Wednesday, 14 April 2021

Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti - Roberto Fineschi

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Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti

Roberto Fineschi

Instead of an abstract relationship between human beings and nature, Marx's theory outlines a process which includes historical and natural change as a combined development. This implies issues and possibilities, such as pandemics and the capacity to deal with them; both sides are parts of the same development. The capitalist mode of production is therefore a phase of this process that, at the same time, creates the conditions of human and natural exploration (also of mortal pandemics) but also the possibility, for the first time in history, to cope with that, and pass to a higher and more rational organization of the entire structure.

Progress; Mode of production; Pandemic; Historical Change.

1. Pare che le epidemie siano un qualcosa di tipicamente umano, un tutt’uno con la vita associata. Quando nell’antica Mesopotamia sono nate le prime civiltà si è creato il contesto ideale perché esse prosperassero e si dif-fondessero. La vita comune di ingenti masse di individui che mangiano, be-vono, espletano le proprie necessità fisiologiche, producono nello stesso luogo creò presupposti mai esistiti in precedenza per cui condizioni igieniche estreme e contiguità massiccia favorirono malattie e contagi; a ciò va aggiunta la convivenza promiscua con animali di vario tipo dai quali e ai quali trasmet-tere germi, bacilli ed ogni altra forma di vita potenzialmente nociva. La dome-sticazione umana, animale e ambientale va all’unisono con infezioni e malattie.

Si calcola che, anche al tasso naturale di crescita, la popolazione mondiale dal 10.000 a.C al 5.000 a.C avrebbe dovuto almeno raddoppiare, invece, alla fine del periodo, essa era aumentata di appena un 25%, passando da 4 a 5 milioni, nonostante condizioni che in teoria avrebbero dovuto implicare anche più di una duplicazione (rivoluzione neolitica). Nei cinquemila anni successivi aumentò invece di una ventina di volte. Si ipotizza che, proprio a causa di epidemie e di un plurimillenario processo di adattamento della specie alle nuove condizioni di vita, l’espansione della popolazione sia stata drasticamente rallentata. Epidemiologicamente, si trattò con tutta probabilità del periodo più mortifero della storia umana. Sembra che le popolazioni mesopotamiche aves-sero già l’idea del contagio per trasmissione e che adottassero misure analoghe a quella della quarantena.

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Con la vita urbana, l’aumento di densità abitativa fu dalle dieci alle venti volte superiore a quanto mai fosse stato sperimentato dall’homo sapiens. Le ma-lattie storicamente nuove, conseguenza della nuova pratica sociale, furono: co-lera, vaiolo, orecchioni, morbillo, influenza, varicella e, forse, malaria. Sono tutte collegate all’urbanizzazione e all’agricoltura. Dei millequattrocento agenti patogeni umani conosciuti, ottocento-novecento circa hanno avuto origine in organismi non umani ed hanno visto nell’essere umano l’ospite finale. La lista di malattie che condividiamo con vari animali, da polli a maiali, da cani a pe-core è impressionante. Alcune delle trasformazioni biologiche furono conse-guenza di trasformazioni intenzionali, come la coltivazione, ma altre sempli-cemente frutto dell’istituzione della domus e della vita associata1.

Le descrizioni di grandi pestilenze storiche a noi pervenute lasciano poco spazio all’immaginazione nel valutare il loro impatto devastante. Le atrocità, le sofferenze, la diffusività e gli effetti danno talvolta addirittura la sensazione di un cambiamento epocale a causa sia delle conseguenze sanitarie che di quelle socio-politiche. L’antichità ci ha tramandato attraverso Tucidide, ripreso da Lucrezio, la cruda descrizione della peste di Atene del 430 a.C. L’epidemia è rappresentata come una calamità, un accadimento incontrollabile che, con la sua potenza soverchiante, si colloca al di là dell’umano che può solo subirla senza alcuna forma di contrasto: medici disarmati, nessun farmaco2. I suoi ef-fetti sociali sono altrettanto devastanti, con la popolazione che regredisce a uno stato animalesco, perde il decoro, sprofonda nella bestialità, perde la pro-spettiva del futuro e schiaccia il senso dell’esistenza su di un adesso che va dissolvendosi3. Lucrezio ce ne dà un resoconto in versi nel De rerum natura4; di grande interesse sono le parti che precedono la descrizione: qui il filosofo chia-risce origine e causa di malattie ed epidemie5; è una spiegazione che segue quella relativa al funzionamento della calamita6, alla temperatura dell’acqua dei

1 SCOTT 2020, pp. 82 ss.

2 TUCIDIDE 1997, L. II, 48, 51.

3 Ivi, l. II, 52-53.

4 Ivi, vv. 1138-1256.

5 Ivi, vv. 1090-1137.

6 Ivi, vv. 906-1089.

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pozzi7, alle piene del Nilo8, ecc., vale a dire fenomeni che, come la peste, rien-trano nella natura delle cose, che si può comprendere, ma non modificare. Dal punto di vista epocale, la peste di Atene è un momento materialmente e sim-bolicamente decisivo nel declino della potenza attica; alla fine delle Guerre del Peloponneso l’egemonia economica e politica della città sarà segnata per sem-pre.

Con minori conseguenze politiche, ma altrettanto mortifera fu la cosiddetta “peste antonina”. Secondo lo storico romano Cassio Dione9 provocò circa 2.000 morti al giorno a Roma, uccidendo secondo le stime tra i 5 e i 30 milioni di persone nell’arco di trent’anni (circa un terzo della popolazione in alcune zone).

