Tuesday, 21 February 2023

Marx e Hegel di Roberto Fineschi (Conferenza al Ghislieri, dicembre 2018)

 

Marx e Hegel

Trascrizione leggermente rivista della relazione dal medesimo titolo presentata al convegno internazionale “Marx e la tradizione filosofica” organizzato in occasione del bicentenario della nascita di Karl Marx presso l’Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici – Sezione di Filosofia, dal Consorzio di Dottorato in Filosofia Nord-Ovest (FINO) e dal Collegio Ghislieri (Pavia, 13-14 dicembre 2018).

§1

Ringrazio innanzitutto per il gradito invito. È per me un vero piacere essere presente in questa conferenza, sia per il tema che per un risvolto personale: il mio maestro Alessandro Mazzone fu allievo del Ghislieri e, poiché il rapporto Marx-Hegel era uno dei temi a lui più cari, essere qui a parlarne un po', confesso, mi emoziona.

L’argomento che mi è stato assegnato è ovviamente molto, troppo complesso per essere affrontato in 40 minuti; chi ha familiarità con l'opera di Marx sa benissimo come il rapporto con Hegel attraversi tutto lo sviluppo della sua produzione scientifica e come sia stato inevitabilmente al centro di vastissimi dibattiti nella tradizione successiva; inevitabilmente non potrò che essere sommario.

Vorrei partire proprio con un accenno alla ricezione, perché chi si avvicina a questo tema attraverso la letteratura critica onestamente non può che rimanere disorientato: si è praticamente sostenuto tutto e il suo contrario. Si sono viste da una parte rotture radicali, quella più famosa è sicuramente la althusseriana, legata all'Ideologia tedesca oppure quella di della Volpe che la individuava invece ma nel Manoscritto del '43, ecc.; d'altro lato si trovano letture che sostengono una coerenza, una presenza costante di Hegel attraverso tutta l'opera di Marx, ma anche qui con accenti molto diversi e, paradossalmente, disorientanti: in alcuni casi l'enfasi è stata messa soprattutto sull'opera giovanile - Lucàks per es. tanto per fare qualche nome -, basando molto questa continuità sul concetto di alienazione (proprio nell’abbandono della quale Althusser invece vedeva il grande cambiamento). In questo orizzonte vanno annoverate anche le grandi letture continuistiche nel marxismo occidentale legate al concetto di feticismo, ecc.; insomma solo fare l'elenco di tutti i  nomi richiederebbe probabilmente tutti i 40 minuti a mia disposizione. Oppure altre versioni dello hegelo-marxismo, invece di insistere sull'opera giovanile, hanno puntato sulla presenza nell'opera matura di categorie della logica hegeliana in un approccio più metodologico

In questo complesso dibattito inevitabilmente ci si appoggia a fasi, talvolta si evidenziano determinati passaggi della ricezione marxiana di Hegel a discapito di altri o si enfatizza la preminenza di un'opera rispetto ad altre. Nella mia ricerca ho cercato di basarmi soprattutto sulla nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, che, mi permetto di fare una piccola parentesi, in parte ridefinisce alcune delle loro opere tradizionali proprio da un punto di vista testuale: non cambiano solo le interpretazioni, ma diversi testi tradizionali che hanno una veste del tutto nuova. Faccio questa premessa perché alcune di queste opere sono proprio tra quelle più interessati per un’analisi del rapporto Marx-Hegel.

§2 

Benché in particolare io mi sia occupato del Capitale, inizierei dai più importanti scritti "giovanili", vale a dire i Manoscritti del '44 e l'Ideologia tedesca, che alla luce della nuova edizione storica-critica vengono addirittura, in maniera un po' provocatoria, dichiarati non esistenti, prodotti creati dagli editori della prima Marx-Engels-Gesamtausgabe degli anni venti-trenta che, sull'entusiasmo dell'aver trovato alcuni materiali mancanti nel lascito marxiano, si son fatti prendere la mano e li hanno trasformati in opere. Nel caso dei Manoscritti del '44, le edizioni storiche hanno presentato ai lettori una versione tematica, cioè hanno riorganizzato vari materiali effettivamente scritti da Marx. Ovviamente non hanno scritto loro un testo dicendo che era di Marx, ma hanno utilizzato dei manoscritti marxiani riorganizzandoli in maniera tematica e dando l'idea che esistesse un'opera effettivamente progettata, quando in realtà si tratta di materiali di studio che vanno contestualizzati insieme a un'altra gamma di manoscritti dello stesso periodo che mostrano effettivamente il contesto di pura ricerca in cui furono scritti. Anche nel caso dell'Ideologia tedesca, non avremmo di fronte un'opera concepita, ma una serie di articoli sulla sinistra hegeliana, sulla cui base, a un certo punto, hanno iniziato a progettare un capitolo su Feuerbach - il primo dell'Ideologia tedesca tradizionalmente letta - che in realtà è quello editorialmente più costruito, in base a materiali incompleti e parziali che si erano accumulati. Per quanto riguarda Il capitale, il secondo e il terzo libro, anche qui pubblicati da Engels, sono testi che il curatore inevitabilmente ha dovuto “finire” per presentarli come opere compiute. Anche qui l'edizione critica mette a disposizione i manoscritti originali di Marx che, confrontati con l'opera stampa, inevitabilmente mostrano quanto lontani fossero da una compiutezza effettiva. Il mio progetto consiste nel rivisitare il rapporto tra Marx e Hegel anche alla luce di questi testi adesso finalmente disponibili. 

§ 3

Venendo allo specifico del tema, Marx quando legge Hegel inevitabilmente lo fa con delle idee in testa e con degli obiettivi, ne dà quindi una lettura inevitabilmente selettiva e orientata. Questo per tagliare la testa al toro, perché si potrebbe a lungo discutere quanto l'interpretazione marxiana di Hegel sia filologicamente sostenibile; secondo me non è così difficile mostrare che è sostenibile fino a un certo punto. Su questo dirò alcune cose dopo, però di fatto Marx legge Hegel per pensare la propria filosofia, più o meno come hanno sempre fatto tutti, non è che in questo sia stato particolarmente originale; bisogna però averne consapevolezza, perché in base a questa lettura orientata, egli seleziona che cosa leggere.  

Da un lato evidentemente Hegel è “il” filosofo quando Marx si confronta con lui; come emergeva anche dalle altre relazioni, è vero che legge Spinoza, però attraverso Hegel, legge il materialismo, però chiaramente c'è un'influenza di come lo legge Hegel, e via dicendo. Per questa generazione Hegel aveva detto un po' tutto quello che c’era da dire nella storia della filosofia e quindi guardavano a lui avendo in mente questa (discutibile quanto si voglia) idea. 

