Monday, 27 December 2021

Ricapitolone di fine anno 3


Dulcis in fundo
, last but not least, ben due monografie! Il caso ha  voluto che dopo più di dieci anni di inoperosità, tutti insieme uscissero due libri. Sono tra sé molto diversi e direi che si completano a vicenda.

Il primo è un'introduzione "popolare" che dà un quandro complessivo di Marx, un profilo come si suol dire.

https://www.morcelliana.net/profili-filosofia/4173-marx-9788828402930.html

Il secondo è una nuova edizione della mia prima monografia che si intitolava Ripartire da Marx e che adesso appare invece come La logica del capitale. Si tratta di uno studio estremamente approfondito della struttura logica complessiva della teoria marxiana del capitale in tutti i suoi diversi livelli di elaborazione.

https://www.scuoladipitagora.it/collane-iisf/saggi/la-logica-del-capitale-ripartire-da-marx

Ricapitolone di fine anno 2

 Ricapitolone di fine anno 2

Ecco invece la saggistica!

  • Fineschi R (2021). Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti. MATERIALISMO STORICO, vol. 9, p. 40-54. Disponibile on line.
  • Fineschi R (2021). Chi critica la critica? Alla ricerca di soggetti storici. L'OSPITE INGRATO, vol. 10, p. 29-34. Disponibile on line.
  • Fineschi R (2021). From Wittgenstein to Marx via Rossi-Landi. In: Marx and Wittgenstein. BERNA:Peter Lang. Link al sito dell'editore.  
  • Fineschi R (2021). Introduzione ai Quaderni filosofici. In: Lenin, Quaderni filosofici. Milano. PGreco. Disponibile on line.
  • Fineschi R (2021). Tempo e storia nelle Formen. Riflessioni sul materialismo storico. In: (a cura di): Sgro' G. - Viparelli I., Karl Marx (1818-2018): eredità e prospettive. p. 95-108, NAPOLI:La Città del Sole. Link al sito dell'editore.
  • Fineschi R (2021). “Astrazione reale”. Un tentativo di ricostruzione filologica. In: Soggettività e trasformazione. Prospettive marxiane. ROMA:Manifestolibri. Link al sito dell'editore.

Ricapitolone di fine anno 1

Care amiche e cari amici,

sempre ad uso di chi fosse interessato, ecco vari "ricapitoloni" di cose uscite in quest'anno particolarmente prolifico.

Oggi iniziamo con la pubblicistica: 

Per il comunismo. Il concetto di classe di Roberto Fineschi


Per il comunismo. Il concetto di classe



La crisi del Pci è dipesa anche da un’inadeguata definizione del concetto di classe. A tal fine è determinante il ruolo dei soggetti nell’attività lavorativa e le modalità del suo svolgimento. Accanto alla classe operaia dell’industria devono essere prese in considerazione oggi molte altre figure alle dipendenze di fatto del capitale per la sua valorizzazione e gli esclusi dal lavoro.

di Roberto Fineschi 22/01/2021 Centenario PCI





Premessa

In un precedente articolo sulla crisi del Pci individuavo, tra gli altri, due punti fondamentali che credo abbiano minato le sue capacità interpretative e di reazione ai cambiamenti di fase del modo di produzione capitalistico. Il primo è una inadeguata definizione del concetto di classe, il secondo un’incapacità di individuare le dinamiche concrete di trasformazione materiale dei processi economico-sociali e del loro connesso riverbero ideologico. In questa sede vorrei riprendere la prima delle due questioni.