La fine del mondo antico, più che dalla deposizione di Romolo Augustolo nel 476 da parte di Odoacre, fu segnata dalla sanguinosa guerra greco-gotica che imperversò nella penisola italiana tra il 535 ed il 553. Essa, oltre alle feroci devastazioni belliche, vide l’esplosione della cosiddetta “peste di Giustiniano”, così detta in quanto l’epidemia originò a Costantinopoli durante il suo regno e si diffuse poi in occidente. Anche in questo caso le testimonianze storiche di Procopio10 e Paolo Diacono11 ci parlano di “fine del mondo”, con Roma ad-dirittura completamente spopolata. È questo un altro momento in cui l’epide-mia va a suggellare la fine di un’epoca storica, un momento di rottura socio-politica che si rappresenta in una catastrofe che porta non solo al tracollo delle forme istituzionali, ma allo sterminio di una stessa popolazione. Procopio af-ferma che a causa della pestilenza la razza umana fu prossima alla scomparsa. Seguendo Ippocrate, i medici bizantini cercarono di capirci qualcosa, ma alla fine, non riuscendo nemmeno ad individuare regolarità, la spiegazione premi-nente divenne la più classica punizione divina12.

Si consideri dunque la celebre epidemia che, intorno al 1348, afflisse l’Italia e buona parte del mondo allora conosciuto. Anche in questo caso la mortalità fu altissima e l’ascesa di molte fiorenti città-stato fu frenata drasticamente, in

7 Ivi, vv. 840-847.

8 Ivi, vv. 703-737.

9 CASSIO DIONE 2009, LXXII 14.3-4.

10 PROCOPIO 1977, VII, 20.

11 PAOLO DIACONO 1990, II, 4.

12 Su questi temi si veda anche LITTLE 2006; MALANIMA 2009; SMITH 1997.

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certi casi irrimediabilmente. Solo a titolo di esempio, Siena ha raggiunto nuo-vamente la stessa popolazione che aveva in quel periodo solo nel primo de-cennio del 1900. In questo caso, valga per tutte la celebre descrizione di Boc-caccio all’inizio del Decamerone13, in cui, di nuovo, si ha la percezione non solo della crisi sanitaria, ma della crisi di civiltà, del decadere non solo dei costumi ma delle regole della urbana convivenza, del regresso allo stato bestiale al quale l’allegra brigata cerca di trovare risposte su di un piano dialogico e multipro-spettico.

In conclusione, passiamo ai tempi moderni, in particolare alla descrizione della peste a Milano del 1630. Manzoni ne parla diffusamente, come è noto, sia ne I promessi sposi14 che nella Storia della colonna infame15. Molte delle caratte-ristiche del propagarsi dell’epidemia ed il comportamento della popolazione sono simili a quelli descritti in precedenza; a cambiare decisamente è invece il tono e l’atteggiamento del narratore: non siamo più meramente di fronte a un evento naturale o a una punizione divina, a un meccanismo infernale ed irri-mediabile descritto nella sua drammatica crudezza; secondo Manzoni, pur nei limiti dati, si poteva fare qualcosa. Il dito è puntato contro l’amministrazione lenta, volutamente cieca, tardiva, poi inefficiente del ducato che, a causa di una mol-titudine di errori, fu concausa del flagello. Qui ci sono due aspetti da conside-rare: il primo è, di nuovo, il significato storico della crisi generale del modello coloniale spagnolo che produce miseria e corruzione, decadenza ed ignoranza e la peste come sua emblematica conseguenza. Il secondo, e più interessante per noi, è la presa di coscienza da parte dell’illuminato Manzoni che, con un’ac-corta gestione da parte delle istituzioni, non la malattia di per sé, ma le sue più drammatiche conseguenze avrebbero potuto essere evitate. Qui, evidente-mente, il discorso si fa più ampio, in quanto egli non parla solo della Milano del Seicento ma di quella di metà Ottocento e di quella futura: l’amministra-zione può gestire processi e, nei limiti del possibile, dirigerli, evitare le conse-guenze più drammatiche, orientarli. Manzoni non era certo comunista e non aveva in mente piani quinquennali di sorta, aveva invece una guida spirituale gesuita ed era molto devoto. Era un nobile moderatamente progressista che capiva la differenza tra il possibile e l’utopico e operava per il possibile. Lo

13 BOCCACCIO 1992, pp. 14-28.

14 MANZONI 1993a, capp. 31-32.

15 MANZONI 1993b.

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spirito illuministico, pur in una versione rivisitata per essere accettabile da no-bili moderati e mossi da spirito religioso, è alle spalle di queste considerazioni; la modernità embrionalmente capitalistica ha già cambiato le menti più illumi-nate: la storia la fanno anche gli esseri umani, basandosi su di un buon senso razionalistico capace di conoscere il mondo; le pandemie sono quindi naturali, ma la natura può essere conosciuta e, adesso, oggetto di una interazione ragio-nevole, controllata. È un’idea nuova, frutto di tempi nuovi e di nuovi contesti storico-sociali. Spiegare questi processi di conoscenza, di mutamento, di tra-sformazione del rapporto essere umano/natura – che, a questo punto sarà chiaro, include l’insorgere e la gestione di pandemie – è il tema latente dietro a queste considerazioni ed è arrivato il momento di affrontarlo più diretta-mente.

2. Che cosa dà ragione del cambiamento di prospettiva, delle nuove “pos-sibilità” che Manzoni vede per quanto concerne un’azione concreta rispetto alla dolorosa e rassegnata passività del passato? L’insorgere di un nuovo mondo, della “modernità”. Questa modernità però rischia di diventare un vuoto ideologema, seguito dall’altro vuoto e pericoloso della post-modernità, se non si riesce a collocare queste categorie in un sistema filosofico di riferi-mento (non farlo non significa essere liberi dalla metafisica, ma solo accettarne una implicita e non riconosciuta). Nel contesto della teoria marxiana delle for-mazioni economico-sociali – il materialismo storico per parlare genericamente – questa novità è l’affermarsi progressivo del modo di produzione capitalistico come nuova forma di esistenza del rapporto organico essere umano-natura. Esso, producendo il suo mondo tanto materiale che ideologico in un modo storicamente determinato, instaura una nuova definizione di essere umano, natura, società e, quindi, una nuova gamma di possibilità che prima non esi-stevano e che divengono adesso reali solo grazie al suo sviluppo: le nuove condizioni materiali, lo sviluppo culturale e scientifico, la presa di coscienza di queste possibilità sono qui realtà in atto; senza tutto ciò, Manzoni non po-trebbe pensare quello che scrive e si limiterebbe a fare, di nuovo, la lista dei morti e una descrizione dei disperati e dei loro tormenti.

