Saturday 23 October 2010

Roberto Finelli. La scienza del Capitale come “circolo del presupposto-posto”. Un confronto con il decostruzionismo.

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La scienza del Capitale come “circolo del presupposto-posto”. Un confronto con il decostruzionismo.

Di Roberto Finelli

Nell’ambito della filosofia continentale europea oggi svolge funzioni egemoniche il “decostruzionismo”, il quale, com’è noto, critica ogni narrazione che pretenda coerenza e sistematicità, decostruisce le proposizioni fondamentali di ogni metateoria, e ne svela presupposti tacitamente assunti che con il loro operare non dichiarato ne inficiano e volatilizzano ogni pretesa di scientificità e di obiettività.
Appare evidente che gli studi e la ricerca su Marx non possono non confrontarsi con questo vertice egemonico di riduzione della realtà a linguaggio, di dissoluzione di tutte le narrazioni, di decostruzione di tutte le presupposizioni indebite che agiscono sotto le definizioni tradizionali e più diffuse delle scienze umane. E appunto alla luce della decostruzione di ogni presupposizione e semplificazione tacitamente ammessa mi propongo di svolgere le riflessioni che seguono sull’opera della maturità di Marx.
La mia esposizione è articolata in quattro tesi.
A) Prima tesi. Il percorso dell’idealismo tedesco, da Fichte ad Hegel, conduce, a mio avviso, sul piano della teoria della conoscenza alla identificazione di un nuovo criterio di verità, dalla portata rivoluzionaria nell’ambito della filosofia occidentale, e che, elaborando la terminologia propria di Fichte e di Hegel, io propongo, omai da vari anni, di definire come il “circolo del presupposto-posto” .
E’ Fichte com’è noto che, radicalizzando il concetto kantiano di libertà come autonomia, concepisce l’identità più propria dell’Io, del Soggetto, come l’attività di porre i propri presupposti. Ossia nel non accettare come valido nessun dato che gli venga proposto come tale dalla tradizione, dalla storia, dai costumi o da qualsiasi autorità esterna, sia politica che culturale, bensì di accettare solo ciò che è passato attraverso il proprio vaglio critico, solo ciò che è stato assimilato e appropriato dall’Io stesso e, come tale, prodotto e posto dallo stesso Sé. Per cui la libertà del soggetto moderno consiste nel non accogliere nulla come impostagli dall’esterno e nel riconoscere solo ciò che è posto dalla propria interiorità; nel togliere progressivamente i limiti e le catene di un mondo esterno che gli appare inizialmente come ”non-Io”, per tradurli in determinazioni e posizioni dello stesso Io.
Questo modello di Io viene trasferito e perfezionato nella concezione hegeliana dell’Assoluto, spirito, secondo la quale propriamente Assoluto, Spirito (Geist), ciò che, attraverso un processo di interiorizzazione, sottrae progressivamente a se stesso ogni forma di autorappresentazione e d’identificazione esteriore. Spirito in Hegel significa infatti un processo di costante ritorno dall’altro da sé, di costante decostruzione critica delle immagini più esteriori e stereotipe del Sé. E significa la produzione d’immagini e relazioni del Sé più vere ed adeguate che, inizialmente nascoste e profonde, o meglio anticipate e presupposte solo dalla mente individuale e lungimirante del filosofo, vengono messe in campo attraverso un processo oggettivo e necessario di scacchi e capovolgimenti dialettici: attraverso dunque l’impossibilità da parte di quell’Assoluto di coincidere e a soddisfarsi in qualsiasi forma primitiva, superficiale e inadeguata d’identità. Per cui è vero per Hegel ciò che inizialmente solo presupposto e ipotesi soggettiva, logico-mentale, si fa poi realtà oggettiva, verità universale e di tutti, attraverso lo scacco che la dialettica impone a tutte le false verità, quali forme d’identificazione parziali e fallaci. Ciò che è vero solo in sé, per presupposizione euristica e filosofica, si fa così produzione reale, attraverso un processo oggettivo, che è contemporaneamente decostruzione e risignificazione delle figure dell’autorappresentazione più immediate e diffusamente presupposte . E appunto nel circolo del presupposto-posto questa nuova e singolare concezione della realtà-verità trova il suo emblema più sintetico e concreto.
