Sentieri amiatini. Classi subalterne e modernità
Una gita sul monte Amiata costituisce l'occasione di una riflessione sull’esperienza di David Lazzaretti ed Ernesto Balducci, sui motivi della scomparsa, in questa fase di capitalismo crepuscolare, del mondo a cui intendevano rivolgersi e sul limite del prete di Fiesole nel non considerare gli aspetti strutturali. Da qui la necessità di una ricerca teorica per approfondire il concetto di classe.
- di Roberto Fineschi
- 08/09/2023
- Approfondimenti teorici (Unigramsci)
Frequentare con una certa regolarità l’Amiata spinge a riflettere su due importanti figure della sua storia politica e intellettuale con un respiro che trascende gli stretti limiti geografici e sociali dell’ambiente di origine: David Lazzaretti ed Ernesto Balducci. Un tema sul tavolo è naturalmente quello delle classi subalterne e del loro ruolo nella grande storia. L’altro è il rapporto tra queste figure con il “loro” territorio e con l’oggi.
1. Nella seconda metà dell’Ottocento l’Amiata fa il proprio timido ingresso nella grande storia rompendo, però solo in parte, con un’economia di autosussistenza basata largamente su agricoltura familiare e usi civici. La rottura è segnata dall’apertura delle miniere di mercurio, che dà vita a una classe operaia di minatori la quale tuttavia si incorpora nel vecchio sistema non mutandone i caratteri di fondo. È soprattutto il versante orientale ad avvantaggiarsene, mentre quello occidentale grossetano resta legato quasi completamente al vecchio sistema. In questo mondo prevalentemente contadino nasce l’esperienza giurisdavidica[1] di David Lazzaretti, barrocciaio nativo di Arcidosso[2].
Notoriamente commentata da Gramsci nei Quaderni[3] e poi ripresa da celebri storici del calibro di Hobsbawn, viene classificata nel contesto delle “ribellioni”[4]. Non quelle violente come il brigantaggio nel sud (e pure in Maremma naturalmente), ma pacifiche e solidali.
Da un punto di vista sociale, tuttavia, l’esperienza lazzarettiana non va a intaccare sistemi sociali e produttivi. L’economia familiare contadina viene integrata da principi solidaristici e mutualistici. L’atto concreto che viene sviluppato è la creazione di una cassa comune da utilizzare in caso di bisogno da parte degli associati. Non si va dunque a modificare la struttura economica se non nella redistribuzione (ma a partire dalle disponibilità dei subalterni). L’altro elemento è il rifiuto di pagare le tasse, in quel periodo particolarmente esose anche a livello locale per la costruzione delle infrastrutture stradali drammaticamente carenti e in parte a carico delle amministrazioni locali. Quasi tutti i membri sono contadini.
Le rivendicazioni di giustizia sociale, repubblicane, ecc., per quanto genericamente formulate, erano tuttavia più che sufficienti per essere interpretate come conflittuali con l’ordine sociale esistente. Per altro il movimento si dà una struttura organizzata, un “organigramma”, un'ideologia (Lazzeretti scrive vari testi) e degli obiettivi operativi in realtà più rappresentativi che altro (marce). Lazzaretti non è una mera testa calda che dice di essere Cristo ridisceso in terra per la seconda volta; il suo messaggio ha una dimensione operativa che smuove le coscienze e le organizza. Proprio durante una di queste marce verso Arcidosso (considerata profeticamente culminante per l’avvento del nuovo mondo) il profeta amiatino viene ucciso dalle forze dell’ordine. Se all’inizio era stato incoraggiato e supportato da legittimisti papisti in chiave anti-unitaria, viene poi abbandonato a se stesso una volta che emerge la natura autenticamente popolare, sociale, delle sue aspirazioni.
Lazzaretti non è un intellettuale, ma un barrocciaio. Questo tuttavia gli aveva consentito di conoscere il "grande mondo” fuori dall’Amiata, un microcosmo chiuso e a sé stante, e di trarne spunti che aveva saputo coniugare per essere operativi nel mondo di origine. Si tratta di una delle pochissime, interessanti forme di autorganizzazione dal basso, spontanea, seppur legata al mondo premoderno e indefinita nelle rivendicazioni (non è un caso che l’elemento moderno, i minatori capitalisticamente subordinati, non aderiscano).
Che cosa resta di vivo di quella esperienza? Ci sono ancora delle comunità giurisdavidiche. Se hanno continuato in qualche modo a essere riflesso sociale di una realtà pratica fin quando quel mondo ha comunque continuato a esistere (assumendo tra l’altro posizioni politiche socialisteggianti prima dell’avvento del fascismo), cioè in un modo o nell’altro fino agli anni Sessanta del Novecento, oggi fanno i conti con una base materiale che non esiste più.