Nella storia del Pci la declinazione fondamentale del concetto di “classe” è consistita nell’identificazione privilegiata del soggetto antagonista nella “classe operaia”. Nella dinamica storico-politica e poi nell’evoluzione della teoria dell’egemonia, essa si è estesa a includere nel “blocco storico” i contadini, al punto che sulle bandiere rosse sventolavano la falce e il martello. Il grande valore di questa alleanza e la sua centralità in una fase determinata della storia contemporanea dettero, da una parte, grande forza a quel movimento nella fase in cui essa sembrava effettivamente incarnare la soggettualità preponderante. È invece sembrato che il declino di quelle istanze reali sancisse una crisi definitiva anche del partito che se ne dichiarava portavoce, almeno nel cosiddetto mondo occidentale avanzato. I mutamenti storici che hanno ridefinito decisamente le configurazioni determinate della lotta di classe hanno lasciato spiazzati un po’ tutti. Il Pci non ha trovato risposte alla domanda cruciale di come la sua teoria di riferimento, il marxismo, potesse riuscire a interpretare il mondo senza la classe operaia, che pareva esserne la pietra angolare. Questo, da un punto di vista teorico e organizzativo, è stato secondo me uno dei nodi. L’altro, altrettanto fondamentale, è stata l’incapacità di pensare alternative al capitalismo, una volta che il modello sovietico veniva dato per non praticabile a partire dalla fine degli anni Sessanta. Anche qui l’incapacità di analisi della crisi di quel modello e quindi di l’elaborazione di schemi alternativi è stata, credo, evidente [1]. Questi secondo me due temi centrali senza dare una risposta ai quali anche una ripartenza politica e organizzativa, seppur nel lungo periodo, resta difficile. In questa prospettiva, dedicherò qui alcune considerazioni a una possibile riformulazione del concetto di classe in una chiave che, da una parte, salva l’esperienza storica del movimento operaio come “figura” determinata, dall’altra individua “forme” tuttora attuali e utilizzabili in chiave politica. Se la dialettica di forma e figure è il primo concetto chiave, il secondo è l’articolazione “geograficamente” più articolata di classe nel “capitalismo crepuscolare”, in cui le figure di soggettualità si delineano maniera ancora più complessa e stratificata.

Per una riformulazione del concetto di “classe”

1. In termini marxiani, la determinazione di classe è funzionale, vale a dire dipende dal ruolo specifico e dalle modalità determinate in cui i soggetti espletano la loro attività lavorativa. Questa determinazione obiettiva si configura a prescindere dal fatto che i lavoratori ne siano consapevoli o meno (possono in realtà pensare anche l’opposto di quello che fanno; vedi la questione dell’egemonia). La percezione fenomenica della loro forma, vale a dire dell’azione obiettiva, ha luogo a livello sovrastrutturale e si realizza in figure storiche che effettivamente agiscono; riportare queste figure alla forme, ovvero percepire il proprio fare storico-determinato come un esempio storico di una forma del produrre non è sempre semplice. È più semplice in certe fasi (grande fabbrica, operaio massa), più difficile in altre (automazione, informatizzazione).

Sempre, ma in modo particolare quando la percezione è meno semplice, interferisce la coscienza di ceto sopra quella di classe; vale a dire che l’identificazione di sé non è più funzionale, ma basata su classificatori sociologici ed esperienziali come tenore di vita, livello di reddito, ecc. L’identificazione non è più basata sul ruolo, ma su dinamiche empirico fenomeniche data la sostanziale individualità personale come fondamento dell’aggregazione. La dialettica non appare più di classe ma caratterizza e descrive l’individuo e la sua appartenenza a un determinato ceto (o passaggio a uno superiore o caduta in uno inferiore). Si pensi al concetto tipicamente anglosassone di middle class.

2. Si diceva del carattere funzionale della classe; vediamo qualche precisazione su questo punto. La prima cosa da mettere in chiaro è che nella teoria di Marx l’altro del capitale non è l’operaio di fabbrica, ma il lavoratore salariato. Capitale-lavoro salariato è la dicotomia nella quale gli elementi del processo lavorativo (lavoro e mezzi di produzione) si articolano; è la modalità specificamente capitalistica in cui essi vanno a unirsi nel modo di produzione capitalistico. Il primo errore è quindi immaginare che questa funzione, dal lato del lavoro, sia rappresentata solo dall’operaio. Il secondo, altrettanto grave, è pensare l’uno dei due lati del rapporto senza l’altro: il rapporto di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del nesso che si instaura tra lavoro vivo e lavoro morto, tra attività lavorativa e mezzo e oggetto di lavoro; dunque capitale/lavoro salariato è un nesso e uscirne significa concepire una nuova articolazione di questa forma storicamente determinata del nesso. Essere per il superamento del modo di produzione capitalistico ha quindi un senso non velleitario solo se si lotta per una riconfigurazione del nesso, non semplicemente contro il capitale come uno dei due termini del nesso. Marx chiama “capitale” sia il nesso nel suo complesso (il modo di produzione capitalistico) sia una dei due lati del nesso (quello impersonato dal capitalista come portatore materiale di mezzo e oggetto di lavoro). L’incomprensione della differenza tra capitale come nesso complessivo e capitale come uno dei due elementi del nesso sta alla base di molti errori teorici e pratici.

