marxismo sovietico. Chi vi si è contrapposto ha cercato di sganciare Marx da Engels, attribuire a quest’ultimo la colpa di aver tradito Marx ed aver dato il via alle derive sovietiche, salvando invece un Marx puro il cui pensiero sarebbe stato traviato dal marxismo. Bisogna affermare senza dubbio alcuno che separare Marx da Engels o parlare addirittura di tradimento è un’operazione storiograficamente insostenibile e possibile solo a costo di forzature estreme. In realtà, alcuni hanno frainteso la presenza di questioni filologiche ed editoriali nell’operato di Engels come un avallo delle vecchie critiche antisovietiche; questo è un malinteso da lasciarsi subito alle spalle. Ciò premesso, non ha senso neppure affermare l’identità dei due; la questione attuale consiste piuttosto in un’analisi dettagliata delle potenzialità del lavoro di Marx e di come Engels abbia risolto questioni aperte nella sua teoresi prendendo talvolta direzioni errate. Se l’idea di una contrapposizione va decisamente rifiutata, resta la questione di come Engels abbia cercato di sciogliere nodi lasciati in sospeso da Marx, come l’analisi di modelli sociali non capitalistici o addirittura questioni come quella della dialettica della natura. Si tratta di questioni cruciali, quanto mai aperte. Sicuramente le soluzioni engelsiane, col senno del poi, non appaiono adeguate alla complessità degli argomenti.




È notizia stravecchia che nel corso del Novecento Marx abbia subito diversi marxismi, a principiare dal revisionismo di Bernstein, sino a certe manifestazioni recentissime di marxismo resuscitato. Su cosa si fondano in linea generale le diverse letture? O meglio: quali sono a suo giudizio le motivazioni sottese ai tentativi di riletture genericamente revisionisitiche di Marx? So che è una domanda che implicherebbe un intero libro: ma so altrettanto che lei saprà essere sintetico ed esaustivo al contempo.


Be’, una valutazione del marxismo mondiale in chiusura non è la più semplice delle questioni. Sarò brevissimo e inevitabilmente inadeguato. Il problema nasceva dall’incapacità operativa e teorica, alla luce delle conoscenze del tempo, di risolvere i problemi che la prassi poneva. In realtà il complesso rapporto tra Marx ed il marxismo nasce nella distanza inevitabile e necessaria tra il livello di astrazione dell’elaborazione teorica e quello dell’operatività politica, anche a lungo termine. Da una teoria astratta del modo di produzione capitalistico non si può dedurre la prassi politica di qualsivoglia partito, anche se molti si sono illusi che fosse possibile. I processi di mediazione necessari per scendere dal rarefatto mondo dell’astrazione a quello concretissimo della lotta sono complessi e vanno svolti; essi implicano salti che, come tali, si muovono anche in contingenze che come tali non sono teorizzabili in linea di principio. La possibilità di continuazioni o applicazioni diverse sono dunque nella teoria stessa, in particolare per lo stato incompleto cui l’ha lasciata Marx. Il marxismo è lo spazio di concretizzazione della teoria nel tentativo di applicarla alla trasformazione del mondo, in questo senso lo stesso Marx si può dire che sia stato il primo marxista proprio nella sua volontà di utilizzare politicamente una teoria astratta a situazioni concrete. Con questo non si vogliono giustificare tutti i marxismi; si può mostrare secondo me la loro maggiore o minore vicinanza alla formulazione dei principi astratti marxiani; tuttavia la possibilità di marxismo al plurale è insita nella teoresi di Marx.



Il revisionismo nasceva dunque dal duro scoglio della realtà che poneva istanze che Marx non aveva potuto prevedere, data la distanza tra teoresi astratta e utilizzo politico, ma sulle quali aveva voluto comunque dire la sua, spesso sbagliando. Un marxismo rinnovato deve prendere molto sul serio questi limiti e rendersi conto del gap da colmare come compito tanto teoretico quanto politico.

Saturday, 14 October 2023

Calvino è stato marxista. In memoriam, di Roberto Fineschi

Calvino è stato marxista. In memoriam

Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell'alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.


Calvino è stato marxista. In memoriam

Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo.

1. Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.

Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano - interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche - oltre che, ovviamente, pratiche - che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere - questa la tesi - non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.

In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.

2. Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: “Sì, sono stato stalinista” (2836). Spiega:

“Per molti comunisti di «base» rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria” (2836).

Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linea di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: “Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori” (2837). In sostanza:

“Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco” (2839). Insomma: “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto” (2840).

Questo - oramai consapevole - rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.

Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:

“Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo” (2841). 

Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni: 

“Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora” (2842).

Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.

Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:

Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].


Note: 

[1] Originariamente apparso in “II menabò 7 - Una rivista internazionale", Einaudi, Torino 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127ss.

[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in “Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana”, fase. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in “Nuova Corrente”, n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205ss.

[3] Originariamente apparso su “La repubblica” del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).

[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.

Saturday, 9 September 2023

Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernità di Roberto Fineschi

 

Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernità

Una gita sul monte Amiata costituisce l'occasione di una riflessione sull’esperienza di David Lazzaretti ed Ernesto Balducci, sui motivi della scomparsa, in questa fase di capitalismo crepuscolare, del mondo a cui intendevano rivolgersi e sul limite del prete di Fiesole nel non considerare gli aspetti strutturali. Da qui la necessità di una ricerca teorica per approfondire il concetto di classe.


Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernitàCredits: Composizione da foto d'archivio. Le foto nel corpo del testo sono di Fineschi.

Frequentare con una certa regolarità l’Amiata spinge a riflettere su due importanti figure della sua storia politica e intellettuale con un respiro che trascende gli stretti limiti geografici e sociali dell’ambiente di origine: David Lazzaretti ed Ernesto Balducci. Un tema sul tavolo è naturalmente quello delle classi subalterne e del loro ruolo nella grande storia. L’altro è il rapporto tra queste figure con il “loro” territorio e con l’oggi.

1. Nella seconda metà dell’Ottocento l’Amiata fa il proprio timido ingresso nella grande storia rompendo, però solo in parte, con un’economia di autosussistenza basata largamente su agricoltura familiare e usi civici. La rottura è segnata dall’apertura delle miniere di mercurio, che dà vita a una classe operaia di minatori la quale tuttavia si incorpora nel vecchio sistema non mutandone i caratteri di fondo. È soprattutto il versante orientale ad avvantaggiarsene, mentre quello occidentale grossetano resta legato quasi completamente al vecchio sistema. In questo mondo prevalentemente contadino nasce l’esperienza giurisdavidica[1] di David Lazzaretti, barrocciaio nativo di Arcidosso[2]. 

Notoriamente commentata da Gramsci nei Quaderni[3] e poi ripresa da celebri storici del calibro di Hobsbawn, viene classificata nel contesto delle “ribellioni”[4]. Non quelle violente come il brigantaggio nel sud (e pure in Maremma naturalmente), ma pacifiche e solidali. 

Da un punto di vista sociale, tuttavia, l’esperienza lazzarettiana non va a intaccare sistemi sociali e produttivi. L’economia familiare contadina viene integrata da principi solidaristici e mutualistici. L’atto concreto che viene sviluppato è la creazione di una cassa comune da utilizzare in caso di bisogno da parte degli associati. Non si va dunque a modificare la struttura economica se non nella redistribuzione (ma a partire dalle disponibilità dei subalterni). L’altro elemento è il rifiuto di pagare le tasse, in quel periodo particolarmente esose anche a livello locale per la costruzione delle infrastrutture stradali drammaticamente carenti e in parte a carico delle amministrazioni locali. Quasi tutti i membri sono contadini.