È l’idea, volenti o nolenti, di “progresso”, inteso come crescente capacità da parte degli esseri umani in qualche forma associati di gestire il processo storico-naturale. Qui progresso si intende appunto come estensione della gamma delle possibilità nella gestione del ricambio organico con la natura;

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possibile non significa in atto, ma la stessa possibilità è una realtà. La crisi dell’idea di progresso, commenta Gramsci, è più la crisi di coloro che questo progresso avevano promosso. Infatti, i modi di produzione pongono dei vin-coli che in certi casi rendono di nuovo impraticabile ciò che è diventato pos-sibile16. La dialettica di possibilità reale, posta dal sistema, e i vincoli posti dallo stesso sistema alla sua attuazione è uno dei nodi, non solo sanitari, ma storico-politici, da sciogliere. Afferma Gramsci:

«La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Pos-sibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare»17.

Su questo nodo si tornerà tra breve.

3. Si diceva all’inizio che le crisi pandemiche sono un fenomeno tipico delle società umane e del loro modo di organizzarsi. Questo è un primo punto da acquisire: non sono solo capitalistiche. Si tratta allora di comprendere che la “organizzazione” umana non è sempre la stessa, che si articola in epoche e che queste epoche comportano cambiamenti sostanziali che implicano anche una nuova e costante ridefinizione di umano. Sono premesse molto diverse da quelle implicite in parte del dibattito cui si è assistito sul covid: pur non ne-gando i cambiamenti storici, l’ideologia borghese si basa sul principio che l’es-sere umano sarebbe sempre lo stesso, un individuo sostanziale i cui tratti an-tropologici ed identitari sono dati ab origine e che solo diversamente si “vesti-rebbero” nella sua interazione sociale nel corso della storia. Questo Umano si trova quindi ad essere “alienato” se la situazione storica data non coincide con la sua essenza; la storia e la società non sono quindi un processo di cui esso stesso è momento che si co-definisce sistemicamente. Questa idea dell’umano in generale è, per Marx, il prodotto ideologico più sofisticato dell’ideologia borghese, la controfaccia del feticismo della merce e suo necessario riverbero nel soggetto latore della circolazione di merci, che si presenta come Persona

16 Cfr. GRAMSCI 1975, pp. 1335 s.

17 Ivi, pp. 1337 s.

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(alcuni dicono addirittura “persona umana”). Se si accetta questa prospettiva, le risoluzioni dello Stato, del “potere”, del capitalismo, della tecnica, ecc., – in quanto sono tutti processi obiettivi rispetto ai quali il singolo preso di per sé ha inevitabilmente poteri decisionali limitati e ai quali finisce per essere in qual-che modo subordinato – non possono non essere alienanti, sono sempre altro; e sempre lo saranno, perché i processi obiettivi trascendono l’individuo per definizione e quindi questo individuo oscillerà tra individualismo, anarchismo, esistenzialismo, diritto-umanismo e via dicendo; tutte posizioni per cui si passa da una prospettiva individualistica all’altra, ma senza abbandonare l’idea di fondo che l’individuo è la data sostanza del processo, autosufficiente nella de-finizione della propria essenza. Non si riesce dunque a pensare l’autodetermi-nazione e la libertà che per via negativa: spezzare le catene; ma è una cattiva infinità che sempre ha bisogno di un altro da superare e mai riposa. Per fare banali esempi più concreti, qui sta il rifiuto delle mascherine, la teledidattica come costrizione e via dicendo. L’egemonia di queste posizioni ideologiche ha larga presa a sinistra, perché la rivolta contro lo Stato, il capitale, la società nella misura in cui essa è espressione del modo di produzione capitalistico sembra fornire una prospettiva rivoluzionaria. In realtà è un atteggiamento generica-mente anti-sistema basato su fondamenti filosofici prodotti dal capitalismo stesso ed è difficile dire che prospettive trasformative possa fornire. Soprat-tutto si pone in una posizione in cui qualunque dinamica sociale è di fatto potenzialmente alienante.18

4. La crisi pandemica da coronavirus, la relativa necessità di arrestare in parte o addirittura del tutto le attività produttive ha reso nuovamente evidente che non si può smettere di produrre, come diversi fanno notare addirittura menzionando Marx. Le forme in cui gli esseri umani creano i propri mezzi di sostentamento e di produzione sono storicamente determinate, ma il fatto che essi sempre dovranno produrre è la base su cui è costituita la loro esistenza, sia praticamente che teoreticamente.19 Nel modo di produzione capitalistico c’è un vincolo sociale speciale a questa condizione materiale, vale a dire che si produce solo ciò che valorizza il capitale. Quindi non basta dire che si deve