Ovviamente va detto che questa interpretazione dell’Assoluto, del Geist, in Hegel come funzione di una pratica d’interiorizzazione, di un processo che dall’esterno va all’interno, è polemica ovviamente della lettura di Hegel come pensatore teologico, teorico di uno spirito, di un’Idea creazionistica, vettore, invece, di esteriorizzazione, che uscendo e alienandosi da sé creerebbe la natura e la storia, per poi tornare a sé oltre la natura e oltre la storia. Questa lettura, a mio avviso errata, di uno Hegel pensatore teologico e astrattamente logicistico, è stata diffusa da Ludwig Feuerbach, sotto l’influenza di Schelling, è giunta fino a Popper e alla sua tragica incomprensione di Hegel ed ha avuto effetti perversi in Francia con l’antihegelismo di Althusser e in Italia con l’antihegelismo di Della Volpe e Lucio Colletti .
B) La mia seconda tesi sostiene che Das Kapital di K.Marx, (e con qualche piccola differenza, l’Urtext e i Grundrisse che lo precedono) realizza precisamente questo nuovo paradigma scientifico, del circolo del presupposto-posto. E lo realizza propriamente nel senso che la legge del valore-lavoro – ossia che le merci si scambino sul mercato in base a quantità di lavoro eguale astratto – che all’inizio dell’esposizione ha la forma solo di un presupposto mentale, di un’ipotesi generalizzante e astraente di Marx, si dimostra invece oggettivamente vera, solo quando l’intera storia del capitalismo, nei suoi vari passaggi tecnologici, giunge a mettere in campo nella produzione moderna il lavoro astratto, facendone l’esito della prassi lavorativa di milioni di persone. La mia tesi è cioè che il Capitale di Marx è costruito sul modello del passaggio hegeliano dell’in sé al per sé, del passaggio cioè di un’astrazione, come quella del lavoro astratto, dal piano di un’astrazione solo mentale, operata da una generalizzazione logica di Marx sui lavori concreti o dal calcolo di comparazione eseguito mentalmente tra i soggetti dello scambio nella sfera della circolazione, ad un’astrazione, come sostiene Marx nell’Introduzione del ’57, “praticamente vera”; ad un’astrazione cioè che non attiene più all’ambito della logica o delle ipotesi investigative della conoscenza ma a quello assai diverso della prassi, ossia della concreta attività posta in essere dal processo lavorativo di ogni individuo in quanto erogatore di forza lavoro sussunta, non in modo formale ma in modo reale, sotto il capitale.
Attraverso questo circolo del presupposto-posto Marx risponde anticipatamente a tutti i suoi critici che, come Böhm Bawerk, gli hanno poi obiettato che nel campo delle astrazioni logico-mentali il valor d’uso, ossia l’utilità, poteva essere un criterio di generalizzazione scientifica comune alle varie merci alla pari del lavoro astrattamente eguale, scelto e imposto dall’arbitrio della mente di Marx. La scienza non può che elaborare l’esperienza attraverso astrazioni logiche: attraverso ipotesi cioè che selezionino in un determinato campo d’indagine dei fattori euristici rispetto ad altri. Ma qui il principio astratto – astratto da tutti gli altri fattori esplicativi che lascia cadere – diventa vero, da astrazione mentale diventa cioè astrazione reale, solo quando da generalizzazione messa in atto dall’economia mentale del singolo ricercatore, diventa, prassi, forma di vita generalizzata dell’economia reale. E appunto questa singolare compenetrazione di teoria e di prassi ha lo scopo, – con la sua struttura di circolo in cui il punto conclusivo coincide e ritorna su quello iniziale – di presentare il processo di conoscenza e di costruzione del vero come un processo privo d’interventi e manipolazioni soggettive, o meglio che la visione individuale va compresa e spiegata all’interno di un sistema con caratteristiche di necessità e di oggettività. Per questo, per comprendere meglio che cosa faccia Marx con il Capitale, è bene ritornare un attimo al modo in cui Hegel ha trattato della sua logica dialettica.