Una delle prime letture significative è il Manoscritto del '43 sulla critica del diritto statuale hegeliano, testo fondamentale per es. nella tesi dellavolpiana, del galileismo metodologico. Quando ci confrontiamo con esso non si può non tener conto di quanto Marx già sapesse di economia politica, di quanto si fosse cimentato con quello che poi sarà il prodotto maturo della sua opera. La risposta è che non ne sapeva niente, ancora non l'aveva studiata. Quindi, la serie di problemi che ha in mente in questa fase non sono quelli che poi prevarranno nella maturità; non si può non tenerne conto nell’analisi della critica dei concetti politici espressi da Hegel in questo testo, della selezione marxiana di questi passaggi. Sicuramente la cosa è diversa per i Manoscritti del '44, paralleli ad altri manoscritti parigini che menzionavo prima; qui Marx inizia a studiare economia politica in Francia e gli estratti fatti da classici come Ricardo ecc. sono da traduzioni francesi. Lavoro e capitalismo sono adesso concetti forti nella sua mente e questo lo spinge a utilizzare un altro testo di Hegel che è La fenomenologia dello spirito; la limitazione non è solo relativa all’opera, infatti non la utilizza neppure tutta: è ossessionato dall'ultimo capitolo sul “sapere assoluto” che addirittura trascrive interamente. Notoriamente alienazione ed estraniamento sono tra i temi cardine di questo manoscritto e si capisce bene da dove vengano: da questo capitolo della Fenomenologia dello spirito; in una trentacinquina di pagine dell'edizione Suhrkamp vi si riscontrano ben 40 occorrenze, in ogni pagina c'è due volte. Prima ci si chiedeva: quanto è filologicamente legittimo interpretare Hegel sulla base del concetto di alienazione? Evidentemente poco, perché, se si fa un'analisi più generalizzata di questo concetto nella filosofia hegeliana nel suo complesso, quello che emerge è che è una categoria prettamente fenomenologica. Praticamente Hegel lo usa quasi esclusivamente nella Fenomenologia dello spirito e addirittura neanche in tutta l'opera ma solo in tre capitoli. Tra l’altro lo usa con significati non solo negativi, come prevalentemente sembrerebbe nell'opera marxiana. Anche qui ci troviamo di fronte a una lettura molto orientata, in cui Marx ha in mente l'idea di una nuova essenza umana, che è il lavoro, e che il processo di uscita da sé, rientro a sé, che lui vede così ben espresso nel capitolo sul Sapere assoluto va rigenerato alla luce di questo concetto sostanzialista e materialista, un po' di stampo feuerbachiano, che lui appunto reinterpreta con il concetto di lavoro come essenza dell'uomo (Gattungswesen). Questa lettura è stata la base di molte interpretazioni che poi hanno cercato anche un aggancio nell'opera matura, soprattutto ricollegando il concetto di lavoro alienato a quello di feticismo, tentativo non solo di filosofi ma anche di economisti. Ma non la faccio troppo lunga, i relativi riferimenti sono noti. 

Il forte peso dato all’ultimo capitolo della Fenomenologia dello spirito spinge Marx a ignorare la complessa stratificazione enciclopedica, per cui “pensiero” non significa solo “pensante”, non solo “pensamento”, ma individua la dimensione del concetto, della natura e poi dello spirito cosciente di sé, e quindi dell'autocoscienza e via dicendo, come momenti diversi del dispiegamento della totalità. Marx tende invece, sulla scia dei suoi epigoni, ad appiattire questi livelli su quello di autocoscienza e a pensare a una sorte di “soggettone”, se mi consentite questa grossolana semplificazione, che invece di alienarsi, di estrinsecarsi e di rientrare in sé come categoria dello spirito lo fa come categoria del lavoro.

Altra influente ricezione è legata alla Filosofia della prassi che si basa soprattutto sulla lettura delle Tesi su Feuerbach. Queste 11 note, pubblicate solo dopo la morte di Marx in una versione rimaneggiata in maniera decisiva, hanno avuto un peso notevole, particolarmente in Italia attraverso la filiazione gramsciana. Anche questa è una questione molto interessante, perché Marx non ha mai utilizzato l'espressione "filosofia della prassi", come non ha mai utilizzato l'espressione "materialismo storico". Il ritorno ai testi si legittima, non perché sia impossibile dedurre queste interpretazioni, ma perché la precisione filologica ci aiuta anche a ripensare queste tradizioni. Quella della filosofia della prassi letta come chiave del rovesciamento hegeliano è una questione molto spinosa che sarebbe oggetto di una relazione a sé.

Altra opera in cui emerge una rilettura sostanziale del dettato hegeliano è la Miseria della filosofia.  In un celebre passo sul metodo hegeliano, Marx parla di tesi, antitesi e sintesi, categorie che, se andiamo effettivamente a leggere le pagine sul metodo di Hegel, riscontriamo che, a dispetto di molti manuali in circolazione, non ci sono affatto… Come dire: sembra anche qui trattarsi di una lettura “culturale”, ispirata da un ambiente in cui si pensava che fosse proprio così.

Secondo me il complesso della visione di Marx fino a questo punto si articola sostanzialmente in alcuni concetti fondamentali che sono i seguenti: egli pensa sostanzialmente che Hegel sia una sorta di spiritualista in cui la dimensione diciamo soggettiva del pensiero non è tanto ben distinta da un'ontologia del pensiero, e quindi la dimensione della filosofia dell'autocoscienza prevale sulla strutturazione ontologica enciclopedica complessiva (irriducibile alla mera autocoscienza). Interpretato Hegel in questi termini, Marx ritiene che egli sbagli perché proietterebbe su di un livello astratto-spiritualistico le dinamiche reali della produzione e riproduzione umana, una sorta di trasfigurazione mentale dei processi obiettivi e in questo senso tutta da combattere. Nella Sacra Famiglia c'è un altro celeberrimo passo sul “frutto”, che dalla sua astratta “fruttità” si determina come frutti particolari; qui Marx scimmiotta chiaramente in maniera sarcastica la processualità hegeliana del concetto che dall'astratto si determina come concreto ecc. ecc. La forte ironia, lo spirito dissacratorio e caustico di Marx fanno pensare a un giudizio largamente negativo su Hegel, sia nel merito ma anche nella metodologia. 

§ 4

Su alcuni di questi aspetti Marx non cambierà mai idea. Dal 1857 però qualcosa succede e questo va notato non per proporre un’altra rottura alternativa alla precedenti. L’elemento da mettere in evidenza grazie all'edizione critica è che a partire dal 1857 Marx inizia a scrivere in maniera molto più convinta e sistematica la propria teoria del modo di produzione capitalistico. Questo ovviamente non significa che prima non si fosse occupato di economia, bisogna però prendere atto che fino a quel momento non aveva mai cercato di strutturare e articolare in maniera complessa una teoria propria. Questo è un processo che andrà avanti fino alla morte e resterà incompiuto. In particolare fino al 1865 scrive tre grandi manoscritti: uno noto come Grundrisse, redatto nel periodo 1857/8 (nel 1859 pubblica Per la critica dell'economia politica, che in teoria doveva essere la prima parte della sua opera); però una volta che lo finisce inizia a scriverne la continuazione, ma questo manoscritto a un certo punto diventa di nuovo un manoscritto di ricerca, il Manoscritto 61-63, che è quello che contiene le Teorie sul plusvalore come parte centrale, in cui riprende vari temi che aveva già trattato nello scritto precedente, ma anche temi nuovi, che non aveva esplicitamente considerato.

Una volta finito questo secondo manoscritto pensa di aver capito come scrivere effettivamente Il capitale, e redige un terzo grande manoscritto secondo lo schema dei tre libri nel periodo 1863-65: processo di produzione, di circolazione e configurazione complessiva. Quando finisce anche questo finalmente pensa di poter scrivere Il capitale in bella. Marx era un eterno insoddisfatto e quindi scriveva e riscriveva. Nel 1867 esce la prima edizione tedesca del Capitale che, ovviamente, trova inadeguata, e quindi ne fa altre. Complessivamente, lui vivo, escono due edizioni tedesche del primo libro, l'edizione francese, e poi lavora regolarmente al secondo libro e pochissimo al terzo, entrambi restano incompiuti. In quest'ultima fase però si mette a studiare di tutto, dall'agronomia alla matematica, nella quarta sezione della MEGA stanno pubblicando i lavori e gli estratti di questo periodo; è veramente impressionante lo sterminato campo di interessi che sviluppa Marx in questo periodo.