La dimensione del capitale nel nesso complessivo non è semplicemente la persona del capitalista, o del manager o del facente funzione. Ciò significa che la gamma di scelte possibili che chi gestisce da posizione apicale il processo di riproduzione può compiere sia incardinata in una dinamica obiettiva complessiva che, come contesto, si colloca al di sopra delle sue possibilità decisionali. Qui non ci sono variabili indipendenti, è il sistema che si muove con una meccanica ben determinata solo all’intero della quale esiste una gamma di scelte possibili da entrambe le parti. Credere, in termini generali, che scelte arbitrarie siano in grado di orientare il processo è, per Marx, una ingenuità.

3. Si diceva che il lato del lavoro non può essere ridotto all’operaio. Quest’ultimo costituisce una delle figure storiche più significative a oggi conosciute di questa forma di movimento del sistema capitale, ma non certo l’unica possibile. Si tratta di individuare quali elementi permettano di definire funzionalmente l’appartenenza alla classe dei lavoratori. Non è quindi la compresenza nella fabbrica, il simile trattamente salariale o stile di vita e chi più ne ha più ne metta; si tratta di capire la funzione del lavoratore nel sistema e in base a essa determinarne l’appartenenza di classe. Per essere sussunto al capitale e quindi elemento della realizzazione del processo di valorizzazione è necessario:

a) scambiare la propria forza-lavoro contro capitale, ricevere un salario. Questo può avvenire nelle forme più disparate, dalle tradizionali a quelle mascherate dal cottimo o dalla partita IVA. Oppure nelle varie forme di neocaporalato virtuale possibile grazie alle nuove applicazioni smart o a siti altrettanto intelligenti.

b) Valorizzare il capitale. La propria prestazione è parte di un processo che, nelle intenzioni del capitalista, porta alla valorizzazione del capitale investito. Ciò può avvenire anche in maniera mediata che pare salvaguardare la mia “autonomia” di lavoratore. Vedi punto 1. Contribuire alla valorizzazione del capitale non significa necessariamente produrre materialmente il plusvalore, ma anche essere parte dei processi altrettanto necessari affinché la valorizzazione avvenga: promozione, distribuzione, vendita, e via dicendo.

La prestazione avviene in modalità storicamente determinate imposte progressivamente dal modo di produzione capitalistico: carattere cooperativo del lavoro (questa cooperazione può avvenire anche tra persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza attraverso internet o un’applicazione). Il carattere parziale dell’attività (il lavoratore non sa più realizzare tutto il prodotto ma solo una parte). Il suo carattere addirittura d’appendice (il processo complessivo è strutturalmente autonomo e il lavoratore ne realizza un dettaglio). La dimensione sociale, vale a dire la finalità complessiva del processo che si va a realizzare, non è posta dal lavoratore ma da qualcuno sopra di lui e egli vi si deve sussumere senza che essa sia neanche da lui conosciuta nella sua complessità (il processo può sfociare nell’esclusione del lavoratore dal processo attraverso l’automazione completa).

Queste caratteristiche funzionali, di forma, possono essere “incarnate” da una moltitudine di figure diverse che restano membri della “classe lavoratrice” in virtù del loro ruolo funzionale specifico. Ciò permette di ricondurre alla stessa definizione di lavoratore una amplissima tipologia di attività, contro la parvenza ideologica della scomparsa del lavoro o della sua radicale trasformazione. Le modalità capitalistiche di espletazione sopra indicate si applicano tanto all’operaio tradizionale quanto al lavoro atipico contemporaneo. Ciò permette sia di salvare che rendere operativamente applicabile la categoria di classe.