Per Hegel l’inizio di un sistema di verità non può mai essere la pienezza dell’Assoluto, di un fondamento, di una verità certa e compiuta ma sempre viceversa una condizione di mancanza e d’insufficienza, definibile nel suo linguaggio come una condizione di scissione. O più propriamente l’inizio rimanda sempre a una condizione doppia e dualistica d’esistenza, per la quale il dato iniziale d’esperienza o di conoscenza, non potendo, per la sua pochezza di vita, soddisfarsi e coincidere con sé, è costretto, dialetticamente, a cedere alla potenza dell’opposto e dell’altro da sé. E dato che quest’ultimo patisce lo stesso destino, quanto ad impossibilità ad insistere e a coincidere con il proprio sé, si ha un progresso reale della dialettica solo nella misura in cui quella lacerazione iniziale tendenzialmente si ricompone verso una progressiva sutura e identificazione di quei due lati originariamente così contrapposti ed ostili. Fenomenologia dello spirito e Scienza della Logica sono costruite entrambe su questo modello, la prima a muovere dalla scissione tra contenuto particolare e contenuto universale dell’esperire verso la loro conciliazione nel sapere assoluto, la seconda dalla scissura di “Essere” e “Nulla” verso la loro integrazione nella vita del “concetto”. Entrambe costruite però a muovere da un’esperienza che sembra per tutti ovvia e comune, per tutti a portata di mano e pressocchè indiscutibile, salvo, come s’è detto, il suo immediato sconfessare tale iniziale certezza.
Ora a ben vedere questo è lo schema di costruzione anche del Capitale. Marx muove infatti, per non dar luogo a un inizio arbitrario e frutto di una scelta solo soggettiva, dal dato più diffuso, più a portata di mano, più universale del mondo moderno che è la “merce”. La quale però, proprio nella sua esperienza più immediata, si scinde di fronte agli occhi del venditore-compratore subito nei due lati opposti, e non riducibili l’uno all’altro, dell’utilizzabilità e della scambiabilità, del prender senso dal mondo del consumo e del prendere senso dal mondo del mercato. L’esperienza della merce si spacca disvelando di non essere una, ma bina, raccogliendo in sé sia l’individuale che l’universale: almeno per chi intenda che l’utilizzabilità di una merce, nella sua relazione di fruizione e di soddisfacimento rispetto all’intenzionalità soggettiva di un bisogno, sia dimensione altra e profondamente diversa dalla scambiabilità, quale relazione di sostituzione universale con la totalità infinita delle altre merci.