2. Balducci, altro amiatino di Santa Fiora, è un interessante anello di contatto. Nasce circa cinquant'anni dopo l’esperienza lazzarettiana nello stesso mondo (lo stesso “tempo qualitativo” come dice lui stesso). A dodici anni va a studiare a Firenze dagli scolopi e acquista una consapevolezza intellettuale “moderna”, umanistica; questa gli permette di operare in qualche modo da autocoscienza di quel mondo da cui è uscito e con il quale mantiene un rapporto di continuità/discontinuità; usa l’Amiata come metafora del mondo premoderno che sopravvive dentro quello moderno, anzi che entra nella modernità proprio quando la modernità è ormai in crisi. Lui stesso è la vivente incarnazione di tale trapasso.
Balducci, prete “sociale”, vede inizialmente nella Resistenza l’espressione moderna, “razionale”, della protesta lazzarettiana, individuando il carattere progressivo dell’emancipazione delle masse come il senso autentico della modernità (soprattutto alla luce dell’esperienza di La Pira a Firenze, in una prospettiva cristiano-sociale). Tuttavia, gli anni Settanta e Ottanta, la crisi di quelle aspirazioni, l’alienazione del mondo moderno della tecnica, lo spingono a ritenere il dominio della natura da parte dell’uomo, che la tecnica stessa garantisce, non come la vera risposta alla crisi della civiltà; anzi la crisi è generata dallo sviluppo stesso di quel mondo, ne è momento immanente e frutto contraddittorio.
In questi ultimi scritti il riferimento alla Resistenza scompare, il sogno marxiano di una cosa (esplicitamente menzionato in questi termini) è diventato irrealizzabile. L’uscita dalla modernità non è più nel controllo della natura, ma in un altro che faccia tesoro dell’autenticità premoderna dei rapporti umani, in un umanesimo etnologico che condivida le esperienze dal basso di tutte le comunità subalterne escluse o tradite dalla modernità. Quello spirito premoderno ancora quiescente nella comunità amiatina (negli anni Settanta e Ottanta), non ancora cancellato dall’anonima omologazione moderna, va salvato per una nuova modernità alternativa dei legami umani e solidali. La modernità è contraddittoria in se stessa, genera possibilità (l’universalismo umanista) e ne nega in sé la generalizzazione possibile. L’uomo nuovo deve dare piena attuazione a questa universalità potenziale con un’antropologia basata sul mutualismo premoderno ma su uno aperto al legame comunitario globale, in forme da trovare[5].
Il mondo nato con il Rinascimento ha aperto una strada che non si riesce a percorrere fino alla fine, che anzi tradisce e nega i suoi presupposti più alti, cancellando oltretutto le potenzialità insite nel mondo precedente, annullato dai suoi esiti più estremi (imperialismo e tecnica). Nella lettura del tardo Balducci cambia dunque la prospettiva: l’ideale lazzarettiano non è più l’immatura espressione di forze sociali acerbe che trovano poi coerente manifestazione nella Resistenza, forma di protesta adeguata ai tempi moderni, capace di un indirizzo universalistico effettivo; Lazzaretti è invece ora la voce di un popolo e di una cultura umana e solidaristica che la modernità annienta e alla quale non riesce a dare un’alternativa; quella voce va ripresa, ma non per tornare indietro a quel mondo umano ma povero e chiuso, bensì per andare oltre con un nuovo tipo di comunitarismo solidale a partire da coloro che sono arrivati tardi alla modernità e che quindi conservano quello spirito. L’antropologia etnologica - non più quella umanistica - deve essere alla
base non del ritorno ai microcosmi separati, ma di un nuovo universalismo solidale[6].
3. Nei trent'anni trascorsi dalla morte di Balducci, il processo di omologazione è andato avanti a passo spedito e del suo sognato solidale mondo antico è rimasto poco o niente. Le speranze, cui aveva contribuito personalmente anche dando vita a iniziative culturali, si sono infrante; alle riviste, alle musealizzazioni (inclusa quella del lascito lazzarettiano ad Arcidosso) ha corrisposto un sostanziale disinteresse civile e locale. I mondi reali che produssero rispettivamente Lazzaretti e Balducci stesso non esistono più e non esiste più il pubblico diffuso che possa essere loro interlocutore. Questo pone a noi la questione cruciale della definizione dei soggetti storici, della loro articolazione nel primo, secondo e terzo mondo.