Nell’elaborazione della teoria del modo di produzione capitalistico alcuni hanno visto  l'evidenza della rottura famosa di cui sopra, in cui Marx diventerebbe scienziato e non sarebbe più hegeliano o filosofo, non più teorico dell'alienazione dell'essenza umana. Altri hanno visto invece qui il luogo in cui effettivamente Marx è hegeliano, in cui l'evidente presenza di tutta una serie di categorie chiaramente derivate dalla Scienza della logica mostrerebbero che la metodologia adottata da Marx è quella di Hegel nella maniera più cogente, più forte. Tuttavia anche qui, pur assumendo quest’ultima prospettiva per cui effettivamente Hegel e la sua dialettica sarebbero presenti nel Capitale da un punto di vista metodologico, si riscontrano divisioni: alcuni sostengono che solo nei Grundrisse o nelle prime opere di questa ampia elaborazione ci sarebbe effettivamente una sistematica hegeliana, mentre man mano che va avanti, Marx ridurrebbe la dialettica. Altri invece hanno cercato di dimostrare attraverso delle tavole sinottiche come l’articolazione della teoria di Marx corrisponderebbe esattamente a sezioni, capitoli della Scienza della logica, mettendo in parallelo le due strutture. Anche qui il dibattito è molto ampio. Chi fa forza su questa interpretazione di coerenza metodologica in genere menziona sempre la lettera che Marx scrive ad Engels nel gennaio del 1858, mentre sta redigendo i Grundrisse, dove afferma che per puro caso ha risfogliato La scienza della logica e che questo gli è stato molto utile; aggiunge che prima o poi avrebbe scritto un libercolo dove si sarebbe mostrata l’essenza del metodo dialettico. Gli altri due passi che in genere si menzionano in questo contesto sono il capitolo sul metodo della cosiddetta introduzione ai Grundrisse e la postfazione alla seconda edizione tedesca del Capitale in cui, nel caso della postfazione esplicitamente, Marx dice nero su bianco che il suo metodo è il metodo dialettico e che Hegel è sicuramente suo maestro in questo senso, salvo poi mettere le mani avanti aggiungendo una differenza fonamentale: Marx è materialista mentre Hegel è idealista, bisogna dunque trovare il nocciolo razionale della dialettica hegeliana. Ora, trovare questo nocciolo razionale è appunto quello che ha scatenato l’infinito dibattito parzialmente sopra esposto in cui si rischia di perdersi. In quest'ultima parte cercherò di spiegare secondo me come si può andare nella direzione dell'individuazione di questo nocciolo razionale. 

Da un lato, a chiunque abbia un minimo di familiarità con Hegel, pare onestamente innegabile una massiccia presenza di categorie della Scienza della logica nella teoria del Capitale. Per fare solo un paio di esempi, Marx nei Grundrisse scrive vari specchietti di come lui avrebbe articolato la teoria; per organizzare la materia usa le categorie di universale, particolare e singolare evidentemente mutuate dalla teoria hegeliana del giudizio e del sillogismo. Quando parla della concorrenza dei capitali, esplicitamente parafrasa i paragrafi dell'uno-molti, attrazione e repulsione della Logica dell'essere. Esplicitamente parla di attrazione e repulsione, uno-molti. Parlando del concetto di capitale, inserisce la distinzione tra capitale diveniente e capitale divenuto, di nuovo sono concetti che vengono dalla teoria concetto di Hegel. Alcuni dicono che questo vale solo per i Grundrisse, ma in realtà tali categorie sono ben presenti anche nell'opera pubblicata. Se si guarda lo sviluppo dell'equivalente nella teoria della forma di valore si ha la triade singolare-particolare-universale - qui le vecchie traduzioni italiane e sono un po' fuorvianti, perché talvolta traducono singolare con individuale e universale con generale. Sono di nuovo categorie della teoria del sillogismo e del giudizio della logica. In un passo della critica dell'economia politica, Marx parla del processo di circolazione come di un sillogismo. Lo sviluppo della contraddizione di valore e valore d’uso interna alla merce praticamente ricalca la struttura dei paragrafi della teoria hegeliana della contraddizione. Negare che questo patrimonio concettuale venga da Hegel significa negare l’evidenza. 

Concesso questo, l'errore secondo me sarebbe pensare però semplicemente, come è stato fatto, al calco, cioè ipotizzare che ci sia una sorta di speculare simmetria fra le due strutture; ciò sarebbe la cosa meno dialettica che si possa concepire: secondo l'impostazione hegeliana, in realtà il sistema è concepibile solo come Auslegung der Sache selbst, svolgimento della cosa stessa (in cui il genitivo è tanto soggettivo che oggettivo); se invece ci limitiamo a riprodurre una struttura astrattamente, formalisticamente dialettica perché così “suona”, ma senza che ciò corrisponda all'intrinseca necessità dialettica della teoria stessa, produrremmo la negazione della dialettica. Nella famosa lettera che menzionavo prima a Engels è esattamente questa la critica che Marx rivolge a Lassalle: dice che egli vorrebbe fare un'opera dialettica ma avrebbe capito lui stesso la differenza tra applicare schematicamente categorie a un contenuto esterno o arrivare al punto di poter sviluppare la dialettica del contenuto stesso. In realtà è una critica che in qualche modo richiama quella del 1843 rivolta a Hegel: secondo Marx, Hegel avrebbe applicato al tema della filosofia del diritto un'astratta logica a sé stante, senza mostrare invece la dialettica intrinseca al sistema del diritto (“la logica specifica dell’oggetto specifico”). 

§ 5

Nella teoria del capitale, Marx cerca di svolgere la cosa stessa, sviluppare la sua dialettica intrinseca, la logica specifica dell’oggetto specifico, non applicare la dialettica a un qualcosa di dato. Sembra dunque un hegelismo metodologico in senso forte, in cui la teoria del capitale si costruisce nell'articolazione dell'intrinseca razionalità a partire dal concetto di merce per giungere a credito e capitale fittizio come suo culmine. Questo permette secondo me di mostrare anche come Marx abbandoni quelli che inizialmente erano effettivamente degli schematismi, per esempio l’articolazione in universale, particolare e singolare che menzionavo sopra: quando la redige la usa un po' a priori, schematicamente; per ordinare il materiale pensa a questa astratta struttura e ci mette dentro vari passaggi. In realtà quando poi scrive effettivamente la teoria apporta delle modifiche proprio perché lo svolgimento della cosa stessa lo richiede. Se si vanno a seguire le trasformazioni tra le prime versioni e le versioni "finali", si vede come esse rendano più coerente la struttura dialettica che altrimenti sarebbe risultata schematica. 

Se metodologicamente Marx è coerente con Hegel, che cosa intende quando lo critica? Marx capisce benissimo che chi ha letto Hegel e poi legge il suo libro non può non vedere la filiazione e per questo è lui il primo ad aver paura di essere accusato di hegelismo.  Nella prima edizione tedesca del Capitale addirittura nelle note fa esplicito riferimento alle categorie di Formgehalt e Forminhalt, insomma nella cultura del tempo la conoscenza di Hegel era così comune che non poteva non saltare agli occhi in maniera evidente di quanto stesse utilizzando categorie hegeliane. Questo mettere le mani avanti è dire che metodologicamente egli seguisse l'intrinseca necessità dialettica, il metodo dialettico, però ciò non implicasse che fosse uno spiritualista era per intendere quanto poi afferma esplicitamente: pensare concettualmente (il metodo dialettico) non è il modo in cui il mondo si crea - perché è questo che loro pensavano di Hegel, cioè loro pensavano che il processo di produzione concettuale della realtà fosse la realtà stessa -, ma il modo in cui viene ricreata nel pensiero una realtà esterna preesistente. In questi stessi termini si esprime anche in un passo dei Grundrisse, in cui addirittura afferma che successivamente sarebbe stato meglio cancellare la forma di esposizione dialettica per non essere preso per uno hegeliano spiritualista. Marx, sulla scia della cultura del tempo, pensava questo di Hegel; questo oggi non pare più sostenibile.

Questo giudizio su Hegel come una sorte di spiritualista è sicuramente un punto di continuità con la lettura giovanile; la discontinuità sta invece nel forte apprezzamento del metodo, che viene addirittura dichiarato l’unico veramente scientifico: rivaluta la forza della concettualizzazione dialettica come strumento di comprensione della realtà. Per differenziare la sua posizione rispetto a Hegel, Marx afferma che la dialettica è il processo di ricostruzione della realtà nel pensiero e che come tale esso è solo un momento del conoscere; prima è stato preceduto da un processo di ricerca che permette di analizzare la realtà fino a individuare le categorie fondamentali sulla base delle quali si potrà farne la concettualizzazione. La riformulazione del metodo dialettico in chiave anti-hegeliana che Marx propone risulta più hegeliana dopo la “correzione” di quanto non fosse prima e di quanto egli stesso non credesse. 