Questa distinzione tra utilizzabile e scambiabile, introduce, appunto con il valore di scambio, una dimensione sociale, un fattore di universalità, irriducibile alla scelta e alla decisione dei singoli attori del mercato, e tale da aprire, un orizzonte della realtà economica non messo a tema dall’economia né classica né postclassica. La scambiabilità, che non è baratto, mette in relazione ogni merce non con un’altra singola merce ma con la totalità delle merci e rimanda perciò a un vettore di universalizzazione, il quale, in quanto universale, non può rientrare in un quadro empirico di esperibilità sensibile e visibile, e che nella sua non riducibilità all’azione economica individuale o interindividuale apre una fondazione ontologica precontrattuale a ogni possibile contratto. Ed è appunto questo vettore “astratto”, condizione invisibile degli scambi visibili tra cose e individui, che, inattingibile nella sfera della circolazione, obbliga esso stesso, per ritrovarlo e identificarlo, a trascendere la sfera democratica del contratto di circolazione e a indagare quella asimmetrica e non democratica della produzione. Dove Marx ne trova la presenza esplicita e indiscutibilmente reale, attraverso tutta la storia dell’organizzazione capitalistica del processo lavorativo, nella sussunzione reale della forza-lavoro al capitale e nell’erogazione di lavoro astratto, la cui astrazione è indiscutibilmente reale, vale a dire praticamente vera, perché iscritta e testimoniata, non dall’opinione o dalla rivendicazione ideologica, ma nell’esistenza corporea ed emozionale, psichica e vitale dei portatori di forza-lavoro. Il capitale, in quanto accumulazione, non di cose, ma di denaro, di ricchezza astratta è fondato sul lavoro astratto, su lavoro deindividdualizzato e codificato secondo precise schede di funzioni e di mansioni prescritte dall’organizzazione capitalistica del lavoro: lavoro deindividualizzato e impersonale anche quando oggi, come si dice, s’è messa in produzione la mente e non più il corpo del lavoratore.
In questo percorso marxiano che va dalla circolazione democratica alla produzione asimmetrica e coatta l’analogia con il sistema hegeliano, in particolare la Scienza della logica, è evidente. La sfera della circolazione di Marx richiama, non passaggi specifici, ma la dimensione generale del primo libro della Wissenschaft del Logik di Hegel, il libro dell’Essere. Qui com’è noto la categoria dell’esperire che regna sovrana, per tutto il libro, è quella dell’immediatezza, della mancanza di mediazione (Unmittelbarkeit), e che è sinonimo, possiamo dire, della visione del positivismo e dell’empirismo, dove il mondo appare essere composto di individui e cose originariamente indipendenti, in cui la relazione si accende successivamente. E dove il susseguirsi delle categorie è un alternarsi una dopo l’altra, un saltare l’una nell’altra, nell’opposta: appunto perché dove c’è salto non c’è mediazione, non c’è la capacità dell’una di produrre, a partire da sé, l’altra, e perciò la totalità. Così nella sfera della circolazione di Marx valore d’uso e valore di scambio, merce e denaro, si alternano e si escludono vicendevolmente, quando c’è l’uno non c’è l’altro. Non si accumula denaro quando si consumano merci e viceversa si può accumulare denaro sotto forma di denaro solo astenendosi dal consumo. Solo con l’ambito della produzione di capitale tale dualismo viene meno e l’un opposto produce l’altro, perché, attraverso il processo della continua innovazione capitalistica e il passaggio dalla sussunzione “formale” a quella “reale” della forza-lavoro che ne consegue, si fa evidente che la sostanza del valore e della sua astratta universalità, che ha costituito l’enigma della sfera della circolazione, è il lavoro della forza-lavoro condotto ad astrazione attraverso l’organizzazione e il comando capitalistico del processo lavorativo, e che appunto è ora l’astrazione del lavoro, in un sistema produttivo capitalisticamente diretto e integrato, a produrre la concretezza del valore d’uso. Come nel terzo libro della Scienza della logica di Hegel, il libro del Concetto, dove ogni categoria produce a partire da sé anche l’opposta, da una si fa due, e appunto, per questa compresenza di opposti, produce l’intero. Ed è appunto questa capacità da parte del Capitale di produrre il concreto a partire dall’astratto, di produrre insieme il mondo del concreto e il mondo dell’astratto, il mondo visibile dei beni e delle merci e il mondo invisibile delle relazioni sociali, articolato sul plusvalore, a fare del Capitale il significante per eccellenza della modernità e l’universale capace di organizzare un’intera forma di vita e di civiltà.