18 Su questo tema sempre fondamentale MAZZONE 1980.

19 Su questo rimando a FINESCHI 2018.

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produrre, bisogna aggiungere che si deve valorizzare il capitale investito. Que-sto è il nodo storicamente determinato al quale si rischia di restare impiccati in tempi di crisi; in tempi di pandemia ancor di più. Marx teorizza dei processi complessi, la cui base è il processo lavorativo che è, di per sé, già un combinato di essere umano (a sua volta natura) e natura, nella natura; l’identità umana non esiste fuori da questo rapporto. Sarebbe a questo punto facile, ma errato, affermare che l’essere umano, con il suo lavoro, è l’essenza. Infatti, quello la-vorativo è un processo di cui l’attività finalizzata a scopo è solo un elemento; questa astratta umanità ed attività non esiste, se non come astrazione da pro-cessi reali. Per pensare individui che lavorano, è necessario aggiungere i mezzi di produzione ed articolare ulteriormente forme sociali determinate nelle quali questi elementi si combinano, esistono e si esplicano. Si tratta quindi di com-prendere e gestire dei processi in cui i singoli individui si definiscono funzional-mente. La loro definizione funzionale li connota come membri di classe, vale a dire come operatori di una certa funzione nella dinamica della riproduzione sociale complessiva. La crisi pandemica da covid è, dunque, una questione di classe in una fase di sviluppo determinata del modo di produzione capitali-stico.

Il capitalismo non è una cosa bella; ciò ricordato, bisogna tuttavia com-prendere che è normale, nel senso che non può essere altrimenti, che le dina-miche specifiche di riproduzione del modo di produzione capitalistico inne-schino determinati rapporti con la natura per i quali sia più o meno probabile l’insorgere di malattie, virus, ecc. Solo a titolo di esempio, si è già detto che concentrazioni massicce di animali, sfruttamento sfrenato del suolo, modalità di produzione di medicinali concepite nella prospettiva della massimizzazione del profitto non possono che produrre effetti collaterali di rilievo. Come la stessa concentrazione nello stesso luogo di milioni di esseri umani e la capacità che molti di essi hanno di spostarsi in ogni parte del mondo favoriscono la diffusione. Questo è però il modo di produzione capitalistico; esso non pone meramente dei vincoli, ma sviluppa delle specifiche modalità operative della produzione e della vita in genere. La riproduzione capitalistica, dunque, non stravolge la natura e/o la storia, semplicemente le crea co-determinandole, non essendo altro che una forma storica specifica del processo storico-naturale. Ciò include anche la mera sopravvivenza fisica e sanitaria della specie stessa. Che questa gestione possa avere tendenze autodistruttive e portare, nelle ipo-tesi più catastrofistiche, alla fine della vita sulla terra non significa che esistesse

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prima un ordo naturae a prescindere dall’azione umana e che si tratterebbe di ristabilirlo per ritrovare l’armonia cosmica. L’uscita non è nel ritorno a qual-cosa che non è mai esistito, ma la gestione razionale dei processi, vale a dire il passaggio da una forma sociale contraddittoria a un’altra in cui produzione e riproduzione non siano vincolate alla valorizzazione del capitale, ma poste in base ai bisogni sociali20.

Non c’è quindi un rapporto dell’essere umano – già fatto e costituito – con la natura – anch’essa fatta e costituita. Si dà piuttosto un processo di produ-zione e trasformazione storico-naturale in cui gli esseri umani in forme asso-ciate via via diverse – storicamente determinate – trasformano il mondo, se stessi ed i propri rapporti reciproci definendo via via che cosa significa “essere umano”, “natura”, “società” e qual è la sfera della “azione possibile”. Si è visto come la gestione di pandemie non rientrasse nella sfera del possibile prima dei tempi moderni, o meglio prima delle trasformazioni epocali instauratesi grazie all’avvento e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Adesso invece vi rientra.

5. Che cosa è entrato nella dimensione del possibile grazie al modo di pro-duzione capitalistico? Non solo cose disastrose. Per esempio, ospedali diffusi, ricchezza sociale sufficiente a pagare medici ed infermieri, a produrre medi-cine, mascherine, ventilatori, a finanziare università e centri di ricerca che per-mettano di conoscere scientificamente le leggi della natura sulla cui base, fra le altre cose, curarci, ecc. Questo prima non esisteva. Certo, adesso molti di-cono che anche questo è male – crisi del concetto di progresso, si diceva – ma le statistiche ed il dato di fatto che la popolazione mondiale adesso si conta in miliardi di individui sono l’evidenza che, grazie a queste modalità, l’adatta-mento della specie all’ambiente sta funzionando meglio. Le epidemie, le care-stie, la morte infantile, la durata della vita e via dicendo avevano statistiche molto, molto peggiori prima. Ignorare questo significa solo negare l’evidenza. Tutto questo è possibile grazie al modo di produzione capitalistico. Ma c’è di più: la generalizzazione della capacità di controllo, la conoscenza analitica dei processi, le scienze sociali e via dicendo hanno reso reale la possibilità astratta di gestire processi, in una scala impensabile in passato. Anche le vecchie isti-tuzioni sono cambiate, lo Stato da opprimente tassatore e organizzatore di

20 Cfr. MAZZONE 2012.

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guerre è diventato anche, contraddittoriamente, gestore del benessere sociale, provvedendo a salute, istruzione, pensione, lavoro, redistribuzione del reddito ecc.; coordinatore o addirittura attore della vita economica. La possibilità della gestione dei processi è reale, esiste. L’autogoverno dell’umanità integrata è uno dei temi sul tavolo, prodotto storico del modo di produzione capitalistico e la gestione di pandemie fa parte di questa sfera del possibile; la cronaca lo dimo-stra: quei paesi che, grazie a un’organizzazione centralizzata e pubblica, sono stati in grado di affrontare l’emergenza hanno avuto una risposta assai migliore di altri che non avevano la possibilità di fare altrettanto. Si veda il caso dispe-rato degli Stati Uniti o del Brasile, dove il fenomeno è andato assolutamente fuori controllo; ma anche in Italia si vedano le regioni che più si sono unifor-mate al modello di promozione del privato, tragicamente le più colpite.