§ 6

Un'altra accusa dalla quale Marx vuole sicuramente difendersi, e concludo,  è quella di teleologismo. Era un'altra delle critiche che tradizionalmente veniva rivolta a Hegel: la storia avrebbe un corso predeterminato che tende in maniera deterministico-finalistica verso un culmine. Marx teme che si possa dire la stessa cosa di lui e affronta la questione ponendo il tema dei “limiti del metodo”. Che cosa intende parlando di questi limiti? Se la teoria del materialismo storico, anche se egli non usa questa espressione, implica una dinamica di sviluppo per cui determinati processi storico-sociali vanno avanti in forza di una meccanica che non è semplicemente individuale ma per certi aspetti sovraindividuale, nella quale gli individui si trovano ad essere soggetti operanti ma non necessariamente coloro che indirizzano il corso finale, se c'è una necessità storica, motorietà storica che va avanti di per sé, si potrebbe allora sollevare lo stesso tipo di accusa, nel senso che sembrerebbe come se la storia andasse da qualche parte.

I limiti del metodo sembrano la risposta a questo tipo di critica: Marx intende che la ricostruzione scientifica di un'epoca storica non permette generalizzazioni arbitrarie, cioè non di estendere automaticamente le leggi che valgono in una determinata epoca storica, alla meccanica storica in generale. In altri termini i punti di partenza del modo di produzione capitalistico non sono spiegabili a partire dalla teoria del modo di produzione capitalistico stesso. Ciò implica che ci siano delle rotture storiche, che non consentono di tracciare una storia universale finalistica in astratto, ma impongono piuttosto che, epoca per epoca, questo processo vada ripensato sulla base degli sviluppi storici correnti di ciascuna epoca. Qualcuno, insistendo su questo concetto, ha parlato di “metodo revocabile”, valido limitatamente al modo di produzione che all’interno del quale si è dato, vale a dire che la scienza di questa epoca storica corrente non può essere la scienza di altre epoche storiche.

Se si va a vedere quanto Marx afferma delle altre epoche storiche, la delusione è cocente: scrive molto poco e, soprattutto, funzionalmente al modo di produzione capitalistico; dato che il modo di produzione capitalistico ha dei presupposti, sembra studiare come essi si siano formati. Determinare questi punti di partenza e quelle tendenze non significa elaborare una teoria di altri modi di produzione, né feudale, né schiavistico, ecc. Se ciò vale per il passato, si applica ovviamente anche a come il modo di produzione presente sia la possibile premessa di uno futuro: sulla base di queste stesse premesse metodologiche, la società futura potrà essere teorizzata solo una volta che la struttura essenziale si sarà data realmente e sarà quindi possibile ripensarla a posteriori. 

Se ho solo rievocato un complesso ambito di tematiche, mi premeva sottolineare come tutto ciò possa essere di nuovo studiato e criticamente indagato solo sulla base di una forte testualità e della sua coerenza complessiva. Si possono infatti prendere pezzi di Marx per farne altre cose, ma nella prospettiva di chi vuole ricostruire il percorso marxiano nei suoi termini propri perché si ritiene il suo discorso un paradigma scientifico ancora adeguato a pensare il presente, la strada maestra è ancora quella della ricostruzione.




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Quanto qui esposto è una sintesi delle conclusioni cui sono giunto dopo un ventennio di studi. Chi volesse approfondire in maniera analitica i temi qui solo evocati, può consultare le seguenti pubblicazioni a loro volta sono ricche di rimandi bibliografici.




R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Roma, Carocci, 2006.

----, La logica del capitale. Ripartire da Marx, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2021.

---, Tempo e storia nelle Formen. Riflessioni sul materialismo storico. In: Karl Marx (1818-2018): eredità e prospettive, a cura di G. Sgro' - I. Viparelli. p. 95-108, Napoli, La Città del Sole, 2021.

---, “Astrazione reale”. Un tentativo di ricostruzione filologica. In: Soggettività e trasformazione. Prospettive marxiane. Roma, Manifestolibri, 2021.

---, Critica tra Marx e Hegel. “Revista dialectus”, vol. 9, 2020, p. 189-201.

---, L'ideologia tedesca dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), in “Historia Magistra”, vol. XI, 2019, p. 89-104.

---, Note provvisorie per una teoria della Rivoluzione, in: (a cura di): Stefano G. Azzarà, Rivoluzioni e restaurazioni, guerre e grandi crisi storiche: cento anni dall’ottobre russo (parte prima), vol. III, 2018, p. 43-53.

---, Un nuovo Marx. Interpretazione e filologia dopo la nuova edizione storico-critica, Roma, Carocci, 2008.

Saturday, 21 January 2023

I venerdì critici di Laboratorio Critico



... eppur si muove. 

L'associazione Laboratorio Critico inizia la sua programmazione con una serie di presentazioni di libri di recente pubblicazione e di grande rilevanza teorica.
Nel contesto dei "Venerdì critici
", con ricercatori giovani e meno giovani discuteremo di estetica, storiografia, teorica politica, classici del marxismo.
A presto aggiornamenti, per adesso un teaser :) :)

Monday, 9 January 2023

Dire dove la storia andrà Tra Dante e Marx. Noterelle sull’azione storica di Roberto Fineschi

 Il testo è ora raccolto in Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni



Dire dove la storia andrà

Tra Dante e Marx. Noterelle sull’azione storica


Dire dove la storia andrà

1. In occasione del centenario dantesco vorrei sviluppare qualche noterella sulle sue riflessioni di teoria politica. Che, tra le istituzioni universali, il primato spetti all’imperatore piuttosto che al papa, che la loro conflittualità, lo scarso interesse del primo alle questioni “italiane” ecc. giochino effettivamente un ruolo nella governance mondiale, ai nostri occhi non appare onestamente un tema rilevante, almeno in questi termini. Significa questo che i problemi teorici affrontati da Dante, il contesto in cui la sua riflessione si articola non abbiano niente su cui farci riflettere? Ovviamente no. Tra i temi più interessanti, a mio parere, figura la complessa relazione tra istituzioni, bene universale, e le “parti”, nonché la questione dell’efficacia del “ben fare” rispetto al corso storico. 

Limitandosi ai cosiddetti canti politici (il sesto di ciascuna cantica), già nel discorso su Firenze di Ciacco – punito nel III cerchio dell’Inferno tra i golosi – emerge il tema delle “parti” (qui i guelfi bianchi e i guelfi neri) e della loro lotta intestina: 

… Dopo lunga tencione 
verranno al sangue, e la parte selvaggia 
caccerà l’altra con molta offensione
(Inferno, 64-66).
La causa del loro agire pernicioso è da ricondurre a
superbia, invidia e avarizia sono 
le tre faville c’hanno i cuori accesi

(Inferno, 74-75).

Il problema tuttavia non riguarda solo chi agisce a fin di male; com’è noto, pure coloro che “a ben fare posero gli ingegni”, che non agirono per superbia, invidia o avarizia ma nella prospettiva del bene comune, saranno dannati se non avranno accettato la volontà divina e il suo piano provvidenziale. Dante, ricordando alcuni dei protagonisti della vita politica fiorentina del suo tempo, chiede:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, 
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca 
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

(Inferno, 79-82).

E Ciacco chiarisce:
… Ei son tra l’anime più nere

(Inferno, 85).

Passiamo adesso al VI canto del Purgatorio; l’invettiva di Sordello – il più famoso dei trovatori italiani che Dante incontra nel secondo balzo dell’antipurgatorio tra i peccatori morti violentemente – indica nell’assenza della salda guida dell’imperatore la causa principale dell’instabilità politica della penisola italica. Essa sta a fondamento tanto delle lotte fratricide tra grandi famiglie, feudatari ecc., quanto della crisi di Roma. La situazione è così drammatica che Sordello “osa” interrogarsi, provocatoriamente, sull’imperscrutabilità dei piani divini e sullo iato tra essi e la tragica realtà che si mostra agli occhi dell’attore politico del tempo:

E se licito m’è, o sommo Giove 
che fosti in terra per noi crucifisso, 
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 
O è preparazion che ne l’abisso 
del tuo consiglio fai per alcun bene 
in tutto de l’accorger nostro scisso?