C) La mia terza tesi sostiene che se l’analogia tra il sistema di Hegel è quello di Marx è profonda, altrettanto profonda è la loro differenza. Differenza che si esprime nel modo più radicale ed evidente nella diversità dei rispettivi fattori di universalizzazione all’opera nei due sistemi. Il fattore di universalizzazione nel sistema hegeliano è infatti la Verneigung, la “negazione”, attraverso la quale il finito si mostra incapace di coincidere e permanere con sé stesso e si apre al processo dialettico della propria infinitizzazione. La negazione in Hegel rimanda a molti significati e a molte figure , ma di cui la figura dominante è quella negazione autoriflessa o “negazione della negazione” nella quale a mio avviso Hegel continua, come tutta la tradizione metafisica che usa il concetto di Nulla, a ipostatizzare con valenza ontologica una funzione logico-predicativa del linguaggio. Mentre il fattore di universalizzazione e di socializzazione nel Marx dei Grundrisse e del Capitale è l’abstraktion, l’“astrazione”, considerata ripeto, non come funzione logica ma come sostanza reale nella produzione della quale il capitale realizza, attraverso il processo lavorativo, il proprio processo di valorizzazione. La ricchezza astratta, con le sue leggi di accumulazione e di distribuzione tra le classi, è il vero soggetto per Marx – soggetto non antropomorfo – della società moderna ed è dunque essa a dare significato, funzione e direzione, ai movimenti delle merci, alla loro produzione, alla loro compera-vendita e al loro consumo. E la totalizzazione del capitale, il suo farsi soggetto globale e totale della realtà moderna penetrando con la sua logica quantitativa in ogni sfera della vita, può aver luogo proprio perché la sua ricchezza è costituita da un astratto, la cui natura impalpabile e non immediatamente esperibile è in grado di attraversare e riempire di sé l’intero mondo del sensibile e dell’esperibile. Così di tanto si differenzia Marx da Hegel di quanto si differenziano, tra Marx ed Hegel, i rispettivi significati e statuti della categoria di “astrazione”. Giacché, mentre in Hegel l’astrazione è sinonimo di un sé che non entra in rapporto e in riferimento con l’altro, ed è dunque incapace di universalizzazione, con Marx l’astrazione diventa, nella società moderna, il massimo fattore di realtà e di universalizzazione, capace di compenetrare della sua logica l’intero mondo altro, del concreto naturale e delle esistenze umane. In Hegel l’astrazione rimane iscritta in una matrice fondamentalmente mentale, anche quando organizza realtà, com’è il caso della società civile moderna fondata per Hegel sull’istituzione astratta della separazione e della divisione dei lavori. Perché questo operare secondo il separare e il dividere è per Hegel la caratteristica essenziale della funzione mentale dell’intelletto. Secondo l’originaria definizione logico-scolastica per cui astrarre significa separare in un campo di dati dell’esperienza il comune, il generale, dalla molteplicità dei diversi, dei particolari. L’astrazione in Marx, in quanto erogazione di lavoro astratto comandato tecnologicamente dal capitale, è un insieme invece di pratiche caratterizzate dalla funzione e dall’effetto di svuotamento: dallo svolgere cioè attività e operazioni nel momento stesso in cui paradossalmente non se ne possiede né la destinazione di scopo né il controllo sulla velocità e ripetitivà di esecuzione. Questo anche in un lavoro fortemente informatizzato dove la presunta esaltazione della soggettività, nella sua capacità di calcolo e di elaborazione delle informazioni, è in effetti guidata e condizionata, se organizzata capitalisticamente, dalla pre-codificazione dei significati e delle istruzioni di lavoro depositata nelle macchine intelligenti.