Da un punto di vista marxiano, la posizione di Balducci si potrebbe riassumere come il colto, raffinato riflesso ideale della contraddizione reale del processo di produzione capitalistico che, a livello sovrastrutturale, si manifesta come crisi del concetto di Persona, la massima aspirazione pratica e intellettuale del mondo borghese progressista; esso è negato dal capitalismo crepuscolare non solo di fatto nella schiavitù salariale, ma anche ideologicamente con la crisi della sua egemonia all’interno dello stesso mondo che se ne era fatto promotore. Non riuscendo a svincolarsi dai confini sovrastrutturali, Balducci vede e reinterpreta questa contraddizione, e anche eventuali vie di uscita. a partire dalla categoria di uomo, o meglio essere umano in generale, rigirandosi nel problema di averlo a livello universale come ente generico e poi come esseri umani concreti, che nella realtà si trovano differenziati, schierati e conflittuali; il soggetto unitario si frastaglia senza che si riesca a comprenderne le ragioni e soprattutto a ricomporle in una visione unitaria dell’azione storica. Dall’universale si passa al particolare senza passaggi mediatori intermedi. Sempre in termini marxiani è questo il risultato più sofisticato dell’ideologia borghese, ma allo stesso tempo la sua prigione, in particolare nella sua volontà di universalizzare questo ente generico a soggetto della storia ut sic, fare cioè del prodotto ideologico del mondo della circolazione delle merci il soggetto umano come tale[7].
Al di là di possibili criticità di analisi e prospettive della sua posizione, mi pare che Balducci colga bene, anche se solo a livello sovrastrutturale, la natura contraddittoria della modernità. In particolare pone quella che secondo me è una delle questioni cruciali: non solo l’incapacità del modo di produzione capitalistico di universalizzarsi (Balducci non parla evidentemente di “modo di produzione capitalistico”, ma di “modernità”), ma il suo porsi in contatto con strutture e mondi che entrano nella sua orbita quando ormai il processo possibile di inclusione è già bloccato, incapace di ulteriore espansione progressiva. Una configurazione in sostanza in cui la dinamica di dominio e direzione che si è instaurata nel mondo occidentale nella fase progressista della borghesia non è più strutturalmente possibile e che quindi impone il puro dominio.
Se questa è la dinamica del capitalismo crepuscolare, si pone a noi la questione dell’articolazione di classe e della coscienza di classe in termini inediti nella prospettiva marxiana, o almeno solo adombrati per lo sviluppo al tempo solo incipiente della mondializzazione capitalistica. Non solo lavoratori salariati, non solo disoccupazione sempre meno elastica in un mondo che ha conosciuto la fase espansivo-inclusiva del capitale (lo “Occidente”), ma soggetti che non sono mai entrati nella “modernità” e che mai vi entreranno per dinamiche strutturali e che come gli altri sono potenzialmente antagonisti ma inevitabilmente con modalità differenti. Questa è la domanda che si pone alla fine Balducci: quali sono le chiavi per ricomporre questa disarticolata unità? Se il fattore disgregativo del mondo mercantil-tecnologico lo spinge a rivalutare quell’umanità spontanea che per esperienza personale aveva fatto in tempo a conoscere e che aveva avuto (o aveva nel presente) capacità autorganizzativa (Lazzaretti, ma mille altre realtà indios, campesine, ecc. in varie parti del mondo), pare a me questo un disegno troppo legato a un generico ente umano e alla sua azione volontaria soggettiva come individuo e comunità di individui e quindi condannato a soccombere di fronte alle tendenze strutturali della riproduzione sociale nel suo complesso, che le trascende con meccanismi condizionati e condizionanti.
L’azione soggettiva organizzata, in sostanza, se non riesce ad agire sulle dinamiche strutturali resta condannata alla sconfitta. Per chi si rifà a Marx, tra le dinamiche strutturali emerse nel corso dell’ulteriore sviluppo del modo di produzione capitalistico, c’è il tema solo adombrato da Marx del rapporto tra soggetti potenzialmente antagonisti che non si riducono alla tradizionale dicotomia capitale-operaio, ma che includono una complessità ancora da decifrare nel profondo nel tentativo di ricomporla [8].