Non si sta ovviamente sostenendo che il capitalismo sia il paradiso terre-stre, infatti la possibilità dell’autogoverno e gli altri progressi indicati sono, contraddittoriamente, solo una parte della storia. Queste possibilità reali, esi-stenti e già progressive rispetto alla disperata situazione premoderna esistono all’interno del modo di produzione capitalistico con tutte le sue contraddizioni. Si pensi al caso del confinamento (o lockdown per far finta di parlare inglese): data la forma storicamente determinata della valorizzazione, esso è stato ne-cessario per motivi sanitari, ma un suicidio da un punto di vista economico. Interrompere la produzione per far stare giustamente a casa i lavoratori pro-voca automaticamente una perdita di competitività delle aziende in cui lavo-rano che, a fronte di decisioni diverse prese in altri paesi, ne determinano grandi difficoltà se non addirittura il fallimento. Significativa è stata la scelta iniziale del governo britannico che ha chiaramente spiegato ai proprio cittadini che sarebbero dovuti morire, affinché non morisse il sistema. Questo è un esempio lampante delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico: da una parte è possibile cercare di curare, dall’altra ciò entra in conflitto con le dinamiche di valorizzazione. La lotta intercapitalistica internazionale vede l’Italia in una morsa fra Unione Europea e concorrenza capitalistica mondiale che, per come è strutturata, di fatto limita fortemente le capacità di gestione. Se dunque le misure sanitarie “imposte” sono solo di buon senso, la questione politica è se esistano le strutture di gestione e le capacità di manovra una volta che si prenda una siffatta decisione che blocca la già difficile valorizzazione del capitale. Si capisce qui quanto si diceva in precedenza affermando che la questione sanitaria è una questione di classe: le esigenze di valorizzazione

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stanno in conflitto con le esigenze sanitarie; lavoratori contro capitale su scala mondiale. Ciò detto, si ha un quadro, ma non si hanno né soggetti concreti – si hanno le forme, non le figure – né un’analisi più dettagliata del contesto in cui tali figure si possano muovere e progettare plausibili strategie di lungo e medio termine21.

6. Se il modo di produzione capitalistico non è cosa altra rispetto alla vita umana ma una sua modalità storicamente determinata di realizzazione, le forme di moto, di esistenza, sempre si presentano in contenuti determinati le cui possibilità si danno in forma capitalistica. Lo sviluppo dei contenuti è quindi, in certi casi, sia positivo che negativo, nel senso che le istituzioni che prendono determinate decisioni sono le stesse che in certi casi lo fanno in favore di una classe o di altre: le stesse istituzioni, formalisticamente gli stessi processi decisionali, ma diversi i contenuti. Perciò la stessa polizia che reprime le manifestazioni per i diritti dei lavoratori è la stessa istituzione che controlla che sia rispettato il confinamento. L’orizzonte di senso di queste risoluzioni è gestito da apparati ideologici che prendono decisioni in base al livello di ege-monia predominante in un momento dato del conflitto di classe. Questo non fa solo riferimento a malvagie decisioni prese coscientemente da alcuni, che pure ci sono, ma al livello di “normalità”, di senso comune che fa sì che certe cose siano accettabili ed altre no. Il livello di normalità consente che sia per-cepita come prioritaria la salvaguardia della vite umane o delle esigenze im-prenditoriali. Certe scelte si possono ovviamente anche imporre, ma il con-senso non può mai essere cancellato oltre certi limiti, almeno non per periodi prolungati. Un senso comune che includeva la cittadinanza universale, princi-pio fondamentale della borghesia progressista, è stato il massimo livello di avanzamento ideologico da essa raggiunto, ma adesso, contraddittoriamente, è entrato in conflitto con le nuove esigenze strutturali del capitalismo crepu-scolare; la crisi della sua vigenza va insieme a quella del diritto universale alla salute22.

Se il problema storico e politico delle pandemie è dunque adesso affronta-bile, esso rientra nel novero del possibile della gestione collettiva. Essa si attua in un sistema che si chiama modo di produzione capitalistico che, da una parte,

21 Cfr. FINESCHI 2008b.

22 Cfr. FINESCHI 2020.

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ha prodotto le capacità materiali ed intellettuali per il governo del processo, dall’altra lo attanaglia in vincoli socio-naturali che rendono quel governo pos-sibile solo entro certi limiti, se non impossibile. Mazzone parlava di questo stato di cose ponendo l’alternativa tra autogoverno e tirannide. Questo l’oggetto del contendere della lotta di classe nella fase avanzata del capitalismo crepu-scolare. Secondo Mazzone le forme della tirannide si caratterizzano nel modo seguente:

«Primo. Il bisogno è tendenzialmente superato su scala mondiale, la produzione è sovrabbondante (non, naturalmente, la domanda solvente di merci!). Secondo. La at-tuale “borghesia transnazionale” non può sensatamente esser anche solo paragonata alle borghesie storiche come enti sociali corposi, forme di vita, espansività sociale, universalizzazione relativa. Essa è dominante, ma non può chiamarsi “dirigente”, se-condo questi criteri, che (come Gramsci mostrò) sono appunto criteri storici, non meramente sociologico-politici, cioè criteri di egemonia. Terzo. Il superamento relativo degli Stati nazionali si accompagna a uno smantellamento della citoyenneté, cioè dell’universalità politica in senso proprio (con e senza limiti formali!). Ciò tanto per il lato istituzionale, quanto per quello della coscienza (manipolazione). Quarto. La pro-duzione immediata di uomini (allevamento; acculturamento sia familiare che scolastico diventa (soprattutto nelle metropoli) elemento della valorizzazione del capitale (merci di massa, ma anche “produzione immateriale”). Ma contemporaneamente tendono a diventare “superflue” intere masse di potenze sociali (cultura; lingua nazionale; co-scienza civica nelle sue forme storicamente progressive). La valorizzazione richiede “teste d’opera”, non “cittadini medi”. Oltre alla cittadinanza politica, si smantella così quella socioculturale. La “plebe” hegeliana viene riprodotta in massa e secondo finalità precise, in tutto o in parte obiettivamente inerenti a questa figura di riproduzione so-ciale complessiva. Quinto. La segmentazione della classe operaia non ha luogo soltanto nella dimensione geografica e territoriale, ma anche nelle forme del localismo neocor-porativo, con corrispondenti forme di regressione della coscienza (etnicismo, etc.). Sesto. Lo squilibrio tra cittadinanza politica “svuotata” (manipolazione, “dialettica della notizia”; abolizione de facto della trasparenza dei processi, quindi della citoyenneté repubblicana; ossia, “abolizione del popolo”, e invece “gente”, cioè in realtà “neo-plebe”) da una parte, e percezione possibile dei fenomeni translocali (e comunque di fenomeni del processo complessivo, e non di frammenti sconnessi ossia parvenza “scandalosa”, “sensazionale”, “emozionante” etc.) – questo squilibrio è sistematica-mente promosso e imposto, non solo nella mediatica di servizio, ma nelle istituzioni