L’astrazione intellettualistica di Hegel è dunque cosa assai diversa dall’astrazione pratico-lavorativa di Marx. E sulla frontiera della diversità di queste due astrazioni cessa ogni rapporto tra Hegel e Marx e ogni pretesa omologia forte tra la Wissenschaft der Logik e Das Kapital. Così mentre ad Hegel non riesce, io credo, il passaggio dall’astratto al concreto, o, se volete, il movimento delle categorie a partire dall’Essere e il Nulla, appunto perché come vettore del movimento egli pone l’assolutizzazione della negazione logico-linguistica, invece per Marx la connessione tra mondo dell’astratto e mondo del concreto si realizza, proprio perché il vettore di quel movimento è la caratteristica di un lavoro, generalizzato e di massa, che produce oggetti, merci e servizi concreti proprio attraverso la sua natura paradossale di lavoro astratto.
Al di là dell’analogia rispetto alla forma generale del processo di totalizzazione (a partire dall’opposizione di Essere e Nulla in Hegel, a partire dall’opposizione di valore d’uso e di valore di scambio in Marx), non si può dunque insistere sull’affinità teorica dei due autori. Anche perché in tal modo si perde di vista l’originalità con la quale Marx reimposta il circolo hegeliano del presupposto-posto, traducendolo nell’incrocio e nella connessione di due circoli: un circolo verticale che descrive e riassume la configurazione sincronica del capitale, e un circolo orizzontale che descrive e sintetizza la diacronia storica del capitale.
Il primo circolo – quello sincronico – è il circolo di cui abbiamo già parlato, che dalla superficie della circolazione semplice (M-D-M), e dalle sue apparenze di libero scambio tra uomini e merci attraverso denaro e prezzi, discende con il vettore dell’astrazione reale nell’ambito della produzione e dei suoi nessi strutturali di asimmetria e di diseguaglianza – dove cioè si produce realmente il capitale – per poi ritornare, attraverso la moltiplicazione del capitale nei molti capitali, la loro concorrenza e la distribuzione secondaria del plusvalore in altri classi di reddito, dal livello fondativo dei valori a quello fenomenico dei prezzi. In un discendere e in un risalire, cioè in un produrre il presupposto di partenza, in cui la trasformazione dei valori in prezzi – vale a dire il passaggio da un mondo strutturato in quantità di lavoro a un mondo espresso in quantità di denaro – costituisce il nucleo fondante dell’effetto di feticismo intrinseco alla produzione di capitale: effetto strutturale ed oggettivo, che, ho già detto, proietta le relazioni asimmetriche tra classi sullo schermo del mercato, deformandole nelle silhouttes individuali dei liberi soggetti della compera e della vendita. Effetto di feticismo, per comprendere il quale, anche qui dobbiamo riferirci alla Scienza della logica di Hegel – questa volta al secondo libro, al libro dell’Essenza, dove, com’è noto, si tratta dell’apparire delle forme di superficie di una realtà come parvenze, in forza di una “riflessione” (Reflexion e non Überlegung), che non è quella mentale di un soggetto esterno, non è riflessione come forma psicologica del pensare, ma è il riflettersi e il deformarsi in se stessa dell’essenza oggettiva della realtà.
Ma il circolo sincronico del capitale e della sua logica di dissimulazione tra piano dell’essenza e piano dell’apparenza non potrebbe darsi senza incrociare la diacronia della storia, anch’essa però curvata secondo l’esigenza della totalizzazione in una circolarità di presupposizione e di produzione della presupposizione, per cui come Marx scrive più volte nei Grundrisse il capitale produce i propri presupposti, nel senso che riscrive e risignifica secondo la propria logica tutto ciò trova precostituito alla sua nascita e diffusione storica. A cominciare dal lavoro salariato, sussunto prima in modo formale e poi in modo sostanziale e reale al capitale, fino alla ripresentificazione di varie tipologie lavorative apparentemente premoderne, che il capitale non manca di riattualizzare secondo le proprie esigenze di oggi: secondo quella pratica di interiorizzazione dell’esterno di cui sto parlando dall’inizio a partire dall’Assoluto fichtiano-hegeliano.
D) La mia quarta tesi concerne il tanto discusso problema del nesso di esposizione e critica nell’opera di Marx.