Le rivendicazioni di giustizia sociale, repubblicane, ecc., per quanto genericamente formulate, erano tuttavia più che sufficienti per essere interpretate come conflittuali con l’ordine sociale esistente. Per altro il movimento si dà una struttura organizzata, un “organigramma”, un'ideologia (Lazzeretti scrive vari testi) e degli obiettivi operativi in realtà più rappresentativi che altro (marce). Lazzaretti non è una mera testa calda che dice di essere Cristo ridisceso in terra per la seconda volta; il suo messaggio ha una dimensione operativa che smuove le coscienze e le organizza. Proprio durante una di queste marce verso Arcidosso (considerata profeticamente culminante per l’avvento del nuovo mondo) il profeta amiatino viene ucciso dalle forze dell’ordine. Se all’inizio era stato incoraggiato e supportato da legittimisti papisti in chiave anti-unitaria, viene poi abbandonato a se stesso una volta che emerge la natura autenticamente popolare, sociale, delle sue aspirazioni. 

Lazzaretti non è un intellettuale, ma un barrocciaio. Questo tuttavia gli aveva consentito di conoscere il "grande mondo” fuori dall’Amiata, un microcosmo chiuso e a sé stante, e di trarne spunti che aveva saputo coniugare per essere operativi nel mondo di origine. Si tratta di una delle pochissime, interessanti forme di autorganizzazione dal basso, spontanea, seppur legata al mondo premoderno e indefinita nelle rivendicazioni (non è un caso che l’elemento moderno, i minatori capitalisticamente subordinati, non aderiscano).

Che cosa resta di vivo di quella esperienza? Ci sono ancora delle comunità giurisdavidiche. Se hanno continuato in qualche modo a essere riflesso sociale di una realtà pratica fin quando quel mondo ha comunque continuato a esistere (assumendo tra l’altro posizioni politiche socialisteggianti prima dell’avvento del fascismo), cioè in un modo o nell’altro fino agli anni Sessanta del Novecento, oggi fanno i conti con una base materiale che non esiste più.

2. Balducci, altro amiatino di Santa Fiora, è un interessante anello di contatto. Nasce circa cinquant'anni dopo l’esperienza lazzarettiana nello stesso mondo (lo stesso “tempo qualitativo” come dice lui stesso). A dodici anni va a studiare a Firenze dagli scolopi e acquista una consapevolezza intellettuale “moderna”, umanistica; questa gli permette di operare in qualche modo da autocoscienza di quel mondo da cui è uscito e con il quale mantiene un rapporto di continuità/discontinuità; usa l’Amiata come metafora del mondo premoderno che sopravvive dentro quello moderno, anzi che entra nella modernità proprio quando la modernità è ormai in crisi. Lui stesso è la vivente incarnazione di tale trapasso.

Balducci, prete “sociale”, vede inizialmente nella Resistenza l’espressione moderna, “razionale”, della protesta lazzarettiana, individuando il carattere progressivo dell’emancipazione delle masse come il senso autentico della modernità (soprattutto alla luce dell’esperienza di La Pira a Firenze, in una prospettiva cristiano-sociale). Tuttavia, gli anni Settanta e Ottanta, la crisi di quelle aspirazioni, l’alienazione del mondo moderno della tecnica, lo spingono a ritenere il dominio della natura da parte dell’uomo, che la tecnica stessa garantisce, non come la vera risposta alla crisi della civiltà; anzi la crisi è generata dallo sviluppo stesso di quel mondo, ne è momento immanente e frutto contraddittorio.

In questi ultimi scritti il riferimento alla Resistenza scompare, il sogno marxiano di una cosa (esplicitamente menzionato in questi termini) è diventato irrealizzabile. L’uscita dalla modernità non è più nel controllo della natura, ma in un altro che faccia tesoro dell’autenticità premoderna dei rapporti umani, in un umanesimo etnologico che condivida le esperienze dal basso di tutte le comunità subalterne escluse o tradite dalla modernità. Quello spirito premoderno ancora quiescente nella comunità amiatina (negli anni Settanta e Ottanta), non ancora cancellato dall’anonima omologazione moderna, va salvato per una nuova modernità alternativa dei legami umani e solidali. La modernità è contraddittoria in se stessa, genera possibilità (l’universalismo umanista) e ne nega in sé la generalizzazione possibile. L’uomo nuovo deve dare piena attuazione a questa universalità potenziale con un’antropologia basata sul mutualismo premoderno ma su uno aperto al legame comunitario globale, in forme da trovare[5].

Il mondo nato con il Rinascimento ha aperto una strada che non si riesce a percorrere fino alla fine, che anzi tradisce e nega i suoi presupposti più alti, cancellando oltretutto le potenzialità insite nel mondo precedente, annullato dai suoi esiti più estremi (imperialismo e tecnica). Nella lettura del tardo Balducci cambia dunque la prospettiva: l’ideale lazzarettiano non è più l’immatura espressione di forze sociali acerbe che trovano poi coerente manifestazione nella Resistenza, forma di protesta adeguata ai tempi moderni, capace di un indirizzo universalistico effettivo; Lazzaretti è invece ora la voce di un popolo e di una cultura umana e solidaristica che la modernità annienta e alla quale non riesce a dare un’alternativa; quella voce va ripresa, ma non per tornare indietro a quel mondo umano ma povero e chiuso, bensì per andare oltre con un nuovo tipo di comunitarismo solidale a partire da coloro che sono arrivati tardi alla modernità e che quindi conservano quello spirito. L’antropologia etnologica - non più quella umanistica - deve essere alla

base non del ritorno ai microcosmi separati, ma di un nuovo universalismo solidale[6].

3. Nei trent'anni trascorsi dalla morte di Balducci, il processo di omologazione è andato avanti a passo spedito e  del suo sognato solidale mondo antico è rimasto poco o niente. Le speranze, cui aveva contribuito personalmente anche dando vita a iniziative culturali, si sono infrante; alle riviste, alle musealizzazioni (inclusa quella del lascito lazzarettiano ad Arcidosso) ha corrisposto un sostanziale disinteresse civile e locale. I mondi reali che produssero rispettivamente Lazzaretti e Balducci stesso non esistono più e non esiste più il pubblico diffuso che possa essere loro interlocutore. Questo pone a noi la questione cruciale della definizione dei soggetti storici, della loro articolazione nel primo, secondo e terzo mondo.

Da un punto di vista marxiano, la posizione di Balducci si potrebbe riassumere come il colto, raffinato riflesso ideale della contraddizione reale del processo di produzione capitalistico che, a livello sovrastrutturale, si manifesta come crisi del concetto di Persona, la massima aspirazione pratica e intellettuale del mondo borghese progressista; esso è negato dal capitalismo crepuscolare non solo di fatto nella schiavitù salariale, ma anche ideologicamente con la crisi della sua egemonia all’interno dello stesso mondo che se ne era fatto promotore. Non riuscendo a svincolarsi dai confini sovrastrutturali, Balducci vede e reinterpreta questa contraddizione, e anche eventuali vie di uscita. a partire dalla categoria di uomo, o meglio essere umano in generale, rigirandosi nel problema di averlo a livello universale come ente generico e poi come esseri umani concreti, che nella realtà si trovano differenziati, schierati e conflittuali; il soggetto unitario si frastaglia senza che si riesca a comprenderne le ragioni e soprattutto a ricomporle in una visione unitaria dell’azione storica. Dall’universale si passa al particolare senza passaggi mediatori intermedi. Sempre in termini marxiani è questo il risultato più sofisticato dell’ideologia borghese, ma allo stesso tempo la sua prigione, in particolare nella sua volontà di universalizzare questo ente generico a soggetto della storia ut sic, fare cioè del prodotto ideologico del mondo della circolazione delle merci il soggetto umano come tale[7].