(Purgatorio, 118-123),

Infine, nel sesto canto del Paradiso – secondo cielo di Mercurio, dove Dante incontra gli spiriti giusti – si ha un più preciso riferimento all’errore di Guelfi e Ghibellini, i “partiti” del tempo. Giustiniano, icona dell’impero universale, afferma che essi o lottano contro il vessillo imperiale, il “pubblico segno” – i guelfi –, o se ne appropriano indebitamente facendone un simbolo di parte e non universale – i ghibellini:

Omai puoi giudicar di quei cotali 
ch’io accusai di sopra e di lor falli, 
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli 
oppone, e l’altro appropria quello a parte, 
sì ch’è forte a veder chi più si falli.

(Paradiso, 97-102).

Seguendo le indicazioni dei passi menzionati, lo schema che si delinea pare il seguente. La responsabilità morale e politica è individuale e l’errore ha due origini gerarchicamente articolate: da una parte essi nascono dal cadere vittima del peccato, vale a dire agire per avarizia, brama di potere, invidia. Qui, a differenza di altri passi, non viene inserita nella lista la lussuria; aggiungendo quest’ultima il quadro è un grande classico (maschilista): potere, denaro, donne. Ciò detto, c’è però un secondo livello, vale a dire sbaglia altrettanto ed è destinato alla dannazione colui che, pur mirando a valori universali, lo fa non abbracciando al contempo la prospettiva trascendente, divina. Il “ben fare” non basta. Una prospettiva puramente laica dell’agire politico, per quanto sincera e alta, non è sufficiente.

Di fronte agli individui e alle loro responsabilità si ergono delle istituzioni universali, rispettivamente il papato e l’impero, rispetto alle quali essi hanno dei doveri spirituali e politici. Sia l’imperatore che il papa devono agire in vista del bene comune e rifuggire il particolare. Il rapporto tra universale e particolare è diretto: il secondo sta immediatamente sotto il primo e gli risponde individualmente. Questo rapporto immediato era reso più complesso dall’esistenza dei comuni, ma essi valevano come uno, come del resto i feudi, di fronte all’imperatore, l’universale politico, che quindi aveva il dovere di raccoglierli in una unità. Il prevalere del peccato e del vizio e l’apparente limitatezza del ben fare in ciascuno dei poli di questo rapporto portava all’inesorabile instabilità che affliggeva la realtà contemporanea. Le parti paiono dunque aggregati di individui che si uniscono nella ricerca di un particolare. 

A valutare dalle numerose invettive dantesche contro Firenze, Pisa, Siena, l’Italia nel suo complesso, vari imperatori, innumerevoli papi, pare difficile dire quando un sistema così strutturato sia stato efficace nella storia… praticamente mai. La sua teorizzazione – esposta in modo più esplicito e “scientifico” nel De Monarchia – vale dunque solo come, diciamo, ideale regolativo, come dover essere che pone l’obiettivo di un’armonia che non esiste nel momento dato, ma che a ben vedere non è mai esistita neppure in passato, se non in dei mitici tempi andati per i quali Dante non dà riferimenti storici esatti.

Qui, inesorabilmente, viene fuori la questione del piano provvidenziale: se nell’azione umana non prevale la ragione e lo spirito, o se l’azione umana, seppur condotta in conformità a ragione e spirito, non produce un mondo giusto e pacificato, non si può che ipotizzare l’esistenza di un piano razionale e pacificato che trascenda le capacità di comprensione individuali e che si renda manifesto solo nel viaggio ultraterreno. Il viaggio terreno non ha senso in se stesso, ma lo acquista nella prospettiva escatologica dell’aldilà; l’anima individuale, nel mondo, si salva dal mondo. Il mondo come tale gli individui non riescono a salvarlo o a governarlo; poiché la presenza di Dio si manifesta ma non si lascia comprendere pienamente, si ipotizza che ci sia un piano imperscrutabile, un governo più alto esperibile ma non concettualizzabile nella sua concretezza. Bisogna solo fare quello che è giusto fare per salvare la propria anima, senza garanzia alcuna che ciò porti a un effettivo miglioramento della realtà dal punto di vista dell’attore vivente, ma con la fede incrollabile che questa azione abbia senso in quanto razionale e divina. 

Si noti a questo punto che, se questo governo più alto ci sia – piano provvidenziale – o non ci sia – sorte o fortuna –, dal punto di vista pratico delle capacità di gestione dell’attore nel mondo non cambia niente: il mondo resta ingovernabile. Infatti, rispetto a questa semplificata ricostruzione dello schema dantesco, la modernità ha dapprima cercato di riformulare in termini razionalistici l’idea del piano provvidenziale, per poi abbandonare l’idea stessa di un piano e lasciare il mondo a se stesso nella sua meccanicità materialistica o, addirittura, nella sua irrazionalità costitutiva, comunque senza finalità.

2. Qual è il tentativo marxiano in questo contesto? Nasce sicuramente dall’eredità hegeliana. Essa, letta laicamente, si configura come una ricostruzione a posteriori di una razionalità che si è già dispiegata nella storia mostrando di avere una finalità: lo sviluppo dello spirito non è meramente meccanico ma segue una tendenzialità; Hegel afferma che essa è effettiva, in quanto si è mostrata nella storia come una struttura razionale che la razionalità stessa, esistente in forma cosciente nel filosofo, è in grado di comprendere e spiegare. Certo, a giudicare dalle sue lezioni sulla filosofia della storia, neppure in passato i momenti storici in cui il reale è stato razionale sono stati poi molti, ma comunque Hegel formula livelli di razionalità sostanziale – le epoche della storia nella Filosofia del diritto – che hanno delle linee di sviluppo che, a posteriori, si lasciano ricostruire come svolgimento finalistico dello spirito. Questa comprensione tuttavia ci dice dov’è andata la storia e perché [1], ma non ci dice dove andrà. 

Qui arriva l’ambizioso Marxdire dove la storia andrà. È un’ambizione piena di problemi e probabilmente non si lascia sciogliere nell’ottimistica autoaffermazione di una società futura che non solo nasce come potenzialità, ma che addirittura si realizza scalzando più o meno necessariamente quella capitalistica. Questa filosofia della storia in senso fortissimo è stata criticata da ogni versante, anche all’interno dello stesso marxismo e variamente riformulata, fino agli estremi di un ritorno al rapporto dell’individuo/individui con la contingenza (o il caso che dir si voglia). Credo che questa sia una strada che finisce per perdere la sostanza del materialismo storico. A mio modo di vedere la soluzione intermedia la si trova nella capacità marxiana di teorizzare la finalità attiva nel presente: non tanto di dire che ci sarà necessariamente il passaggio a una società futura, ma nel mostrare come il presente abbia delle linee di tendenza ancora non propriamente in atto, non completamente sviluppate. La teoria marxiana permette di comprenderle e di indicare verso quali sviluppi si tenderà all’interno del modo di produzione capitalistico, affinché esso si realizzi pienamente. Non è una finalità escatologica: non è né trascendente (Dante) né ricostruibile solo rispetto al passato (Hegel), ma formulata a partire dalla comprensione scientifica del presente e rivolta al presente (nel senso dello sviluppo dell’epoca presente, non del necessario passaggio a un’epoca futura). Non è quindi neppure una filosofia della storia forte come quella della tradizione marxista, ma non è neppure il ritorno a un destrutturato rapporto tra gli individui e il caso (o pochissimo strutturato sulla base di una ricostruzione delle contingenze via via date).

In base alla comprensione di queste tendenzialità si può cercare di formulare un’azione storica e politica razionale non in virtù di una fede incrollabile o di un’intuizione felice a proposito del corso della storia nel momento corrente, ma in virtù di leggi e tendenze che configurano soggetti e una loro azione possibile [2]. Con questo, a Marx sarebbe riuscita la magia di trasformare la filosofia (o la teologia) in una scienza non dell’aldilà o del dopo, ma dell’ora e, quindi, forse, anche in uno strumento pratico per cambiare il mondo [3].