4. Capitalismo crepuscolare. Ciò detto, bisogna considerare le dinamiche di lungo corso del modo di produzione capitalistico. Nella sua tendenza di lungo periodo, la meccanica del sistema pone la questione della crescita esponenziale della composizione tecnica del capitale (rapporto tra macchinari e lavoratori) e quindi quella di una potenziale caduta non solo del saggio, ma addirittura, relativamente, della massa del profitto. Vale a dire che l’automazione, determinata dalla produzione del plusvalore relativo, porta a un impiego sempre minore di lavoro vivo. D’altro canto, il modo di produzione capitalistico sussiste solo in quanto c’è estrazione di plusvalore dal lavoratore, quindi si crea un vincolo irrisolvibile per il quale da una parte c’è bisogno del lavoratore e dall’altra lo si espelle dal sistema. Questo alla fine porta al collasso strutturale del sistema, almeno a livello teorico, in quanto la valorizzazione diventa impossibile. La conseguenza è che il carattere elastico dell’esercito industriale di riserva - della disoccupazione - viene a mancare e quindi la capacità di riassorbimento nel processo di lavoratori espulsi diventa sempre più difficile se non in linea di principio impossibile. Ciò implica all’interno del sistema, in maniera speculare alla determinazione della classe lavoratrice, una massa sempre maggiore di individui che non lavorano e che non lavoreranno. Ne consegue che il sistema avrà tre livelli generali in cui si configurano i lavoratori potenziali:

a) I lavoratori attivi nel sistema capitalistico vero e proprio, caratterizzati dalle modalità indicate sopra.

b) Gli esclusi all’interno del sistema capitalistico, una massa sempre maggiore di individui che, non riassorbibili, vivono delle briciole. Essi sono perfettamente funzionali e parte di esso nella forma dell’esclusione. La loro auto-percezione è quella dell’individuo atomico autoreferenziale e può portare alla crisi del concetto di persona universale [2].

c) Un terzo livello cruciale: quelle ingenti masse sparpagliate in tutto il mondo che mai entreranno pienamente nel sistema capitalistico oramai incapace di espansione organica complessiva, ma che da esso dipendono per le dinamiche mondiali della riproduzione sociale. Queste popolazioni mai faranno esperienza del “progresso” capitalistico alla maniera occidentale e quindi la loro “funzionalità” contempla configurazioni precapitaistiche, che tuttavia sono subordinate nella loro esistenza e riproduzione alla dinamica riproduttiva del capitale globale.

Se quanto detto ha un senso, tutte e tre queste categorie hanno interesse funzionale a superare il modo di riproduzione capitalistico. Organizzarle, far loro comprendere la comune appartenenza di classe è uno dei complessi compiti politici che ci sta di fronte.

Questa categorizzazione, qui schematicamente introdotta, può forse individuare le coordinate generali per individuare soggetti cui rivolgersi e una strumentazione categoriale per mostrare loro il ruolo funzionale che hanno nel sistema; ne emerge anche come solo da una riorganizzazione di detto sistema (il nesso storicamente determinato di struttura/sovrastruttura) si possa indicare una via di uscita. Qui subentra allora la seconda delle domande posta all’inizio, vale a dire il tema della transizione e delle nuove forme determinate del nesso. A questo bisogna ancora lavorare.



Note:

[1] Alcuni elementi di approfondimento su quanto qui riassunto li si possono rintracciare nell’altro articolo menzionato.

[2] Sulla crisi del concetto di persona si veda questo testo. Per una trattazione più accademica: Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino, 2020, pp. 157-173.

Sunday, 26 December 2021

Dalla totalità ai soldati (per mezzo dei soldi). Ma ci sarà solidarietà?


 Dalla totalità ai soldati (per mezzo dei soldi). Ma ci sarà solidarietà?


Lo strano titolo è per parlare brevemente delle mirabolanti scoperte che si fanno stando a casa lavorando a scartamento ridotto.

Tutte le parole di sopra, strano ma vero, sono tenute insieme dalla stessa etimologia.

I soldati sono notoriamente tali perché pagati con il soldus, assoldati; il soldus è il loro stipendio. Il soldus è la moneta latina d'oro introdotta da Costantino come sol(i)dus. Era una monta "solida", nel senso che non veniva alterata attraverso riduzioni del materiale prezioso che rappresentava, ma soprattutto nel senso etimologico della parola latina, vale a dire rappresentava l'intero che veniva poi frazionato in sottomonete (solidus nummus, per completezza). Reminescenza di questo significato è rimasto nell'espressione giuridica "essere responsabile in solido", vale dire per l'intero ammontare indicato. 

Solidale viene da questo accezione: essere obbligati con altri per l'intero. Quest'idea un po' burocratica di obbligo si è poi addolcita con un poco di umanità.