Al di là di possibili criticità di analisi e prospettive della sua posizione, mi pare che Balducci colga bene, anche se solo a livello sovrastrutturale, la natura contraddittoria della modernità. In particolare pone quella che secondo me è una delle questioni cruciali: non solo l’incapacità del modo di produzione capitalistico di universalizzarsi (Balducci non parla evidentemente di “modo di produzione capitalistico”, ma di “modernità”), ma il suo porsi in contatto con strutture e mondi che entrano nella sua orbita quando ormai il processo possibile di inclusione è già bloccato, incapace di ulteriore espansione progressiva. Una configurazione in sostanza in cui la dinamica di dominio e direzione che si è instaurata nel mondo occidentale nella fase progressista della borghesia non è più strutturalmente possibile e che quindi impone il puro dominio.

Se questa è la dinamica del capitalismo crepuscolare, si pone a noi la questione dell’articolazione di classe e della coscienza di classe in termini inediti nella prospettiva marxiana, o almeno solo adombrati per lo sviluppo al tempo solo incipiente della mondializzazione capitalistica. Non solo lavoratori salariati, non solo disoccupazione sempre meno elastica in un mondo che ha conosciuto la fase espansivo-inclusiva del capitale (lo “Occidente”), ma soggetti che non sono mai entrati nella “modernità” e che mai vi entreranno per dinamiche strutturali e che come gli altri sono potenzialmente antagonisti ma inevitabilmente con modalità differenti. Questa è la domanda che si pone alla fine Balducci: quali sono le chiavi per ricomporre questa disarticolata unità? Se il fattore disgregativo del mondo mercantil-tecnologico lo spinge a rivalutare quell’umanità spontanea che per esperienza personale aveva fatto in tempo a conoscere e che aveva avuto (o aveva nel presente) capacità autorganizzativa (Lazzaretti, ma mille altre realtà indios, campesine, ecc. in varie parti del mondo), pare a me questo un disegno troppo legato a un generico ente umano e alla sua azione volontaria soggettiva come individuo e comunità di individui e quindi condannato a soccombere di fronte alle tendenze strutturali della riproduzione sociale nel suo complesso, che le trascende con meccanismi condizionati e condizionanti.

L’azione soggettiva organizzata, in sostanza, se non riesce ad agire sulle dinamiche strutturali resta condannata alla sconfitta. Per chi si rifà a Marx, tra le dinamiche strutturali emerse nel corso dell’ulteriore sviluppo del modo di produzione capitalistico, c’è il  tema solo adombrato da Marx del rapporto tra soggetti potenzialmente antagonisti che non si riducono alla tradizionale dicotomia capitale-operaio, ma che includono una complessità ancora da decifrare nel profondo nel tentativo di ricomporla [8].

4. Che cosa resta di Lazzaretti e di Balducci sull’Amiata di oggi? Si diceva che esiste tuttora una comunità religiosa di cui il primo è profeta e che ne continua il culto (oltre a essere culturalmente attiva con pubblicazioni e iniziative). Sul versante laico, nella Rocca di Arcidosso, paese di cui era originario, si è musealizzata parte del lascito, con una buona documentazione; si possono inoltre visitare i luoghi della sua predicazione, in particolare la cima del Monte Labbro dove ancor oggi si trovano edifici da lui utilizzati (c’è anche una targa lungo il viale che entra ad Arcidosso nel luogo in cui gli fu sparato). Nel cimitero di Santa Fiora è la sua tomba. Di Balducci, che abbandonò l’Amiata da dodicenne per studiare dagli Scolopi a Firenze e poi diventare sacerdote restando in un costante rapporto di esclusione/inclusione col luogo natio, si trova una targa sul muro della casa in cui nacque e passò una parte decisiva della sua infanzia. Anche lui è sepolto a Santa Fiora.

Che cosa resta dunque? Fuori dalla prospettiva religiosa – che qui non si intende considerare –, restano luoghi per “turisti culturali invasati”, come per es. è chi scrive (e per i poveri familiari/conoscenti che obtorto collo vengono trascinati in siffatte peregrinazioni). Il profeta spontaneo del popolo, l’intellettuale che ha cercato di incorporarlo in una dimensione culturale rivitalizzata con al centro lo “spirito dell’Amiata”, sono assenti o ai margini della autocoscienza popolare e delle sue prospettive sociali e politiche. 

Questo, per quanto possa sembrare, non viene detto per lagnarsi dei mala tempora correnti, ma per sottolineare uno dei problemi di fondo ai quali, con la crisi delle organizzazioni di massa anch’essa dettata probabilmente dall’incapacità di cogliere e interpretare l’andamento del capitalismo crepuscolare[9], non abbiamo risposte: l’individuazione e la ricomposizione di classe, in una fase del capitalismo per certi tratti inedita o interpretabile per adesso solo nelle sue linee di tendenza di lungo periodo e a un alto livello di astrazione. Scendere da quel rarefatto mondo ai livelli più concreti dell’azione storico-politica (ma senza saltare le necessarie mediazioni) con un più adeguato concetto di classe: questa pare a me il sentiero interrotto da riprendere.

 

Note:

[1] Cioè riferita al “giurisdavidismo”, il movimento nato per volontà di Lazzaretti, avente per obiettivo  una riforma della religiosità, ponendola in relazione con alcune questioni sociali.

[2] Per una agile e ben fatta biografia vedi A. Cavoli, Il Cristo della povera gente. Vita di Davide Lazzaretti da Arcidosso, Siena, NIE, 1989. Qualche anno fa, il noto cantautore Simone Cristicchi ha ideato uno spettacolo - “Il secondo figlio di Dio” - a partire dalla vicenda di Lazzaretti. Ne è poi nato un libro per Mondadori (2016) dall’omonimo titolo. 

[3] Gramsci vi dedica varie note: Q 3 §12, Q 6 §144 e 158, Q 9 §81, Q 25 §1. Il tema è quello della storia delle classi subalterne (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975).

[4] Cfr. E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966, cap. IV. Primo esempio di ribellismo “millenaristico”.

[5] In questa concezione, Balducci recupera esplicitamente temi di De Martino e Bloch.

[6] Queste riflessioni su Balducci sono sviluppate soprattutto a partire da un’antologia di sue riflessioni sull’Amiata, con passi tratti da varie opere: Il sogno di una cosa. Dal villaggio all’età planetaria, a cura di L. Niccolai, Firenze, Giunti, 2006; da una raccolta di conferenze tenute in varie occasioni: Pianeta Terra, casa comune, a cura di A. Cecconi, Firenze, Giunti, 2006; e del suo ultimo scritto organico La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Firenze, Giunti, 2005.

[7] È questa a ben vedere un’autocritica rispetto a possibili sviluppi delle posizioni dello stesso giovane Marx, in particolare al concetto di alienazione legato a quello di Gattungswesen. Non è un caso che molti lettori di formazione cattolica o liberale siano diventati marxisti riprendendo questo Marx e riconoscendovi i tratti – se non altro inconsapevolmente – di una teoria personalistica. O che da  marxisti, percorrendo la strada al contrario, siano diventati o religiosi o liberali. È probabilmente il motivo dell’interesse balducciano per Marx.

[8] Un tentativo in questa direzione l’ho sviluppato in Per il comunismo. Il concetto di classe, originariamente apparso su “La città futura”, ora in R. Fineschi, Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni, 2022.

[9] Su questo ho sviluppato alcune riflessioni provvisorie in 100 anni di PCI. Riflessioni aperte, su “La città futura” e Abbozzo di riflessione sul PC e sulla sua crisi, su “Cumpanis”.

08/09/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Composizione da foto d'archivio. Le foto nel corpo del testo sono di Fineschi.