4. Che cosa resta di Lazzaretti e di Balducci sull’Amiata di oggi? Si diceva che esiste tuttora una comunità religiosa di cui il primo è profeta e che ne continua il culto (oltre a essere culturalmente attiva con pubblicazioni e iniziative). Sul versante laico, nella Rocca di Arcidosso, paese di cui era originario, si è musealizzata parte del lascito, con una buona documentazione; si possono inoltre visitare i luoghi della sua predicazione, in particolare la cima del Monte Labbro dove ancor oggi si trovano edifici da lui utilizzati (c’è anche una targa lungo il viale che entra ad Arcidosso nel luogo in cui gli fu sparato). Nel cimitero di Santa Fiora è la sua tomba. Di Balducci, che abbandonò l’Amiata da dodicenne per studiare dagli Scolopi a Firenze e poi diventare sacerdote restando in un costante rapporto di esclusione/inclusione col luogo natio, si trova una targa sul muro della casa in cui nacque e passò una parte decisiva della sua infanzia. Anche lui è sepolto a Santa Fiora.
Che cosa resta dunque? Fuori dalla prospettiva religiosa – che qui non si intende considerare –, restano luoghi per “turisti culturali invasati”, come per es. è chi scrive (e per i poveri familiari/conoscenti che obtorto collo vengono trascinati in siffatte peregrinazioni). Il profeta spontaneo del popolo, l’intellettuale che ha cercato di incorporarlo in una dimensione culturale rivitalizzata con al centro lo “spirito dell’Amiata”, sono assenti o ai margini della autocoscienza popolare e delle sue prospettive sociali e politiche.
Questo, per quanto possa sembrare, non viene detto per lagnarsi dei mala tempora correnti, ma per sottolineare uno dei problemi di fondo ai quali, con la crisi delle organizzazioni di massa anch’essa dettata probabilmente dall’incapacità di cogliere e interpretare l’andamento del capitalismo crepuscolare[9], non abbiamo risposte: l’individuazione e la ricomposizione di classe, in una fase del capitalismo per certi tratti inedita o interpretabile per adesso solo nelle sue linee di tendenza di lungo periodo e a un alto livello di astrazione. Scendere da quel rarefatto mondo ai livelli più concreti dell’azione storico-politica (ma senza saltare le necessarie mediazioni) con un più adeguato concetto di classe: questa pare a me il sentiero interrotto da riprendere.
Note:
[1] Cioè riferita al “giurisdavidismo”, il movimento nato per volontà di Lazzaretti, avente per obiettivo una riforma della religiosità, ponendola in relazione con alcune questioni sociali.
[2] Per una agile e ben fatta biografia vedi A. Cavoli, Il Cristo della povera gente. Vita di Davide Lazzaretti da Arcidosso, Siena, NIE, 1989. Qualche anno fa, il noto cantautore Simone Cristicchi ha ideato uno spettacolo - “Il secondo figlio di Dio” - a partire dalla vicenda di Lazzaretti. Ne è poi nato un libro per Mondadori (2016) dall’omonimo titolo.
[3] Gramsci vi dedica varie note: Q 3 §12, Q 6 §144 e 158, Q 9 §81, Q 25 §1. Il tema è quello della storia delle classi subalterne (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975).
[4] Cfr. E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966, cap. IV. Primo esempio di ribellismo “millenaristico”.
[5] In questa concezione, Balducci recupera esplicitamente temi di De Martino e Bloch.
[6] Queste riflessioni su Balducci sono sviluppate soprattutto a partire da un’antologia di sue riflessioni sull’Amiata, con passi tratti da varie opere: Il sogno di una cosa. Dal villaggio all’età planetaria, a cura di L. Niccolai, Firenze, Giunti, 2006; da una raccolta di conferenze tenute in varie occasioni: Pianeta Terra, casa comune, a cura di A. Cecconi, Firenze, Giunti, 2006; e del suo ultimo scritto organico La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Firenze, Giunti, 2005.
[7] È questa a ben vedere un’autocritica rispetto a possibili sviluppi delle posizioni dello stesso giovane Marx, in particolare al concetto di alienazione legato a quello di Gattungswesen. Non è un caso che molti lettori di formazione cattolica o liberale siano diventati marxisti riprendendo questo Marx e riconoscendovi i tratti – se non altro inconsapevolmente – di una teoria personalistica. O che da marxisti, percorrendo la strada al contrario, siano diventati o religiosi o liberali. È probabilmente il motivo dell’interesse balducciano per Marx.
[8] Un tentativo in questa direzione l’ho sviluppato in Per il comunismo. Il concetto di classe, originariamente apparso su “La città futura”, ora in R. Fineschi, Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni, 2022.
[9] Su questo ho sviluppato alcune riflessioni provvisorie in 100 anni di PCI. Riflessioni aperte, su “La città futura” e Abbozzo di riflessione sul PC e sulla sua crisi, su “Cumpanis”.
08/09/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Composizione da foto d'archivio. Le foto nel corpo del testo sono di Fineschi.
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