Ma solidus da dove deriva? In base alla stessa trasformazione che da gravis ci dà gravidus, solidus viene da sollus, voce aggettivale arcaica latina di probabile origine osca che significa... totale, intero. 

Dalla totalità ai soldi, dunque, il passo non è breve, ma cammina cammina... il denaro come totalità... archetipi marxiani?

Monday, 20 December 2021

Roberto Fineschi, La logica del Capitale. Ripartire da Marx




Novità in libreria.
Roberto Fineschi, La logica del Capitale. Ripartire da Marx.
La teoria del capitale di Marx è un’analisi della modernità nel suo complesso: economia, ideologia, conflitto sociale, metodo scientifico, ecc. sono aspetti di una articolazione unitaria. L’indagine della sua struttura logica è l’oggetto di questa ricerca. In tale prospettiva l’autore affronta temi tradizionali tra cui la teoria del valore e della trasformazione, la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale, il “capitale in generale” e i cambiamenti del piano originario, la caduta tendenziale del saggio del profitto, la dimensione finanziaria del capitale sviluppato e il metodo dialettico ed il suo svolgimento. La ricerca è stata svolta alla luce della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA➁); essa ha messo a disposizione per la prima volta migliaia di pagine di manoscritti inediti che hanno modificato radicalmente il panorama interpretativo.
#Marx #Marxism #Capitale
https://www.scuoladipitagora.it/.../la-logica-del...
Il volume è promosso da Emme Promozione e distribuito Messaggerie Libri


Saturday, 11 December 2021

Dire dove la storia andrà Tra Dante e Marx. Noterelle sull’azione storica di Roberto Fineschi


Dire dove la storia andrà

Tra Dante e Marx. Noterelle sull’azione storica

di Roberto Fineschi



Dire dove la storia andrà


1. In occasione del centenario dantesco vorrei sviluppare qualche noterella sulle sue riflessioni di teoria politica. Che, tra le istituzioni universali, il primato spetti all’imperatore piuttosto che al papa, che la loro conflittualità, lo scarso interesse del primo alle questioni “italiane” ecc. giochino effettivamente un ruolo nella governance mondiale, ai nostri occhi non appare onestamente un tema rilevante, almeno in questi termini. Significa questo che i problemi teorici affrontati da Dante, il contesto in cui la sua riflessione si articola non abbiano niente su cui farci riflettere? Ovviamente no. Tra i temi più interessanti, a mio parere, figura la complessa relazione tra istituzioni, bene universale, e le “parti”, nonché la questione dell’efficacia del “ben fare” rispetto al corso storico.

Limitandosi ai cosiddetti canti politici (il sesto di ciascuna cantica), già nel discorso su Firenze di Ciacco – punito nel III cerchio dell’Inferno tra i golosi – emerge il tema delle “parti” (qui i guelfi bianchi e i guelfi neri) e della loro lotta intestina:

… Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione
(Inferno, 64-66).
La causa del loro agire pernicioso è da ricondurre a
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi

(Inferno, 74-75).

Il problema tuttavia non riguarda solo chi agisce a fin di male; com’è noto, pure coloro che “a ben fare posero gli ingegni”, che non agirono per superbia, invidia o avarizia ma nella prospettiva del bene comune, saranno dannati se non avranno accettato la volontà divina e il suo piano provvidenziale. Dante, ricordando alcuni dei protagonisti della vita politica fiorentina del suo tempo, chiede:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

(Inferno, 79-82).

E Ciacco chiarisce:
… Ei son tra l’anime più nere

(Inferno, 85).

Passiamo adesso al VI canto del Purgatorio; l’invettiva di Sordello – il più famoso dei trovatori italiani che Dante incontra nel secondo balzo dell’antipurgatorio tra i peccatori morti violentemente – indica nell’assenza della salda guida dell’imperatore la causa principale dell’instabilità politica della penisola italica. Essa sta a fondamento tanto delle lotte fratricide tra grandi famiglie, feudatari ecc., quanto della crisi di Roma. La situazione è così drammatica che Sordello “osa” interrogarsi, provocatoriamente, sull’imperscrutabilità dei piani divini e sullo iato tra essi e la tragica realtà che si mostra agli occhi dell’attore politico del tempo:

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

(Purgatorio, 118-123),

Infine, nel sesto canto del Paradiso – secondo cielo di Mercurio, dove Dante incontra gli spiriti giusti – si ha un più preciso riferimento all’errore di Guelfi e Ghibellini, i “partiti” del tempo. Giustiniano, icona dell’impero universale, afferma che essi o lottano contro il vessillo imperiale, il “pubblico segno” – i guelfi –, o se ne appropriano indebitamente facendone un simbolo di parte e non universale – i ghibellini:

Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.