Saturday, 29 July 2023

Camerieri a casa nostra! Ovvero: dell’italico destino di Roberto Fineschi

 

Camerieri a casa nostra! Ovvero: dell’italico destino

La deriva urbanistico-sociale delle città d'arte, devastate dal marketing del turismo, che vedono spopolarsi i centri storici, trasformati in musei, e sfigurarsi gli apparati commerciali. In assenza di politiche economiche che creino lavori alternativi saremo destinati a diventare camerieri dei ricchi di mezzo mondo a casa nostra.

Camerieri a casa nostra! Ovvero: dell’italico destino




La deriva urbanistico-sociale delle “città d’arte” è sotto gli occhi di tutti. Se una volta gli esempi per eccellenza erano Venezia o Firenze, il processo di trasformazione dei centri storici in una Disneyland turistica progredisce rapidissimo e inarrestabile nell’epoca post-covid. Avendo la fortuna di vivere in un territorio ricchissimo da questo punto di vista, non posso non notare come ormai anche le cittadine, i paesi, addirittura i borghi di maggior richiamo si siano adattati alla tendenza in atto. Le conseguenze sono a tutti note:
1) Spopolamento del centro storico da parte dei residenti e trasformazione di case e appartamenti in residenze turistiche (tra l’altro prigioniere di sensali internazionali che si accaparrano una bella fetta del bottino e che non pagano tasse in Italia).
2) Trasformazione di tutti i negozi in servizi per i turisti: bar, ristoranti, boutique, souvenirs, ecc.

3) Conseguente morte civile e sociale dei centri, letteralmente desertificati da questa dinamica, trasformati in un museo a cielo aperto attraversato da torme di turisti, per lo più stranieri (si ha a volte la sensazione di essere all’estero al punto che anche agli italiani gli esercenti si rivolgono in inglese).

Se questo è il quadro, ne possono derivare alcune spontanee considerazioni, potenzialmente condivisibili, ma a ben vedere sbagliate.

La più comune è quella destrorso-moralistica che teme che vengano cancellate le nostre “radici” [1] di fronte a una omogeneizzazione indistinta da parco giochi culturale. Questo è, alla fine, il ragionamento un po’ strapaesano di chi pensa che determinati luoghi siano “sempre” stati come li si è conosciuti negli ultimi trenta anni. Queste fantomatiche radici non tengono conto delle grandi fratture storiche che hanno trasformato profondamente il territorio e la società nel corso del tempo, in particolare, in Toscana, negli anni ‘50 e ‘60 quando con la fine della mezzadria è letteralmente scomparso un mondo che era esistito con scarsi mutamenti per circa sette secoli. Ignari o non veramente consapevoli di tutto ciò, i nostri tradizionalisti gridano al cambiamento antropologico perché hanno chiuso il baretto sotto casa dove andavano a prendersi una birretta da ragazzi. Se la percezione del problema è giusta, è completamente fuori strada la prospettiva.

Non c’è niente di antropologicamente deformante nel fatto che i territori, le città, i rapporti sociali cambino, è questa anzi la normalità del corso storico ed è lo stesso processo di formazione del nostro presente. Non c’è quindi da sognare un fantomatico bel mondo com’era. Si tratta piuttosto di decidere in quale direzione vogliamo che esso si evolva.

L’altro aspetto è che, ovviamente, in questa asettica musealizzazione del nostro patrimonio artistico-cuturale, l’arte e la cultura non c’entrano niente [2]. Le torme umane vanno nei luoghi che sono stati trasformati a suon di marketing e “narrazioni” in dei cult turistici. Per farsene un’idea basta stare a guardare le mandrie stanziali e passeggianti in genere condotte da una guida che parla con maggiore o minore entusiasmo a distratti ascoltatori che con lo sguardo intanto cercano i negozi per fare shopping o una gelateria/ristorante. E basta entrare in un museo dove, a eccezione di quelli a loro volta trasformati in luoghi di culto, non c’è in genere quasi mai nessuno. Qui le amministrazioni locali ci hanno messo del tempo - e qualcuno ancora fatica - a capire che “valorizzare” il patrimonio artistico non significa fare un bel museo, curare percorsi cittadini con la consulenza di storici, storici dell’arte, ecc.; significa piuttosto “creare un’esperienza”, ovvero inventarsi miti farlocchi ma facilmente digeribili collegati al luogo e poi riempirlo di bar, ristoranti, alberghi, ecc. per monetizzare (cioè marketing).

L’effetto “Under the Tuscan sun” a Cortona è un caso emblematico. È insomma un business, ancora migliorabile sotto molti aspetti: per esempio in inverno il parco giochi chiude; oppure, dato che quello che si vende è la città o il territorio, il negozio è nelle mani delle amministrazioni locali che in quanto a gestione imprenditoriale e managerialità spesso non sanno che pesci prendere. Oppure potrebbe essere riferito il caso di Volterra, afflitta da identici problemi, in cui l'Amministrazione comunale ha investito nel marketing della candidatura a capitale della cultura e, non avendo vinto la lotteria, si è consolata del contentino regionale: capitale toscana della cultura. Ebbene come promozione culturale ha programmato tagli agli orari di apertura di alcuni musei comunali e al trattamento del personale, già super sfruttato, delle cooperative che vi gestiscono servizi in appalto.

Insomma, nient’altro che un settore di investimento con modalità peculiari che hanno conseguenze sociali e urbanistiche determinate. Dunque, senza girarci tanto intorno, su questo si deve ragionare: è un buon business? Gli effetti collaterali che ha sono superiori o inferiori ai vantaggi che apporta?

La premessa più generale è che in questi territori non si tratta tanto di capire se il business è buono o cattivo, ma di prendere atto che non ci sono vere alternative. Dato che bisogna pur vivere, si fa leva su quello che c’è e che funziona. Lasciando sostanzialmente al caso la gestione economica del paese, inevitabilmente finisce per emergere la soluzione più a portata di mano e apparentemente più conveniente. Il primo punto è dunque quello della politica economica nazionale, se ha o meno delle prospettive e dei piani di sviluppo, di impiego, di creazione di reddito, ecc., nella quale si possa quindi valutare se i vantaggi/svantaggi del parco giochi culturale siano migliori o peggiori rispetto ad altre scelte.

Perché, oltre a quelli menzionati, ci sono ulteriori svantaggi: il settore crea lavoro stagionale, per sua natura precario; il settore è a basso valore aggiunto che va tutto nelle tasche dell’imprenditoria (spesso legata a piattaforme straniere) e poco dalla parte del salario (oltre che stagionale infatti questo tipo di occupazioni è in genere estremamente “flessibile”). Infine, il settore dipende in tutto e per tutto dalla capacità di spesa di terzi e dal loro volere; è quindi soggetto alle mode delle “narrazioni” ma soprattutto alle crisi nel corso delle quali le prime cose che si tagliano sono i beni effimeri. Tra mangiare e andare in vacanza in genere si preferisce mangiare.

Per fare scelte alternative a quella del parco giochi turistico ci sono dunque validi motivi. Bisogna però avere alternative che sono possibili solo con politiche economiche e industriali gestite a livello nazionale. Se invece si intende proseguire con questo tipo di turismo, bisognerà comprarsi un grembiule e prepararsi a diventare i camerieri dei ricchi di mezzo mondo. Se una volta anche per questo bisognava emigrare, finalmente potremo essere camerieri a casa nostra!



Note:

[1] È molto interessante come già Carducci nel 1877 anticipasse questi toni in parte quasi apocalittici commentando le reazioni di una turista inglese e di un ciociaro di fronte alla Terme di Caracalla. La prima rappresenta in nuce il futuro turismo di massa straniero, il secondo l’autoctono ignaro del patrimonio che ha di fronte (o che oggi sfrutta sì economicamente, ma senza “rispettarlo” nella sua grandezza storica). Per entrambi il buon Giosuè invoca la “febbre”! Criticato per questi accenti un po’ forti, da gran furbacchione qual era, in edizioni successive “spiegherà” che ce l’aveva con gli speculatori edilizi! (cfr. G. Carducci, Dinanzi alle terme di Caracalla, da Odi Barbare, in Poesie, Bologna, Zanichelli, 1906. pp. 795-797; la “spiegazione” a p. 893).