A tal proposito io credo che solo con la matura critica dell’economia politica, ossia con Grundrisse e Das Kapital, Marx raggiunga l’unità di esposizione e critica: famoso altro filosofema hegeliano secondo cui è la stessa dimensione di superficie della realtà a transitare in altro per poter trovare il luogo del suo fondamento e della sua riproduzione. L’unità di esposizione e critica in Marx si dà solo quando, coerentemente con il circolo del presupposto-posto, egli ha rinunciato a presupposti di qualsiasi natura. Rinuncia cioè a quel presupporre la natura dell’essere umano come originariamente libera e comunitaria che gli deriva dalla sua esposizione giovanile a Feuerbach e a Rousseau e che lo ha portato a teorizzare una filosofia della storia, chiamata poi materialismo storico, basata sulla contraddizione tra la comunità e la forza produttiva dell’uomo, essere per definizione generico, e l’appropriazione privata di questa forza. Con la critica dell’economia politica come circolo del presupposto-posto cessano perciò l’etica, la politica, l’antropologia, il comunismo di essere i presupposti dell’opera marxiana, quali erano stati per tutta la lunga fase dell’opera giovanile.
Certo è da dire che tali presupposti umanistici, etico-politici non è che vengano ora esplicitamente negati da Marx. Giacché anzi rimangono a costituire molta parte anche della coscienza del Marx critico maturo dell’economia politica, ma trapassano sullo sfondo di un nuovo scenario costituito, non più da una filosofia della storia, ma da una scienza della modernità che trova solo in sé la fondazione delle proprie categorie. E solo a partire dalla quale, dall’attualità dei suoi problemi e delle sue categorie, ha senso tornare a riflettere e indagare sulle forme sociali del passato.
Così come per altro con l’avanzare sulla scena del Marx dell’astrazione reale, della sua penetrazione in tutti i campi del concreto, dello svuotamento del concreto ad opera dell’astratto e degli effetti di deformazione feticistica che tutto ciò produce, si complica e si fa meno automatico la valenza e l’effetto di quella contraddizione sociale che il Marx prima dei Grundrisse e del Capitale aveva eletto a strumentazione fondamentale della sua critica. Era il presupposto infatti della natura comunitaria, partecipativa e generica degli esseri umani, imposto dal romanticismo di Feuerbach a tutta la sinistra hegeliana, a costituire per il Marx prima del Capitale il vettore fondamentale della storia e della ricomposizione sociale rivoluzionaria. Giacché quella natura comunitaria di matrice feuerbachiana si era tradotta nella sua visione nel carattere ontologicamente collettivo e socializzante del lavoro e delle forze produttive, che per quanto alienate e divise in un regime di proprietà privata e di classe, alla fine non potevano non recuperare la loro natura intrinsecamente collettiva ed espropriare così gli espropriatori.
Del resto che la teoria e la prassi della contraddizione sociale vada ripensata e risignificata alla luce non di un presunto carattere intrinsecamente comunitario e tendenzialmente egemonico del lavoro bensì alla luce del dominio e dell’egemonia di un’astrazione reale è confermato, io credo, proprio dalla selezione oggettiva che la realtà della storia contemporanea ha compiuto delle varie tesi marxiane. E’ cioè proprio lo svolgimento storico del capitalismo, del capitale in carne ed ossa, dell’evoluzione economica e sociale della modernità, ad esplicitare quanto nell’altro Capitale, quello scritto da Marx, pertenga alla realtà oggettiva e permanente di un modo di produzione e quanto pertenga ai presupposti, transeunti e storicamente dati, della cultura di Marx. E’ il postmoderno come approfondimento e realizzazione del moderno infatti a testimoniare quanto la teoria marxiana dell’astrazione reale e della sua accumulazione come principio di socializzazione e di riproduzione sociale sia, oggi come non mai, “praticamente vera”. Purché si assuma il prefisso “post” del postmoderno non nel significato della successione ma in quello scandito dal circolo del presupposto-posto, per il quale è solo ciò che viene dopo che esplicita la verità di ciò che viene prima. Così il postmoderno va interpretato – questa è la mia tesi – come inveramento del moderno, nel senso di costituire il tempo storico della piena diffusione, fino alla globalizzazione, di un’economia fondata sulla ricchezza astratta. Diffusione che si svolge a mio avviso secondo le seguenti quattro modalità operative:
- invasione dell’intero mondo del concreto da parte dell’astratto e della sua logica solo quantitativa;
- svuotamento del concreto e sua riduzione a pellicola di superficie;
- superficializzazione, esteriorizzazione e sovradeterminazione del mondo del concreto;
- occultamento attraverso l’intensificata apparenza di superficie dell’operare dell’astrazione reale.