 

Note:

[1] Ciò non significa che la storia sia finita ma che è compiuta fino a questo momento; ciò anzi indica l’alba di una nuova epoca dello spirito della quale però non si può dire niente prima che essa stessa si sia compiuta.

[2] In questo contesto è un tema particolarmente delicato il rapporto tra il tutto e le parti, ovvero tra individui, soggetti collettivi, totalità che, evidentemente si articola in maniera assai diversa rispetto a quanto accadeva in Dante. Il nodo della questione, che qui evidentemente non può essere trattata, è evitare la riduzione dei soggetti storici a meri individui (l’acme dell’ideologia borghese che si ripresenta in varie salse libertarie anche a sinistra) o a generici processi transindividuali (l’irrazionalismo delle non meglio definite ere) e/o alla loro “narrazione”.

[3] Alcune ulteriori considerazioni su questo punto nel mio Note provvisorie per una Teoria della Rivoluzione.

Wednesday, 4 January 2023

Per un marxismo teorico. Alessandro Mazzone e l’associazione Laboratorio Critico di Roberto Fineschi

 Da "La città futura" del 30/12/2022

Per un marxismo teorico. Alessandro Mazzone e l’associazione Laboratorio Critico

di Roberto Fineschi, Presidente dell'Associazione


È sorta l'Associazione culturale Laboratorio Critico che si prefigge, sulle orme del lascito di Alessandro Mazzone, di costituire un punto di riferimento per coloro che intendono arricchire la militanza con l'indispensabile substrato teorico.


Per un marxismo teorico. Alessandro Mazzone e l’associazione Laboratorio Critico

1. Dieci anni fa moriva Alessandro Mazzone, rilevante figura intellettuale del marxismo italiano. Nell’occasione della ricorrenza alcuni ex-studenti - “i mazzoniani” - insieme alla figlie hanno deciso di dar vita a un’associazione culturale dal nome Laboratorio Critico. Il suo obiettivo non è una mera commemorazione rituale, ma la ripresa e il rilancio di un approccio critico, di un metodo di studio, di un campo di ricerche che oggi faticano a trovare spazio non solo nel panorama universitario, ma in quello intellettuale in senso più ampio.

Qualcuno potrebbe affibbiare la generica etichetta di “marxismo” a questo ambito culturale; al di là dei luoghi comuni e delle intenzioni dispregiative, se ben intesa, non credo che questa sarebbe alla fine una definizione sbagliata o in contraddizione con le intenzioni di Mazzone. L’importante è intendersi. Se il marxismo è il tentativo di trovare un nesso plausibile tra la riflessione teorica e la sua “traduzione” pratica o, viceversa, di formulare spiegazioni sistematiche e razionali a prassi storiche, sicuramente è questo un contenitore all’interno del quale l’operazione che si sta cercando di mettere in piedi si colloca. Il contesto è quella della complessa mediazione tra teoria e prassi.

In questa prospettiva, una deriva da evitare è il “prassismo”, vale a dire la riduzione della teoria a mera ancella della pratica, a formulazione posticcia e strumentale dell’azione immediata o spontanea dei soggetti politici (del resto non meglio definiti e/o occasionalmente individuati nella contingenza). È una strada esiziale che facilmente degenera nell’opportunismo e nel tatticismo senza strategia (se in qualche modo riesce a darsi una forma organizzata), o peggio in mera manovalanza del nemico se resta informe. L’altro estremo, altrettanto pernicioso, è il teoreticismo fine a se stesso, una turris eburnea fatta di bizantinismi e di un nuovo latinorum che, difficile da leggere, fornisce astratti formulari buoni per i convegni e per confondere le poche buone idee sopravvissute rendendole a loro volta inutilizzabili. 

Il marxismo teorico a cui si ambisce è invece un tentativo di formulazione, evidentemente a partire dalla teoria marxiana del capitale, di un contesto quadro, epocale, di funzionamento del modo di produzione capitalistico. La formulazione del vecchio Moro è rimasta notoriamente incompiuta, ma già in questa sua forma ha dimostrato capacità di previsione che nessun altro apparato teorico è stato in grado di eguagliare. Accontentarsi di questo ovviamente non avrebbe senso, ma ne ha ancora meno gettare alle ortiche quanto di buono è stato fatto e che non è stato superato da altri paradigmi teorici. Ecco, questo è il punto: si ritiene che il paradigma teorico sia solido; di nuovo: incompleto, migliorabile, sviluppabile, ma ciononostante solido nelle strutture portanti. L’associazione muove da questo punto di partenza e, sulla scia della lettura che né ha dato Mazzone, cercherà di orientarsi in due direzioni: 

1) da una parte alfabetizzazione, nel senso di organizzare seminari, progetti, pubblicazioni che non solo non lascino morire questo patrimonio, ma che aumentino il numero di persone che hanno dimestichezza con esso. Infatti c’è una differenza profondissima tra ascoltare Tizio che ti racconta come funziona il capitalismo e studiare con metodo, sistematicità e tempo la teoria marxiana del Capitale. O tra orecchiare che le classi sono in conflitto e studiare il Manifesto. Un processo formativo non può non passare dalla “ri-digestione” personale di un lascito teorico. L’associazione intende creare le occasioni affinché ciò possa accadere, da una parte organizzando seminari di lettura, dall’altra “fidelizzando” chi ha intenzione di imbarcarsi in questa avventura: i pur importanti eventi pubblici saranno relativi a occasioni specifiche, ma nella sostanza si preferirà lavorare con i membri, cioè con coloro che accetteranno il gratificante onere di seguire un percorso in cui ci si sarà da faticare con lo studio personale;

2) dall’altra realizzare/pubblicare ricerche più specialistiche, sempre a partire dal lascito di Mazzone e dagli sviluppi che un certo orientamento degli studi ha avuto in Italia e all’estero. 

Ma non è questa tutta teoria? E la pratica? Questa obiezione è quella ingenua del prassismo, ovvero di chi si illude che qualsiasi tipo di formazione intellettuale debba essere immediatamente spendibile nella mia attività politica di oggi pomeriggio. Invece qui l’obiettivo è sviluppare una serie di nozioni teoriche che permettano di conoscere la “grammatica” del modo di produzione capitalistico. Capirne i meccanismi di fondo è la premessa perché io, oggi, questa settimana, questo mese, riesca a comprendere come ciò che sto facendo nella mia attività politica di ora si collochi in un processo più ampio che ha delle linee di tendenza solo alla luce delle quali posso formulare delle strategie e quindi dare un senso, un orizzonte e un contesto alla mia azione puntuale. Sapere come funziona il corpo umano non cura a priori tutte le malattie, ma dà al medico la possibilità di capire se la persona che gli sta di fronte sta bene o male e di stabilire che cosa è necessario fare per curarla. Le cose non stanno diversamente per chi si prefigge lo scopo di cambiare il mondo per renderlo un posto migliore. Se è sbagliato limitarsi a interpretarlo (il malato non guarisce se non si passa alla cura), è altrettanto vero che senza interpretarlo quanto più correttamente possibile non si riesce a cambiarlo (il malato non guarisce se gli do la cura sbagliata). 

Con tutti i limiti di un’associazione di questo tipo, ci si auspica di contribuire almeno un po’ alla ripresa del dibattito teorico informato e del processo trasformativo della realtà effettuale.

2. Il primo risultato concreto dell’associazione è stata la pubblicazione di una raccolta di scritti di Alessandro Mazzone del periodo 1999-2012 con il titolo Per una teoria del conflitto. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la Rete dei comunisti e raccoglie importanti contributi di carattere teorico-politico in cui l’autore si è sforzato di scendere dal rarefatto mondo dell’astrazione filosofica a quello più concreto e complesso del conflitto storico-politico, di cui la riflessione teorica stessa è parte integrante. Il testo si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo. A conclusione troviamo un importante contributo che getta un ponte tra la riflessione teorico-politica più diretta e la possibilità di un approfondimento di tipo più formale legato alla dimensione filologica della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA2).

Chi fosse interessato al libro o all’attività dell’associazione, può consultare il sito laboratoriocritico.org.