[2] Per questo rimando a quanto già a suo tempo scritto su La città futura. Vedi Fenomenologia della Ferragni. Lotta di classe e ideologia nel capitalismo crepuscolare e Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare (ora raccolti in R. Fineschi, Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni, 2022).

Friday, 23 June 2023

Salvatore Tinè Appunti su A. Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012



Salvatore Tinè
Appunti su A. Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012


Al centro della riflessione di questi saggi raccolti in un volume significativamente e g
iustamente intitolato Per una teoria del conflitto è il tema gramsciano dell’egemonia che Mazzone riprende e sviluppa sulla base di una interpretazione della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico come «modello di processo», ovvero come base economica e materiale ma anche nello stesso tempo parte e momento per quanto centrale e fondamentale del più vasto e concreto processo storico di quella che lo studioso marxista definisce
«riproduzione sociale complessiva». Si tratta di una nozione centrale nella riflessione di Mazzone. A partire da essa, egli riformula infatti in una chiave non più economicistica o materialistico-volgare il rapporto tra base economica e sovrastruttura ideologico-politica su cui si basa la dottrina marxista sia come critica dell’economia politica che come concezione materialistica della storia. Mazzone intende infatti per «riproduzione sociale complessiva» proprio il complesso di tutte quella attività umane vitali non solo lavorative che costituiscono la cosiddetta sovrastruttura, senza le quali non potrebbe realizzarsi la riproduzione di quei rapporti di produzione nel cui ambito soltanto operano e si trasformano le forze produttive del lavoro umano associato. È questo nesso inscindibile, sempre storicamente determinato, tra produzione e riproduzione, questo blocco storico per dirla con Gramsci tra struttura e sovrastruttura, che Mazzone identifica con la stessa egemonia, intesa perciò sempre come lotta per l’egemonia, come rapporto di forze mai statico ma sempre in sviluppo e dinamico tra le classi fondamentali della società in lotta tra loro, capitalisti da un lato e lavoratori salariati dall’altro. Perciò tale lotta per Mazzone si svolge sempre dentro un più generale sviluppo del modo di produzione capitalistico, inteso come forma sociale di produzione storicamente determinata e perciò transitoria, temporalmente coincidente con un’intera epoca storica della formazione economica della società. Soltanto a partire dalle sue forme di movimento specifiche concettualizzate in forma ancora soltanto astratta dalla teoria del modo di produzione, diventa possibile analizzare scientificamente, su un piano duplice, teorico e insieme pratico, il processo storico concreto della lotta per l’egemonia tra le classi nelle sue diverse fasi e figure, determinate a tutti i livelli del processo di produzione capitalistico e del processo della riproduzione sociale complessiva nella sua accezione più ”larga, non ristretta alla sola sfera “economica” in senso stretto.

«L’egemonia- scrive Mazzone- come rapporto di classe è la modalità dello svolgimento totale delle forze produttive e dunque anche della produzione e riproduzione della forza produttiva principale-gli uomini stessi».(pp. 132-133)

Mi pare che questa raccolta abbia il pregio di farci vedere come nella riflessione di Mazzone il livello teorico, quello appunto della definizione generale e astratta delle forme di movimento specifiche, peculiari della produzione capitalistica, del «modello di processo» come dice Mazzone, e quello storico-politico, cioè dell’analisi dei modi e delle forme in cui le classi in lotta condizionano, agendo su di esso, le stesse dinamiche spontanee del modo di produzione capitalistico, siano stretti in un nesso indissolubile e insieme di unità e distinzione. Il modello di processo è tale proprio in quanto non coincide immediatamente con il processo stesso, ovvero con la totalità dello svolgimento storico della riproduzione sociale complessiva di cui lo stesso modo di produzione è non a caso un momento fondamentale ma insieme «dileguante». Mazzone definisce così in termini rigorosi la storicità del modo di produzione, ovvero la sua duplice natura di modello teorico e insieme di processo come tale suscettibile di essere conosciuto e analizzato scientificamente anche nel suo concreto svolgimento storico. C’è una forte ispirazione labriolana nella riflessione di Mazzone. Labriola aveva identificato la «rivelazione scientifica» del materialismo storico con «la totalità e l’unità della vita sociale che si ha innanzi la mente». Così «è l’economia stessa – scriveva Labriola- che viene risolta nel flusso di un processo». È propriamente in questo risoluzione della stessa economia nel flusso di un processo che consiste il carattere critico, di critica dell’economia politica, della teoria scientifica del modo di produzione capitalistico che Marx ci ha consegnato ne Il Capitale. La filosofia della prassi nella interpretazione rigorosamente scientifica e materialistica proposta da Labriola nei suoi grandi saggi sul materialismo storico muoveva appunto dalla rilevazione di questo carattere critico e storico della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico.

Non a caso le pagine di Mazzone colpiscono non solo per il rigore teorico ma anche per la profondità e la complessità dell’analisi propriamente storica dei processi di trasformazione del modo di produzione capitalistico nella fase imperialista del loro sviluppo, scanditi non meno che dalle loro dinamiche oggettive o spontanee anche dalla lotta tra le classi, dalle sue forme sempre più complesse e articolate di espressione cosciente e di organizzazione della loro soggettività e volontà storiche e politiche. Una complessità e articolazione che si lega organicamente ma anche contraddittoriamente alla dimensione globale e mondiale che il modo di produzione capitalistico assume nella sua forma imperialista, a partire dagli inizi del secolo scorso lungo un processo profondo, visibile e invisibile. tutt’altro che lineare che giunge fino ai nostri giorni, segnando il nostro presente. È il nesso, organico ma tutt’altro che immediato, tra il lato oggettivo e il lato soggettivo della lotta di classe a scala mondiale su cui Mazzone non cessa di richiamare l’attenzione, contro ogni forma di economicismo deterministico ma anche contro ogni forma di astratto soggettivismo o volontarismo politico. È qui il nucleo teorico del leninismo di Mazzone: la soggettività storico-politica della classe operaia è totalità e quindi coscienza di classe generale, universale soltanto come parte, sempre storicamente determinata e specifica, non astrattamente formale, del sistema capitalistico e insieme contraddizione oggettiva, sempre immanente al suo processo di sviluppo e come tale in grado, potenzialmente, di risalire, proprio dall’apparente ma anche reale parzialità del suo punto di vista di classe, all’analisi e alla conoscenza delle forme di vita di tutte le altre classi. Sulla base della teoria dell’imperialismo, ulteriore e decisiva concretizzazione, “concrezione” storica e politica della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico, Lenin ha sviluppato la dottrina marxiana attraverso il suo inveramento e la sua realizzazione sul terreno della lotta di classe in tutte le forme fenomeniche concrete, determinate in cui essa si svolge nell’epoca del pieno sviluppo e dell’espansione monopolistica del capitale finanziario, quindi nell’ambito della trasformazione dei moderni stati nazionali in stati imperialisti, da quella immediatamente sociale a quella ideologico-culturale a quella politica, nel contesto dei vari ambiti nazionali in cui si struttura il sistema capitalistico mondiale sia nei suoi centri metropolitani che nelle sue immense periferie coloniali e semicoloniali, i cosiddetti anelli deboli della catena imperialista: sulla base indissolubilmente teorica e pratica dell’insegnamento di Lenin, Il movimento operaio e comunista internazionale sorto sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre è stato il soggetto storico-politico globale che nel Novecento ha saputo sul piano dell’analisi e della teoria come su quello dell’organizzazione e della politica almeno fino ad una certa fase misurarsi e confrontarsi con il capitalismo come sistema imperialista in sviluppo sul terreno di una lotta concreta nazionale e internazionale per l’egemonia di classe del proletariato mondiale sulla base di una strategia di alleanze di classe di quest’ultimo con settori di borghesia nazionali dei paesi coloniali e semi-coloniali.