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della società (sindacati, partiti, associazioni), nella cultura (cinema, etc.), nell’insegna-mento (riforme funzionali alla “religione del mercato” nella scuola e Università, etc.)»23.

In quanto si è ormai esaurito qualsiasi slancio sociale propulsivo, le figure di potere, che vanno riscostruite a un livello di complessità maggiore rispetto alla contrapposizione base capitalista-lavoratore salariato24, volgono sempre più alla violenza rispetto al consenso (dominio senza direzione) e, vincolate alla valorizzazione, tendono a distruggere le acquisizioni della stessa fase pro-gressiva25. Se la pandemia dovesse devastare il mondo non sarebbe più lecito appellarsi alle inesorabili leggi di natura, immodificabili e trascendenti la ge-stione, perché un’alternativa è possibile26. Le forme di promozione del cam-biamento non sono tuttavia né scontate né automatiche. Come già commen-tava Gramsci:

«[...] l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora suf-ficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo, in que-sto senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o im-pulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano»27.

23 MAZZONE 1999, pp. 79-80.

24 La distunzione tra “forme” strutturali del produrre che si instaurano grazie al modo di produzione capitalistco (carattere cooperativo, parziale ed appendicizzato del la-voro), e le “figure” che storicamente le incarnano (artigiano, operaio, ecc.), permette di configurare soggetti storici che da una parte rispettano la categorizzazione marxiana e dall’altra sono più duttili ed adattabili a contesti non necessariamente riducibili alla grande fabbrica (cfr. FINESCHI 2008b).

25 Le dinamiche di lungo periodo e la fase che definisco “crepuscolare” del capitalismo mettono l’accento sulla crisi delle stesse categorie ideologiche fondamentali della so-cietà borghese, in particolare quella di “persona”. Questa crisi, determinata dagli svi-luppi intrinseci del modo di produzione capitalistico, crea le basi materiali del fascismo come pratica economica ed ideologia (cfr. FINESCHI 2020).

26 Uno scenario paragonabile a quello antico è prospettato da José Saramago nel suo Cecità. Un possibile regresso della società che sia non solo di tipo reazionario, ma ad-dirittura di carattere distruttivo del connettivo sociale in quanto tale non può essere escluso dal novero del possibile ed il testo di Saramago, in questo senso, è un serio ammonimento. Ciò, tuttavia, non cancella il dato di fatto che un’alternativa è possibile. Non era questo il caso delle epidemie pre-moderne.

27 GRAMSCI 1975, p. 1338.

Materialismo Storico, n° 2/2020 (vol. IX)

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La crisi pandemica, fosse essa paragonabile a quelle devastanti menzionate in apertura, non sarebbe la causa naturale della fine di un’epoca. Per noi, che siamo a questo bivio e che pensiamo nella prospettiva del superamento del modo di produzione capitalistico, sembra un compito impellente la necessità di comprendere le tendenze di fondo più articolate del capitalismo/capitali-smi28 rispetto al modello ad alto livello di astrazione di Marx, per porre, al di là del necessario ma astratto obiettivo della rivoluzione, forme possibili, prati-cabili di azione politica.

28 Ci si riferisce qui alla dialettica tra teoria generale del modo di produzione capitali-stico, che come tale non corrisponde a nessun capitalismo determinato, e le dinamiche effettive dei capitalismi geograficamene e storicamente specifici, la cui analisi, com-prensione e trasformazione richiede una integrazione di teoria, una discesa a livelli di astrazione più concreti. Confondere i piani porta a errori teorici e politici di rilievo (cfr. FINESCHI 2018).


Riferimenti bibliografici

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TUCIDIDE, 1997

La guerra del Peloponneso, Newton Compton, Roma.

A importância da teoria social crítica para as ciências na atualidade

Ontem participei num debate muito interesante organizado pelo grupo de pesquisa GEMPP sobre a função da teoria social crítica na ciências sociais. Muito agradecido pela invitação. Foi um verdadeiro prazer. 

A importância da teoria social crítica para as ciências na atualidade (Filosofia, Educação Física, serviço social, educação)

Convidados: Roberto Fineschi (Profº Dr. Siena School for Liberal Arts – Itália/GEMPP), Marcelo Húngaro (Profº Dr. FEF/UnB/GEMPP) Prof. Dr. Erlando Reses (Profº FE/UnB/GEMPP) e Sandra Teixeira (ProfªDra. PPGPS/SER/UnB/ GEMPP).
Dois anos de GEMPP: a teoria social crítica E as ciências.