Monday, 2 January 2023

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam! Ratzinger, a Roma via Friburgo di Roberto Fineschi

Originariamente apparso su "Marxismo oggi", 2005/2

 

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!

Ratzinger, a Roma via Friburgo



Glauben heißt nichts anderes

als die Unbegreiflichkeit Gottes

ein Leben lang auszuhalten



1. Il “pastore tedesco”


L’evento è stato mondiale, oggi più che in passato. L’esposizione mediatica cui la Chiesa Cattolica (d’ora in poi CC) è stata sottoposta sotto Giovanni Paolo II ha reso l’elezione pontificia un fatto più internazionale che mai. Chi gode della parabola o delle fibre ottiche avrà ammirato in varie lingue – dall’inglese al francese, passando per il tedesco – agonia e funerali del fu regnante, preparativi ed elezione del nuovo: una vera e propria ubriacatura eterea.

Della concezione politico-sociale di fondo – o della Dottrina Sociale che dir si voglia – della CC si è già detto in passato (vedi Contraddizione, n. 77), vediamo che riflessioni si possono fare oggi a proposito del nuovo pontefice: Joseph Ratzinger. Il “pastore tedesco”, come è stato beffardamente ma efficacemente battezzato dal quotidiano “Il manifesto”, ha sfatato la consuetudine per cui chi entra papa esce cardinale; dato per vincente dai bookmaker, ha pagato poco chi ha scommesso su di lui: entrato papa è uscito papa col nome di Benedetto XVI.

Nato in Baviera nel 1927 in una famiglia profondamente cattolica da padre gendarme, non è tuttavia filo-nazista – così si legge nella sua autobiografia1 – anzi vive con apprensione l’entrata in guerra e la politica espansionistica hitleriana. Non ancora diciottenne, Joseph prenderà parte al conflitto nella contraerea – ma lui non spara – quando l’esercito tedesco era arrivato ad arruolare perfino i ragazzini. Studia teologia e si fa la fama di “liberal”, tanto che, giovanissimo, partecipa al Concilio Vaticano II come consulente del cardinal-arcivescovo di Colonia Frings; i buontemponi in rosso lo battezzano bonariamente il “teenager” in quanto, allora poco più che trentenne, tale sembrava in mezzo a tante cariatidi. Il “’68” rappresenta però una svolta decisiva nella sua vita, soprattutto nell’atteggiamento; il nostro rimane infatti scioccato dalla “violenza” e dal relativismo del movimento studentesco. Alla ZDF – la televisione di stato tedesca dove avevano già pronto un film sulla storia del neopontefice la sera stressa dell’elezione! – in un’intervista ad un testimone si dice che rimase scioccato dall’irruzione in aula di un gruppo di studenti, nel corso di una manifestazione, che gli tolse parola e microfono. Soprattutto che la CC fosse vista con il baluardo del “vecchio” da spazzare via lo colpì profondamente; l’acme di questo travaglio fu raggiunto quando su di un muro lesse: “Cristo è mio nemico”.

Lo sviluppo successivo della sua carriera ci porta ai giorni nostri: pubblica come teologo da posizioni sempre più rigide, tanto che lo stesso Paolo VI – entrato in conclave progressista, uscito conservatore2 – nel 1977 lo fa arcivescovo di Monaco e l’anno successivo cardinale. Nel 1981 si ha il penultimo decisivo passaggio: prende il timone del Sant’uffizio, edulcorato oggi in Congregazione per la dottrina della fede, che guida fino al momento in cui sale – a furor di conclave: pare abbia preso 95 voti su 115 disponibili – al soglio col nome di Benedetto XVI.



2. Il background dell’elezione. Il paladino della conservazione


Se non è qui possibile dire adeguatamente del papa precedente, si potrà almeno notare che, al di là della celebrazione mediatica, Giovanni Paolo II non passerà alla storia per essere stato un papa progressista.3 Eletto col precipuo scopo di lottare contro il comunismo, sotto il suo pontificato la CC ha registrato un progressivo arroccamento su posizioni ultratradizionaliste. Questo lo si poteva capire anche solo guardandogli intorno: fra i suoi supporter principali figurava l’Opus Dei – la assai discussa organizzazione spagnola filo-franchista, critica radicale del Concilio Vaticano II simbolo dello sbando della chiesa contemporanea –, oppure dall’identikit dei collaboratori che si è scelto, uno per tutti: il Segretario di Stato, cardinal Sodano, amico intimo del caro Pinochet. Per non dire poi degli scandali politico-finanziari legati allo IOR – la banca vaticana – su cui la Santa Sede ha impedito di indagare ulteriormente.

Fra questi collaboratori, fra le figure di primissimo piano, spiccava il cardinale Joseph Ratzinger che, come si è detto, fu messo a capo di uno dei dicasteri chiave, diciamo l’officina ideologica di Santa Romana Chiesa, il Sant’uffizio. Se si prendono come pietra di paragone alcune delle soluzioni più innovative del Concilio Vaticano II si ha un’idea della chiusura che si è avuta in tempi recenti: di fronte alla auspicata collegialità nella gestione della CC si è avuto un accentramento sempre più forte del potere nelle mani del solo pontefice – o di chi lo esercitava al suo posto considerate le sue condizioni negli ultimi anni di regno; a dispetto dell’auspicato maggior peso dato ai laici non si sono visti passi significativi in questo senso; se poi per l’ecumenismo qualcosa si è fatto, si è fatto anche contro con i tentativi di proselitismo nella Russia dei fratelli ortodossi e soprattutto col documento ufficiale della ratzingeriana Congregazione per la dottrina della fede – Dominus Jesus – in cui si riafferma l’extra ecclesiam nulla salus, o al divieto delle Eucaristie comuni con i protestanti. Se guardiamo alla liturgia ed alle sue forme, recenti sono i divieti – a dire il vero poco o per nulla rispettati nelle parrocchie – contro l’uso delle chitarre alla messa, contro le derive dalla liturgia canonica, contro le ragazze chierichetto che potrebbero far cadere in tentazione il prete che celebra. Tale sessuofobia di stampo tridentino riemerge d’altronde nella condanna delle pratiche sessuali prematrimoniali, nel divieto della contraccezione – con le criminali conseguenze che questo comporta per es. in Africa a proposito del contagio di massa da AIDS – e degli omosessuali è meglio non parla proprio. E via dicendo: niente matrimonio per i preti, pur non esistendo nessun vincolo evangelico al proposito, e le donne in casa a fare la calza, Maria come modello. Ratzinger in persona non ha mai visto di buon occhio neppure che siano stati girati gli altari – notoriamente prima del Concilio Vaticano II il prete dava le spalle alla comunità – né l’abbandono del latino come lingua liturgica; a molti non sarà sfuggito che la messa funebre di Giovanni Paolo II è stata detta in tale affascinante lingua morta. Per chi non lo sapesse, poi, il dogma dell’infallibilità ex cathedra del papa quando si pronuncia su questioni di dottrina è relativamente recente, è stato cioè sancito nel corso del Concilio Vaticano I, da Pio IX nel 1871, mentre l’esercito italiano entrava a Roma ponendo fine al potere temporale dei papi. Tale atto “progressista” è stato recentemente rafforzato attraverso l’estensione dell’infallibilità a questioni di dottrina “ordinaria” – motu proprio papale Ad tuendam fidem (1998) –, a testimoniare come la centralità teologica e politica del papa sia un elemento tutt’altro che secondario agli occhi di chi oggi in Vaticano comanda (quindi alla bella faccia dell’ecumenismo e della collegialità della gestione della chiesa). Infine solo una menzione alla Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede del gennaio 2003 ai cristiani in politica; in essa, al di fuori di ogni tentativo di condizionamento, si dice categoricamente che cosa essi devono fare per comportarsi correttamente.