Giustamente Mazzone evidenzia il nesso organico che lega la teoria gramsciana dell’egemonia a quella leniniana dell’imperialismo. La categoria labriolana di «democratizzazione delle masse» ci pare uno dei principali fili conduttori dell’analisi storico-teorica delle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo nell’epoca imperialista proposta da Mazzone in queste pagine. Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista è stato scandito dalla continua azione nella forma del socialismo di quel processo di democratizzazione delle masse che era iniziato con la Rivoluzione Francese e con la Rivoluzione industriale in Inghilterra e che poi in modi e forme storiche diverse era proseguito sotto la spinta delle stesse leggi di movimento della civiltà capitalistica, anche dopo la fine dell’età delle rivoluzioni democratico-borghesi.


Mazzone sottolinea come questo processo a fine Ottocento fosse già per Labriola in una fase di arresto, ma, successivamente, la ricerca teorica di Gramsci avrebbe ripreso il tema labriolano del protagonismo democratico delle masse, dello sviluppo cioè del rapporto tra democrazia e socialismo, in rapporto alla rottura rivoluzionaria dell’Ottobre sovietico, quindi alla nozione leniniana di egemonia. Gramsci muove, come sottolineava già Mazzone, nel suo importante saggio del 1976 su Il feticismo del capitale: una struttura storico formale , dalla rivendicazione dell’autonomia teorica del marxismo come filosofia della prassi per svilupparla in una direzione che non può esserci ancora in Labriola, nel senso cioè della teoria leninista dell’imperialismo come sviluppo teorico e pratico del marxismo, sul terreno concreto della lotta di classe. È l’inizio del secolo breve segnato da una nuova fase della lotta di classe internazionale destinata poi, soprattutto nella seconda metà di esso, ad assumere la forma inedita della competizione economica pacifica e insieme della “guerra fredda” tra il campo socialista e quello imperialista a scala mondiale. Sui caratteri e i limiti di questa forma politica della lotta di classe internazionale e e in particolare sui modi in cui essa ha condizionato in positivo e in negativo la transizione al socialismo a scala mondiale, Mazzone non manca di richiamare energicamente l’attenzione.

Ma mi pare, in generale, che proprio l’insistenza di Mazzone sul carattere storico-epocale, di lungo periodo, del processo di transizione al socialismo che aveva preso le mosse dalla rottura politica dell’Ottobre sovietico per poi conoscere un tragico arresto sul finire del Novecento spinga poi Mazzone a considerare lo stesso “secolo breve” come parte del più lungo secolo dell’imperialismo, ovvero come momento, principale figura, potremmo dire, di un più ampio e contraddittorio processo di diffusione e universalizzazione in forma antagonistica del modo di produzione capitalistico a scala mondiale scandito da un continuo intreccio tra espansione del grande capitale monopolistico e sua crisi. Oggi possiamo dire che questo processo è ancora ben lungi dall’essersi esaurito. Tuttavia i suoi possibili esiti catastrofici, non solo per il proletariato mondiale ma per l’intero genere umano, non possono essere affatto esclusi. Quel «nuovo ordine mondiale di guerra, di sterminio» di cui Mazzone parla in un saggio del 2006 compreso in questo volume, tre lustri dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente fine del compromesso “fordista” e socialdemocratico tra lavoro salariato e capitale che aveva caratterizzato lo sviluppo capitalistico nel blocco occidentale nei cosiddetti “trenta gloriosi” è ancora quello in cui ci troviamo oggi.

Ma la ricerca di Mazzone è continuamente mossa proprio dal tentativo di non fermarsi a questo arresto del processo di transizione dentro cui siamo ancora immersi, certo ben più tragico e inquietante di quello di fine Ottocento oggetto della grande riflessione di Labriola, accettando o subendo a una interpretazione puramente pessimistica o disperata di esso. Rimettere al centro il tema della egemonia significa oggi cercare di capire come ricominciare dopo una grande sconfitta, ma riconnettendosi nello stesso tempo alle tradizioni di lotta del movimento operaio dell’Ottocento e del Novecento, ovvero alle straordinarie esperienze di “democratizzazione delle masse” che ne hanno scandito la vicenda storica. “Non tutto è perduto” dice Mazzone. Perciò teoria e storia, scienza e prassi sono in Mazzone sempre dialetticamente, indissolubilmente intrecciate. Scrive Mazzone in un saggio del 2004: “Senza la democratizzazione delle masse (Labriola 1894) – senza “le condizioni fondamentali di civiltà (Lenin, 1921 e fino alla fine) non si può pensare a una prospettiva socialista o anche a una alternativa all’oppressione e alla guerra che si sta preparando”. E non è chi non veda la drammatica, perfino tragica attualità di quanto scriveva quasi vent’anni fa Mazzone, di fronte alla tendenza al fascismo e alla guerra dell’imperialismo reso sempre più bellicista e reazionario dalla crisi generale che lo attanaglia, pur di fronte all’assenza di una soggettività organica ed organizzata democratica e di classe in grado di contrastarlo e di porre le condizioni di un’alternativa democratica e socialista a scala mondiale. E ancora: “Recuperare la continuità dello sviluppo democratico, ricostruire un soggetto che se ne faccia portatore e che può solo essere un soggetto di classe – in queste formule non si riassume forse il nostro problema all’inizio del secolo XXI?”.

È quindi di nuovo la teoria marxiana ad essere ripresa e riletta ma sempre come base fondamentale per un ulteriore sviluppo e concretizzazione del tema della transizione sul terreno storico anche se non più immediatamente politico come nella fase precedente, chiusasi con la fine dell’Urss e del campo socialista. Una teoria scientifica è tale proprio nella misura in cui si sottopone al vaglio e alla critica della prassi, ovvero nella misura in cui di essa si fa “uso”, come dice Mazzone, riprendendo la geniale definizione leniniana del marxismo come “guida per l’azione”. Mazzone si pone da questo punto di vista agli antipodi di ogni lettura di stampo teoreticistico o astrattamente logicistico della teoria di Marx che finisca per smarrire completamente la sua natura di “teoria obbiettiva della rivoluzione” per dirla ancora con Labriola. Di tale teoria la nozione di crisi costituisce un momento essenziale, proprio ai fini di una definizione della storicità, della dimensione epocale del modo di produzione capitalistico, ovvero della sua coincidenza con un’intera epoca storica segnata non solo dalla generalizzazione della circolazione delle merci e del capitale come merce carica di plusvalore trasformabile in denaro ma anche dal continuo accrescimento della forza produttiva del lavoro sociale attraverso l’integrazione delle potenze naturali nel processo di produzione e il carattere tendenzialmente infinito di tale processo come scopo a se stesso. È infatti la stessa tendenza epocale di questo processo i cui caratteri essenziali vengono già fissati dall’analisi puramente logica, concettuale, della produzione capitalistica che Marx ci ha proposto ne Il Capitale, a mostrare in modo sempre più evidente il suo limite storico, ovvero la regolazione secondo il valore del processo di produzione, la sua autoregolazione funzionale allo scopo limitato della valorizzazione del capitale, sebbene secondo modalità concrete e fasi specifiche che non sono prevedibili come tali dalla teoria del modo di produzione capitalistico assunta a questo livello di astrazione.