Il postmoderno come realizzazione del moderno significa che la mercificazione capitalistica si estende all’intero mondo, alla produzione così dei beni materiali come dei beni immateriali. Ma proprio la diffusione e la generalizzazione del capitalismo a tutte le sfere dell’esistenza comporta contemporaneamente e paradossalmente il farsi sempre più invisibile del capitale. Con lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto e con l’estetizzazione del mondo che ne deriva vengono oscurati i nessi di causalità tra gli eventi e viene valorizzato il frammento nella sua presenza irrelata e nella sua figura di superficie. La giusta definizione di Frederic Jameson del postmoderno come la “logica culturale del tardo capitalismo” va dunque integrata con la messa in verità della teoria marxiana dell’astrazione reale. Messa in verità, che va colta in tutto il suo paradosso giacché appunto la sua realizzazione e diffusione più ampia coincide con la sua più estrema invisibilità. Ma la realtà dell’astratto è per definizione inattingibile alla vista, irrappresentabile. La sua percezione , come ci dice il “praticamente vera” di Marx, è dovuta ad altri sensi, ad un sentire che non è il vedere: ad un sentire che è fondamentalmente un non-sentire, anaffettivo e vuoto di emozioni. Come accade con l’erogazione di lavoro astratto, che è tale a mio avviso – torno a ripetere- anche nel caso di un lavoro mentale applicato alla messa in ordine e all’elaborazione di informazioni secondo programmi predefiniti e precodificati. Come accade con il mangiare cibi che hanno perduto, al di là dell’apparenza della loro normalità, ogni sapore. Come accade con il consumo di fictions e soap-opera televise, in cui falsi attori, che non hanno alcuna profondità di recitazione, recitano false e inverosimili storie, la cui totale superficialità riempie solo il guardare e mai il sentire. Ma il tutto iscritto e rappresentato attraverso una scena di segno opposto. Giacché questo è, io credo, il modo in cui l’attuale sviluppo estetico del capitalismo, almeno nell’Occidente più avanzato, ci obbliga a riformulare il feticismo di Marx: ovvero come un rapporto di dissimulazione tra opposti per il quale la superficie imbellettata e colorata dell’esterno copre ed occulta un contenuto interno di realtà mortificante ed impoverente. Per dire che, in conclusione, anche qui – nella celebre questione del feticismo – c’è da rileggere e tradurre la formula marxiana del rovesciamento di soggetto e predicato, che s’ispira chiaramente ai presupposti umanistici e antropocentrici del giovane Marx e secondo la quale le relazioni tra gli umani apparirebbero come cose, secondo l’istanza del marxismo dell’astrazione reale, per la quale, proprio viceversa, un soggetto storico e impersonale, come l’accumulazione di ricchezza astratta attraverso l’uso e lo sfruttamento della forza-lavoro, deve necessariamente apparire e sparire, nelle figure e nelle movenze del mondo concreto, come l’agire di soggetti liberi e autonomamente responsabili.
In: Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Atti del convegno di Napoli, 1-3 aprile 2004, a cura di M. Musto, manifestolibri, Roma 2005.

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