Monday, 5 April 2021

Introduzione di R. Fineschi a Karl Marx 2013. A cura di Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgro’


Karl Marx 2013





Numero 5-6 maggio-giugno 2013


A cura di Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgro’

https://www.ilponterivista.com/shop/prodotto/karl-marx-2013/




Marx oggi. Una rinascita?


Roberto Fineschi



1. Da più parti, non solo nel nostro paese, si parla apertamente di una Marx-Renaissance. In realtà l'interesse per il nostro autore non è mai venuto meno completamente; anche nei momenti più difficili degli ultimi decenni sono apparsi libri e saggi, alcuni dei quali di notevole valore. Ciò che però probabilmente si intende non è tanto stabilire se, da un punto di vista teorico, Marx sia stato oggetto di studio, quanto se egli sia ancor oggi un autore “efficace”, ovvero utilizzabile per comprendere la realtà e, soprattutto, trasformarla. Alla dimensione teorica se ne affianca quindi una più genericamente culturale (Marx fra i padri spirituali del pensiero progressista) e, infine, una più strettamente politica (Marx strumento pratico di lotta). Di questi tre livelli, l'unico ad aver sostanzialmente retto al colpo mortale inflitto dalla fine del cosiddetto “socialismo reale” mi pare sia il primo. Renaissance è allora forse da intendersi come auspicio che, da questo livello base, si torni a dare un contenuto più sostanzioso anche agli altri due; in questa prospettiva pare effettivamente essere rinato un interesse più diffuso, né strettamente teoretico né immediatamente politico, nei confronti della sua opera; dal primo livello, Marx sta riguadagnano terreno nel secondo. Il terzo pare al momento decisamente fuori portata, almeno in numerose realtà occidentali.

Non c'è bisogno di spendere molte parole per ricordare il peso della svolta – proprio “die Wende” la chiamano convenzionalmente in Germania – rappresentata dalla caduta del muro di Berlino, e non solo dal punto di vista degli equilibri geopolitici mondiali dei quali non si intende ovviamente parlare in questa sede. La “svolta” si è verificata anche nella popolarità dei padri fondatori del movimento operaio, caduti in disgrazia insieme a coloro i quali vi si richiamavano. Ciò si è legato in parte a quello che il mio compianto maestro Alessandro Mazzone chiamava marxismo “fideistico”: costruire una religione del comunismo, un nuovo senso comune (“visione del mondo”) di classe, era stato un progetto perseguito scientemente e con successo, almeno fino ad un certo punto, dal Partito Comunista Italiano. Pur non ignorando gli aspetti positivi di un siffatto programma, bisogna riconoscere che esso non viveva tanto della forza teorica, quanto della efficacia nell'azione del partito. Per questo tipo di marxismo non c'era bisogno di leggere i classici; era più importante l'interpretazione illuminata che il testo.

Questo fuoco, che una volta divampava, si era dunque affievolito fino, apparentemente, a spegnersi. Eppure, sotto la cenere, ha continuato a covare ed oggi pare timidamente riprendere un qualche vigore, proprio perché Marx sembra, nonostante tutto, uno dei pochi ad avere delle risposte, o quanto meno delle spiegazioni plausibili, per fenomeni che le dottrine imperanti neppure contemplano. Quanto meno nel senso comune progressista, infatti, una parte della strumentazione marxiana non è mai completamente venuta meno: concetti come “lotta di classe”, “sfruttamento”, “sovrapproduzione”, “crisi”, “mercato mondiale” sono ben radicati nella testa di molte persone. Smaltita l'ubriacatura neoliberista e preso atto delle mai avviate magnifiche sorti e progressive si è dovuto riconoscere che, nella difficoltà, la maggior parte delle teorie ortodosse non aveva che frecce spuntate; bisognava quindi ricorrere all'eretico. Proprio per queste ragioni divenute senso comune di molti, si registra forse un rinnovato interesse verso il suo nome.

Tanto la ripresa dell'interesse per Marx nel senso comune progressista, quanto un uso più esplicitamente politico del suo pensiero vivono, tuttavia, della sua solidità teorica. Il mestiere degli studiosi più o meno professionisti è cercare di verificarla, ricostruirla, migliorarla se possibile. C'è una Marx-Renaissance in questo ambito? Partiamo dalle fondamenta.


2. Paradossalmente, proprio nel periodo più buio per l'efficacia politica di Marx è in corso di realizzazione un progetto il cui impatto sulla qualità della ricerca scientifica si prospetta decisivo: la pubblicazione della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe.

Essa fu iniziata ai tempi del “socialismo reale”, nel 1975, nell’ambito di una collaborazione internazionale con enti occidentali. Attualmente la base operativa è l’Accademia delle scienze di Berlino e del Brandeburgo, ma il progetto ha largo respiro con gruppi di lavoro che vanno dal Giappone alla Russia. È imponente: dopo il ridimensionamento sono previsti complessivamente 114 volumi (alcuni in più tomi), ciascuno con un volume di apparato. Vorrei fare un paio di esempi per rendere più tangibile come le cose stiano cambiando. Alcune opere fondamentali su cui si è basata l’interpretazione tradizionale semplicemente non esistono affatto, o esistono in una forma radicalmente diversa rispetto a quella in cui le si è lette storicamente. I cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ’44 per esempio, apparsi dopo la morte dell’autore negli anni ’20 del secolo scorso nella prima Marx-Engels-Gesamtausgabe, sembrano essere in realtà una serie di appunti il cui ordinamento, da sempre discusso e discutibile, pare, comunque lo si concepisca, insufficiente. La stessa Ideologia tedesca, la cui edizione critica è in corso d'opera, si è dimostrata non essere altro che una serie di articoli raccolti per un progetto di rivista poi mai realizzato e rimasti insieme, non una “opera”. Il Capitale costituisce poi un fertile terreno. Come è noto, Engels ha curato l’edizione del II e del III libro dopo la morte di Marx; considerando lo stato di elaborazione dei manoscritti era inevitabile un suo radicale intervento redazionale per dare ad essi versione “compiuta”. Ora sono finalmente stati pubblicati tutti i manoscritti originali, l'ultimo uscito appena alcuni mesi fa, su cui valutare effettivamente l’intervento del “secondo violino” e l’effettiva consistenza dell’opera marxiana. Sono apparsi anche tutti i materiali preparatori a partire dal 1857 in parte già editi ma in parte no (Marx ha riscritto per ben tre volte quasi tutto in tre ampi manoscritti negli anni 1857/58, 1861/63, 1863/65). Sempre a titolo di esempio, la IV sezione dell’opera conterrà tutti i quaderni di appunti per lavori realizzati e non, una vera miniera per i ricercatori.