Perciò la possibilità oggettiva della transizione come lotta di lunga durata per la costruzione di una nuova egemonia di classe finalizzata al rovesciamento del dominio oligarchico e reazionario del grande capitale e a porre le basi per l’instaurazione di un nuovo modo di produzione e di organizzazione della società, per quanto ancora astratta, molto lontana quindi dal farsi realmente essente, si mostra, sempre di più come l’unica possibilità concreta di una fuoriuscita dalla crisi generale del sistema capitalistico mondiale e dal baratro a cui esso rischia di condurre l’intero genere umano. Ma appunto il processo attraverso cui questa possibilità oggettiva, reale, in quanto già, appunto, nelle cose si trasforma in una possibilità anche “essente” come dice Mazzone, è strettamente, indissolubilmente legato alle dinamiche, strutturali e sovrastrutturali, delle classi, della lotta e dei rapporti di forza economici, politici, ideologici tra di esse. Logica e storia, scienza e prassi, struttura e sovrastruttura, si riconnettono quindi sul terreno della lotta di classe nella totalità articolata e complessa di un unico blocco storico. La forma di moto epocale della produzione capitalistica è fondamentale e imprescindibile anche per comprenderne in termini non puramente empirico-descrittivi o sociologici insieme al suo carattere di processo quello che Mazzone sulla scorta di un lavoro di Gian Mario Cazzaniga definisce il nesso tra funzione e conflitto, che lo scandisce. È dentro infatti tale dimensione “funzionale-conflittuale” che la teoria di Marx coglie insieme alla formazione dell’unità dei molti capitali nel capitale sociale complessivo attraverso la mediazione e la regolazione della concorrenza e del denaro mondiale , la costituzione delle classi attorno al rapporto fondamentale tra capitale e lavoro salariato libero, ovvero la divisione conflittuale del corpo sociale tra detentori dei mezzi di produzione e venditori di forza-lavoro. Solo a partire da questo rapporto contraddittorio, mediato dallo scambio solo apparente tra lavoro e capitale, il modo di produzione capitalistico può essere considerato e concettualizzato come tale e insieme come momento dell’insieme dei rapporti sociali in cui si struttura il modo di vita degli uomini associati.

In fondo è proprio il progressivo avvicinamento della produzione capitalistica mondializzata al limite del suo svolgimento epocale nella figura del potere imperialista che ci indica l’attuale trasformazione della borghesia da classe “nazionale”, “progressiva”, “espansiva” quale è stata per tutta una fase del suo sviluppo storico, in una ristretta oligarchia finanziaria transnazionale tesa al controllo totalitario di ogni modo di vita degli uomini associati, di ogni sfera della riproduzione sociale, in una classe quindi non più “universale”, “dirigente” in senso gramsciano, ma puramente “dominante”. Il carattere di puro dominio, “tirannico” secondo l’efficace espressione di Mazzone, del potere del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, nella particolare configurazione odierna del suo sviluppo imperialista è un aspetto della sua crisi di sovraccumulazione sul terreno economico e della sua crisi di egemonia sul terreno sociale e politico: tale carattere si rivela infatti particolarmente nella sua violenta offensiva contro le condizioni di vita e di lavoro e i diritti economici e sociali del proletariato internazionale mondializzato, condotta attraverso la segmentazione e precarizzazione della forza-lavoro operaia disponibile in rapporto con la formazione di un esercito industriale di riserva totalmente asservito ai bisogni della valorizzazione capitalistica, sia nelle metropoli imperialiste che nei territori ex-coloniali e dei paesi ex-socialisti costretti di nuovo alla dipendenza economica e politica. A questa espansione mondiale della produzione capitalistica sia pure scandita dalle terribili contraddizioni del suo sviluppo ineguale si accompagna la tendenziale subordinazione alle esigenze della valorizzazione capitalistica, al dominio del profitto, non solo dello stato, delle sue istituzioni e dei suoi apparati pubblici di governo dell’economia e della società ma anche anche del complesso delle forme di vita e di attività sociale finalizzate alla produzione e alla riproduzione della vita degli uomini, in un ulteriore sviluppo anche in forme diverse e più complesse dello stesso “capitalismo monopolistico di stato” che già Lenin aveva messo al centro della sua analisi dell’imperialismo.

È dunque in questo ambito di azione totale, sempre più “globale” e integrato, in questo rapporto che non è mai stato così stretto e così evidente come oggi tra modo di produzione e modi di vita, che si pone per Mazzone la questione cruciale della democrazia, intesa non solo e non tanto come un insieme formale di regole e di istituzioni ma, marxianamente, come terreno fondamentale della lotta di classe, quindi via al socialismo come autogoverno della comunità umana, regolazione libera e consapevole della totalità del corpo sociale collettivo, sulla base di un pieno sviluppo, al di là dei limiti in cui esso si svolge nella forma capitalistica di produzione, della dimensione sempre più “soggettiva”, “ideale”, intellettuale-finalistica del lavoro sociale umano, di quello che Marx definisce il General Intellect. Il carattere di “potenza sociale obiettiva”, di soggetto, del capitale non toglie che sia pure nella forma antagonistica della produzione capitalistica, quindi sotto il dominio del capitale come lavoro morto, si sviluppi nell’ambito della riproduzione sociale complessiva la soggettività, l’idealità, l’intelligenza della forza produttiva umana, della capacità di quest’ultima di sottomettere ai sui scopi le potenze naturali attraverso la scienza e il saper fare generale. Nelle figure specifiche che il lavoro intellettuale viene assumendo si sviluppa in modo straordinario quella che è in generale una qualità immanente al lavoro umano in quanto tale, ovvero il suo carattere volontario, di “posizione di scopo”, come dice Mazzone sulle orme di Lukacs.

Mazzone accentua fortemente il carattere sociale dell’egemonia di classe nel processo di transizione forse perfino trascurando l’importanza decisiva, cruciale del suo momento politico e politico-statuale, pure fortemente presente nella stessa interpretazione gramsciana della teoria leniniana dell’egemonia. Nello stesso tempo appare evidente in molte sue pagine l’influenza della riflessione del tardo Lukacs sul socialismo come permanente sviluppo della democrazia della vita quotidiana, sviluppo effettivo dell’autocoscienza del genere umano, quindi effettiva, sebbene necessariamente sempre graduale, processuale, realizzazione dell’idea di universalità e di cittadinanza sociale, culturale politica di tutti gli uomini, appunto nella loro vita. In fondo questo nesso storico, intrinseco tra produzione e riproduzione, tra sfera del lavoro e sfera della vita, quindi tra lato soggettivo e oggettivo della lotta di classe, è implicitamente contenuto nella nozione marxiana di “lavoro vivo”. Nesso ma non indistinzione come nell’impostazione sostanzialmente “vitalista” dei teorici del carattere “biopolitico” della produzione capitalistica. Certo, il soggetto del processo di produzione capitalistico è il capitale stesso – ci dice Mazzone. Ma subito dopo egli rileva il carattere internamente dialettico del processo di capitale e del rapporto di capitale in cui all’opposizione tra capitale e lavoro vivo si intreccia il loro rapporto insieme conflittuale e di reciproca complementarietà funzionale: “entro il processo di capitale -scrive- le classi producono e riproducono se stesse e questo loro riprodursi è parte integrande del moto del capitale, della sua riproduzione e accumulazione. Non è una semplice opposizione: di qua il capitale, di là il lavoro: il primo non può esistere e accumularsi senza il secondo, ma anche il secondo, il lavoro vivo non può esistere e attuarsi in questo specifico rapporto di produzione senza il capitale che lo assorba. È un rapporto doppio, di funzionalità indispensabile e di conflitto immanente.”