(Paradiso, 97-102).

Seguendo le indicazioni dei passi menzionati, lo schema che si delinea pare il seguente. La responsabilità morale e politica è individuale e l’errore ha due origini gerarchicamente articolate: da una parte essi nascono dal cadere vittima del peccato, vale a dire agire per avarizia, brama di potere, invidia. Qui, a differenza di altri passi, non viene inserita nella lista la lussuria; aggiungendo quest’ultima il quadro è un grande classico (maschilista): potere, denaro, donne. Ciò detto, c’è però un secondo livello, vale a dire sbaglia altrettanto ed è destinato alla dannazione colui che, pur mirando a valori universali, lo fa non abbracciando al contempo la prospettiva trascendente, divina. Il “ben fare” non basta. Una prospettiva puramente laica dell’agire politico, per quanto sincera e alta, non è sufficiente.

Di fronte agli individui e alle loro responsabilità si ergono delle istituzioni universali, rispettivamente il papato e l’impero, rispetto alle quali essi hanno dei doveri spirituali e politici. Sia l’imperatore che il papa devono agire in vista del bene comune e rifuggire il particolare. Il rapporto tra universale e particolare è diretto: il secondo sta immediatamente sotto il primo e gli risponde individualmente. Questo rapporto immediato era reso più complesso dall’esistenza dei comuni, ma essi valevano come uno, come del resto i feudi, di fronte all’imperatore, l’universale politico, che quindi aveva il dovere di raccoglierli in una unità. Il prevalere del peccato e del vizio e l’apparente limitatezza del ben fare in ciascuno dei poli di questo rapporto portava all’inesorabile instabilità che affliggeva la realtà contemporanea. Le parti paiono dunque aggregati di individui che si uniscono nella ricerca di un particolare.

A valutare dalle numerose invettive dantesche contro Firenze, Pisa, Siena, l’Italia nel suo complesso, vari imperatori, innumerevoli papi, pare difficile dire quando un sistema così strutturato sia stato efficace nella storia… praticamente mai. La sua teorizzazione – esposta in modo più esplicito e “scientifico” nel De Monarchia – vale dunque solo come, diciamo, ideale regolativo, come dover essere che pone l’obiettivo di un’armonia che non esiste nel momento dato, ma che a ben vedere non è mai esistita neppure in passato, se non in dei mitici tempi andati per i quali Dante non dà riferimenti storici esatti.

Qui, inesorabilmente, viene fuori la questione del piano provvidenziale: se nell’azione umana non prevale la ragione e lo spirito, o se l’azione umana, seppur condotta in conformità a ragione e spirito, non produce un mondo giusto e pacificato, non si può che ipotizzare l’esistenza di un piano razionale e pacificato che trascenda le capacità di comprensione individuali e che si renda manifesto solo nel viaggio ultraterreno. Il viaggio terreno non ha senso in se stesso, ma lo acquista nella prospettiva escatologica dell’aldilà; l’anima individuale, nel mondo, si salva dal mondo. Il mondo come tale gli individui non riescono a salvarlo o a governarlo; poiché la presenza di Dio si manifesta ma non si lascia comprendere pienamente, si ipotizza che ci sia un piano imperscrutabile, un governo più alto esperibile ma non concettualizzabile nella sua concretezza. Bisogna solo fare quello che è giusto fare per salvare la propria anima, senza garanzia alcuna che ciò porti a un effettivo miglioramento della realtà dal punto di vista dell’attore vivente, ma con la fede incrollabile che questa azione abbia senso in quanto razionale e divina.

Si noti a questo punto che, se questo governo più alto ci sia – piano provvidenziale – o non ci sia – sorte o fortuna –, dal punto di vista pratico delle capacità di gestione dell’attore nel mondo non cambia niente: il mondo resta ingovernabile. Infatti, rispetto a questa semplificata ricostruzione dello schema dantesco, la modernità ha dapprima cercato di riformulare in termini razionalistici l’idea del piano provvidenziale, per poi abbandonare l’idea stessa di un piano e lasciare il mondo a se stesso nella sua meccanicità materialistica o, addirittura, nella sua irrazionalità costitutiva, comunque senza finalità.