Gli effetti di questa pubblicazione sul dibattito recente sono differenziati. Si tratta tuttavia di una grande occasione per ripensare le fondamenta del pensiero di Marx e valutare se e come sia possibile ricostruire su di essa un senso comune e, eventualmente, una politica. Ad essere cambiate non sono infatti tanto le interpretazioni, quanto lo stesso oggetto di ricerca.


3. Prendere atto di questa grande novità è necessario, ma di per sé non è sufficiente; una Renaissance della lettura critica di Marx si è sviluppata infatti parallelamente all'edizione ed in certi casi indipendentemente da essa; ampi dibattiti si sono sviluppati in vari paesi, in gran parte in maniera automa. Venendo tutti noi curatori da studi marxiani ed in particolare dalla MEGA, ci siamo resi conto, ad un certo punto, del carattere per diversi aspetti provinciale di gran parte delle ricerche svolte; difetto che ovviamente riguardava noi in prima persona: per quanto ci fossimo sforzati di essere almeno informati sugli studi in vari paesi occidentali, alla fine abbiamo dovuto riconoscere di sapere ben poco, per esempio, del dibattito cinese o giapponese, o di quello latino-americano, senza escludere diversi paesi europei. A giudicare dalle varie bibliografie in calce a numerosi studi in circolazione, questa attitudine casalinga è risultata ahimè tutt'altro che isolata; ciò vale in modo particolare per il dibattito in lingua anglosassone, l'idioma universale il quale, forse proprio per questa sua caratteristica, è paradossalmente il più limitato, in quanto ignora, ovviamente con le dovute eccezioni, tutto ciò che non venga tradotto in inglese (ad onor del vero a partire dalla stesse opere di Marx ed Engels).

Alla luce di tutto ciò, ci è parsa utile l'idea di un resoconto delle maggiori discussioni internazionali. A questo scopo, si è cominciato a riflettere su possibili autori e a delimitare il tema; infatti, una trattazione “complessiva” sarebbe risultata purtroppo impossibile, perché, nonostante tutto, il materiale era ingente e sicuramente avrebbe travalicato lo spazio a nostra disposizione. Ci si era quindi risolti ad escludere la dimensione più ampiamente politico-culturale e a restringere il campo al dibattito teorico su Marx nel “nuovo millennio”. Delimitata questa area, tuttavia, ampio spazio è stato lasciato ai singoli autori, che hanno evidentemente fornito un resoconto dal loro autorevole punto di vista. Ciò ha determinato qualche difformità di approccio, ma, più che un difetto, a noi questa è sembrata una ricchezza, garantendo al lettore una visuale multi-prospettica sulle questioni legate a Marx oggi in varie parti del globo.

Di limitazione in limitazione, era ovviamente impossibile includere il mondo intero. È stato quindi inevitabile ridurre ulteriormente il raggio d'azione, selezionando alcuni paesi in cui, a nostro modo di vedere, più vivace era la discussione. Con ciò non si intende ovviamente sottovalutare il contributo dei paesi non considerati; purtroppo è stato necessario operare delle scelte. Altrettanto impossibile era che i singoli autori riuscissero a tener conto di tutti i lavori apparsi nel proprio paese. Per farla breve, non si hanno pretese di completezza; si tratta piuttosto di una panoramica limitata tanto nello spazio (per le nostre scelte “geografiche”), quanto nell'approccio (per i limiti al tema da noi imposti e per lo sviluppo personale dell'argomentazione proposto dai vari autori). Pur con tutte queste restrizioni, a nostro avviso il risultato è un apprezzabile quadro del dibattito teorico internazionale su Marx negli ultimi quindici anni, molto utile per chi voglia quanto meno iniziare ad orientarsi in questo vasto ambito.

Risparmio al lettore una noiosa serie di riassunti dei vari contributi, lasciandogli il piacere di addentrarsi personalmente nel cospicuo corpus di saggi che seguono; neppure intendo esprimere giudizi di merito o tentare un improbabile bilancio. Quanto mi pare si possa pacatamente osservare è che ci troviamo in un momento ricco di potenzialità, da una parte grazie alla nuova edizione storico-critica, dall'altra alla vitalità e ricchezza di numerosi contributi che, seppur marginali rispetto al ruolo centrale giocato da Marx fino a pochi decenni fa, dimostrano una capacità interpretativa alla quale non avrebbe senso rinunciare. Forse il vecchio Moro era stato messo in soffitta troppo rapidamente; almeno per interpretare il mondo attuale pare necessario rimetterlo sugli scaffali della libreria buona. Certo, Marx ammoniva che limitarsi a interpretare il mondo non basta, perché “si tratta di cambiarlo”; che non basti non significa però che non sia necessario.

Roberto Fineschi, INTRODUZIONE a Alessando Mazzone, Questioni di teoria dell'ideologia I

Alessando Mazzone, Questioni di teoria dell'ideologia I https://amzn.eu/d/gzlDnG8 INTRODUZIONE di Roberto Fineschi A distanza di 23 a...