Il dominio del capitale imperialista investe, in quanto fondato sullo sfruttamento del lavoro vivo, la totalità del lavoro produttivo di plusvalore e insieme quella della riproduzione della vita dei lavoratori come uomini, come tipi umani. L’imperialismo è questa sussunzione reale del lavoro al capitale che tende con una estensione e profondità inaudite a diventare e diventa realmente sussunzione al capitale della stessa vita. Ma proprio questo processo obiettivo amplia enormemente l’ambito il terreno della lotta per una nuova egemonia di classe come lotta per la democrazia e per il suo sviluppo nel senso del socialismo.


Mazzone ci dà qui delle indicazioni teoriche preziose: la democrazia come autogoverno della collettività dei produttori associati, antitesi quindi dell’anarchia della produzione, significa essenzialmente conquista di una coscienza unitaria, universale, non meramente pluralistica dell’intero processo della riproduzione sociale ma sulla base materiale della sua unità oggettiva e contraddittoria. La coscienza di questo processo come “ambito totale dell’azione” in grado di elevarsi a soggetto storico e quindi politico è effettivamente tale solo se oggettivamente possibile, immanente mai esterna ad esso. Mi pare che questa immanenza della coscienza, della soggettività consapevole al processo, questo darsi di ogni forma di soggettività, anche di tipo storico, sempre solo come momento specifico, oggettivo dello stesso processo storico obiettivo, sia un tratto essenziale dello storicismo di Mazzone, della sua interpretazione rigorosamente materialistica e dialettica della “filosofia della prassi” così come essa è stata elaborata prima da Labriola e poi da Gramsci.

In fondo è proprio questa immanenza della coscienza e della soggettività di classe all’ unità e all’oggettività del processo storico di espansione universale e di crisi permanente della moderna civiltà capitalistica nella figura del potere imperialista a rendere non solo possibile e necessaria ma anche terribilmente ardua e difficile la prospettiva di una ripresa della democratizzazione delle masse nel senso marxiano della loro emancipazione insieme umana, cioè sociale, e politica. In una splendida pagina di un saggio del 2003, Mazzone connette il carattere dialettico e aperto, tutt’altro che garantito di questa prospettiva, la possibilità del suo compimento, proprio alla modernità dell’imperialismo, quindi alla necessità, proprio ai fini della lotta di classe e di massa di tutte le forze antimperialiste a scala mondiale per la pace e per la democrazia, del suo studio, della sua analisi scientifica. Mazzone individuava rigorosamente la modernità dell’imperialismo come configurazione odierna del modo di produzione capitalistico e del suo processo di universalizzazione nella capacità di ristrette oligarchie finanziarie di sottomettere al loro potere economico e al loro dominio politico l’intera umanità. Scriveva perciò in quella pagina:

“Di fronte all’annunciata aggressione, caparbia e tracotante, incurante della volontà di pace di milioni di uomini e donne in tutto il mondo, che si attua in questi giorni, la domanda ‘ a chi e a che serve studiare l’imperialismo, può apparire perfino provocatoria. Eppure conoscere l’imperialismo è molto più che identificare gli aggressori; è molto più anche del necessario orientamento politico nel mondo di oggi; molto più che identificare forze, movimenti, anzi anche ceti, grandi istituzioni (come le Nazioni Unite o la Chiesa) che la superpotenza imperiale mostra voler battere e umiliare. Conoscere l’imperialismo significa porre la domanda sull’epoca nostra, e su noi stessi. E conoscere l’imperialismo moderno è cercare di intendere la natura delle forze in gioco, ma di tutte le forze, economiche, politiche, morali culturali, in tutto il mondo. Impresa sterminata, si dirà. Ebbene cerchiamo di prenderne le misure”. (p. 221)

Di fronte alla potenza, solo in apparenza schiacciante, irresistibile, dell’imperialismo, Mazzone rivendica la potenza della teoria, il suo carattere di arma fondamentale ma anche formidabile della lotta di classe. Il marxismo è onnipotente perché vero- ha detto una volta Lenin. È questo il senso profondamente dialettico dell’identità tra la conoscenza dell’imperialismo e la conoscenza di noi stessi di cui parla Mazzone. Conoscere noi stessi significa risalire via via, dialetticamente, alla totalità del processo e del soggetto che lo produce e che si riproduce in esso.

…………………

Qui Mazzone riprende attualizzandola al livello dell’analisi dell’imperialismo la nozione marxiana di “lavoratore complessivo”. L’imperialismo produce e aumenta sempre più in numero il lavoratore complessivo, facendo di esso, sul piano dell’oggettività del suo essere sociale la totalità dei lavoratori salariati a livello mondiale, ma nello stesso tempo lo divide, lo segmenta geograficamente, culturalmente, corporativamente. Esso blocca insomma il processo di unificazione del genere umano proprio rendendolo nello stesso tempo possibile. Di qui la difficoltà del lavoratore complessivo mondiale a comprendere il carattere di totalità di questo processo, di cui diventa oggetto, pur essendo lui l’effettivo “soggetto” di esso. La conoscenza oggettiva del processo complessivo è fondamentale per non subirlo soltanto ma proprio per conquistare l’iniziativa in esso e fare delle sue contraddizioni momenti di lotta, non solo sul piano della tattica ma anche della strategia, quindi della coscienza di classe, che Mazzone concepisce appunto non come un che di presupposto o già dato ma appunto come il risultato di un processo insieme oggettivo e soggettivo, in cui solo gradualmente l’oggettivo si fa soggettivo. Un processo che -dice Mazzone- può anche essere lunghissimo, ma che comincia subito, che si dà già nel presente.

Mi pare che la critica radicale che Mazzone muove ad ogni forma di essenzialismo antropologico, lungi dal negare l’importanza fondamentale del lato soggettivo della dialettica storica, muova proprio da questa affermazione del carattere di principale forza produttiva e insieme rivoluzionaria degli uomini, ovvero della prassi umano sociale umana nelle forme e figure sempre specifiche, determinate in cui solo concretamente e storicamente esiste, del corpus hominum nella natura, come dice Mazzone, cioè della collettività, dell’universalità reale, degli uomini.

Non esiste perciò transizione senza la costituzione di un soggetto storico e politico della trasformazione rivoluzionaria della società. Tale soggetto pur non non comparendo affatto al livello di astrazione della teoria del modo di produzione, appare tuttavia come possibilità concreta e si determina storicamente al livello dell’insieme dei rapporti sociali. Esso non consiste quindi consiste nel ripristino di una qualche “essenza umana” già immanente nei singoli “individui” oppure “alienata” nei rapporti mercantili ma piuttosto piuttosto si costituisce attraverso la creazione di nuovi tipi umani corrispondenti alle esigenze di direzione e di governo consapevole, razionale del corpo sociale collettivo. Mazzone insiste molto sul nesso tra questo autogoverno del corpo collettivo e le tradizioni della ragione moderna in cui vede un medium fondamentale della sua autoriproduzione. L’attacco alla ragione moderna viene individuato come uno dei terreni dell’ideologia irrazionalistica dell’imperialismo.

È qui un punto fondamentale della sua riflessione di Mazzone. La sua interpretazione della filosofia della prassi di Labriola e di Gramsci muove appunto dal problema storico e teorico della costituzione possibile di tale soggetto globale concentrandosi in particolare sul suo rapporto di continuità dialettica con l’intera storia della civiltà moderna scandita dalla sua espansione nella forma capitalistica e imperialistica del mercato mondiale, condizione solo oggettiva, solo in sé ma non ancora anche per sé di una effettiva quindi anche soggettiva unificazione del genere umano. Il comunismo è la prospettiva già possibile oggettivamente del compimento di questo lunghissimo processo. Una prospettiva che vive nel presente e quindi nella lotta da condurre oggi.

Roberto Fineschi, INTRODUZIONE a Alessando Mazzone, Questioni di teoria dell'ideologia I

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