2. Qual è il tentativo marxiano in questo contesto? Nasce sicuramente dall’eredità hegeliana. Essa, letta laicamente, si configura come una ricostruzione a posteriori di una razionalità che si è già dispiegata nella storia mostrando di avere una finalità: lo sviluppo dello spirito non è meramente meccanico ma segue una tendenzialità; Hegel afferma che essa è effettiva, in quanto si è mostrata nella storia come una struttura razionale che la razionalità stessa, esistente in forma cosciente nel filosofo, è in grado di comprendere e spiegare. Certo, a giudicare dalle sue lezioni sulla filosofia della storia, neppure in passato i momenti storici in cui il reale è stato razionale sono stati poi molti, ma comunque Hegel formula livelli di razionalità sostanziale – le epoche della storia nella Filosofia del diritto – che hanno delle linee di sviluppo che, a posteriori, si lasciano ricostruire come svolgimento finalistico dello spirito. Questa comprensione tuttavia ci dice dov’è andata la storia e perché [1], ma non ci dice dove andrà.

Qui arriva l’ambizioso Marx: dire dove la storia andrà. È un’ambizione piena di problemi e probabilmente non si lascia sciogliere nell’ottimistica autoaffermazione di una società futura che non solo nasce come potenzialità, ma che addirittura si realizza scalzando più o meno necessariamente quella capitalistica. Questa filosofia della storia in senso fortissimo è stata criticata da ogni versante, anche all’interno dello stesso marxismo e variamente riformulata, fino agli estremi di un ritorno al rapporto dell’individuo/individui con la contingenza (o il caso che dir si voglia). Credo che questa sia una strada che finisce per perdere la sostanza del materialismo storico. A mio modo di vedere la soluzione intermedia la si trova nella capacità marxiana di teorizzare la finalità attiva nel presente: non tanto di dire che ci sarà necessariamente il passaggio a una società futura, ma nel mostrare come il presente abbia delle linee di tendenza ancora non propriamente in atto, non completamente sviluppate. La teoria marxiana permette di comprenderle e di indicare verso quali sviluppi si tenderà all’interno del modo di produzione capitalistico, affinché esso si realizzi pienamente. Non è una finalità escatologica: non è né trascendente (Dante) né ricostruibile solo rispetto al passato (Hegel), ma formulata a partire dalla comprensione scientifica del presente e rivolta al presente (nel senso dello sviluppo dell’epoca presente, non del necessario passaggio a un’epoca futura). Non è quindi neppure una filosofia della storia forte come quella della tradizione marxista, ma non è neppure il ritorno a un destrutturato rapporto tra gli individui e il caso (o pochissimo strutturato sulla base di una ricostruzione delle contingenze via via date).

In base alla comprensione di queste tendenzialità si può cercare di formulare un’azione storica e politica razionale non in virtù di una fede incrollabile o di un’intuizione felice a proposito del corso della storia nel momento corrente, ma in virtù di leggi e tendenze che configurano soggetti e una loro azione possibile [2]. Con questo, a Marx sarebbe riuscita la magia di trasformare la filosofia (o la teologia) in una scienza non dell’aldilà o del dopo, ma dell’ora e, quindi, forse, anche in uno strumento pratico per cambiare il mondo [3].



Note:

[1] Ciò non significa che la storia sia finita ma che è compiuta fino a questo momento; ciò anzi indica l’alba di una nuova epoca dello spirito della quale però non si può dire niente prima che essa stessa si sia compiuta.

[2] In questo contesto è un tema particolarmente delicato il rapporto tra il tutto e le parti, ovvero tra individui, soggetti collettivi, totalità che, evidentemente si articola in maniera assai diversa rispetto a quanto accadeva in Dante. Il nodo della questione, che qui evidentemente non può essere trattata, è evitare la riduzione dei soggetti storici a meri individui (l’acme dell’ideologia borghese che si ripresenta in varie salse libertarie anche a sinistra) o a generici processi transindividuali (l’irrazionalismo delle non meglio definite ere) e/o alla loro “narrazione”.

[3] Alcune ulteriori considerazioni su questo punto nel mio Note provvisorie per una Teoria della Rivoluzione.

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