Molte di queste decisioni sono state prese direttamente, o indirettamente influenzate, dall’allora cardinal Joseph Ratzinger. 4

Per riprendere lo schema tracciato da Gramsci nei Quaderni dal carcere, il potere Vaticano si divide grosso modo in tre correnti: i modernisti, che, detto più che sommariamente, cercano di “aggiornare” la dottrina cattolica in senso appunto “moderno”, ossia legato ad una fede più riformata che controriformata; gli integralisti, legati al neotomismo che si rifanno al Sillabo di Pio IX, alla chiusura radicale alla “modernità” (ossia ai principi democratici introdotti a partire dalla Rivoluzione francese); ed i gesuiti nel mezzo che utilizzano passato e moderno a seconda delle circostanze per mantenere il controllo fattuale del potere. Come atteggiamento esemplare di questa politica realistica Gramsci indica l’operato di Pio XI che, per quanto dottrinalmente non si distacchi dai suoi intransigenti predecessori, usa l’Azione cattolica e diversi elementi “popolari” per recuperare il terreno perduto dalla “cultura” cattolica in alcuni decenni di cieca chiusura.5

In questo conclave il rappresentante “modernista” era il cardinal Martini, che aveva recentemente parlato della necessità di un Concilio Vaticano III, di libertà per i preti di scegliere se sposarsi o meno, di collegialità nella gestione della Chiesa. Proprio Ratzinger ha commentato che poiché già sui risultati del Concilio Vaticano II era ancora necessaria una “profonda riflessione”, di un terzo non se ne vedeva francamente la necessità. Le serie preoccupazioni legate all’elezione di un papa che si presenta come il baluardo della conservazione sono state al centro di tutti i dibattiti televisivi su CNN, BBC, France 5 e ZDF – sulla RAI si sono trasformati in accenni fra le laudi, anche su questo piano gli ultimi della classe.

Sarà un papa della continuità nel segno della conservazione? Così si annuncia, ma solo i fatti ce lo diranno. Le premesse sono quelle dette.



3. Il cristianesimo secondo Ratzinger


Se questo è il quadro in cui inizia il pontificato di Benedetto XVI , ci si può legittimante chiedere quale sia la concezione del Cristianesimo e della Chiesa che ispira la sua azione. Assai chiarificatore risulta in questa direzione un testo del neopapa, la sua (relativamente) celebre Introduzione al Cristianesimo, scritta nel 1968, tradotta in varie lingue e più volte ristampata. Come si vedrà, se la dottrina ufficiale della CC è ad oggi quella di San Tommaso, essa si integra bene qui con le correnti di pensiero più attuali ed entra a pieno titolo, per questa via, nella lotta delle idee contemporanea. Premetto che, a mio modestissimo parere, Ratzinger non passerà alla storia della speculazione mondiale. Posso sbagliare, ma la sua riflessione, come avrò modo di mostrare successivamente, su molti punti decisivi sembra fare acqua o prestare il fianco a obiezioni forti. Ciò detto, questo poco cambia al peso storico-politico che simili prese di posizione possono avere grazie proprio all’attività pratica del nostro. Non è neppure detto che lui riesca ad attuare le sue idee, la storia è beffarda in questo senso, ma capire come la vede può aiutare a interpretare meglio quello che fa.

Il caso ha voluto che il volume in mio possesso,6 che ho acquistato in una libreria dell’usato, sia stato regalato dall’Autore medesimo a chissà chi nel lontano 1978. Sul retro della copertina si può leggere la dedica autografa che sintetizza efficacemente la sua concezione del Cristianesimo: “Credere non significa altro che sopportare l’ineffabilità di Dio per una vita intera”.7 Il resto del paragrafo sarà dedicato alla spiegazione di questa frase.


A. Tragicità dell’esistenza dell’uomo ed irriducibilità del dubbio

Ratzinger non è un ottimista. Significativamente la premessa al libro si apre con la seguente frase: “La questione di quale sia il contenuto ed il senso del credo cristiano è, oggi come mai prima nella storia, avvolta da una nube di incertezza” (p. 5). Ed assai più cariche di tragicità esistenziale sono le immagini evocate per descrivere la condizione del credente: un uomo aggrappato all’albero maestro di una nave che si inabissa nell’oceano in tempesta; è il simbolo dell’uomo attaccato alla croce, ma la croce non è attaccata a niente, pencola sul baratro del nulla (p. 16). Le immagini sono suggestive e romantiche, la fede appare non come un credo quia absurdum perché l’assurdità sarebbe già un punto fermo: è un credo nonostante tutto o meglio nonostante il nulla. Questo avvio non è casuale ed esplica pienamente l’attitudine del nostro: la fede non è pacificante, ma è una continua scelta di fronte all’abisso del nulla. L’uomo che sta per essere inghiottito dal nulla si aggrappa alla croce e da essa cerca senso e salvezza, ma niente garantisce razionalmente la saldezza della croce sul baratro.

Questa condizione di incertezza è dichiarata comune al credente ed al non-credente, infatti nessuno dei due può escludere categoricamente che non possa essere l’altro ad avere ragione. Alla fine entrambi fanno una scelta di fronte all’incertezza assoluta del reale: “Il «forse» è l’ineludibile confutazione, a cui non ci si può sottrarre, in cui anche egli [il non-credente], nel rifiuto, fa necessaria esperienza dell’irrifiutabilità del credere. Detto diversamente: il credente e il non-credente sono entrambi partecipi, ognuno a suo modo, del dubbio e della fede, se non si nascondono a se stessi ed alla verità del loro essere. Nessuno dei due può eludere completamente il dubbio o la fede; per l’uno la fede è presente contro il dubbio, per l’altro essa è presente attraverso il dubbio e nella forma del dubbio. Questa è le condizione fondamentale del destino umano…” (p. 19).


B. Esperibilità di Dio e fede

La realtà del mondo è il nulla e Dio non vi è esperibile, questo è il fondamento del dubbio: Egli non appartiene alla dimensione del visibile e del toccabile, è invece ad essa alieno in linea di principio, non meramente in chiave cronologica o topica. La prospettiva della fede è un “rovesciamento” di quella sensibile, esperibile: “L’uomo è essenza che guarda, alla quale lo spazio della sua esistenza appare delimitato dallo spazio della vista e del tatto. Ma in questo spazio della vista e del tatto, che determina l’essere-in-luogo dell’uomo, Dio non lo si trova e mai ve lo si troverà per quanto questo spazio possa essere allargato … Dio non è semplicemente adesso, fattualmente, al di fuori del campo visivo, ma è colui che non si sarebbe capaci di vedere neppure se fosse possibile andare oltre; no, egli è colui che sta per essenza al di là, per quanto il nostro campo visivo possa essere allargato” (pp. 21s.). Quindi credere significa che il campo dell’esperibile non può essere considerata la totalità dell’esperienza umana. L’opzione per la fede è ritenere che “ciò che non è possibile vedere, che in nessun modo può entrare nel campo del visibile, non sia il non-effettuale, il non-reale, bensì, al contrario, [la fede è ritenere che] ciò che non si può vedere rappresenti addirittura il vero effettuale, il vero reale, ciò che fa da sostrato e rende possibile ogni realtà effettiva … Tale atteggiamento è raggiungibile invero solo attraverso ciò che in linguaggio biblico si chiama «mutamento» [Umkehr], «conversione» [Bekehrung]” (p. 22). Poiché questa inversione vive essenzialmente nelle condizione del dubbio e dell’insicurezza, la fede è un sempre ripetuto salto nel baratro, nell’abisso.

Il problema del rapporto fra tradizione e progresso, topico nel ’68 innovatore, è quindi non una falsa questione, ma quantomeno secondaria, che rischia di distogliere dal punto vero e proprio. Di fatto in qualunque fase della storia dell’uomo la condizione è sempre quella dell’incertezza ed il nuovo non dà alcuna garanzia di maggiore sicurezza. La tradizione ha al contrario la forza della pratica abitudinaria e della consuetudine. Un tempo la tradizione era il saldo punto di riferimento, ritenuto in quanto tale una sicurezza, il ’68 – e più in generale la modernità – vuole invece il progresso. La teologia cattolica – a dire il vero Ratzinger rimanda a se stesso in nota – tende sempre più a leggere la tradizione come la vera nuova forma di progresso.


C. Per una storia del pensiero moderno

Poste tali premesse, Ratzinger cerca di tracciare un rapido schizzo dello sviluppo degli atteggiamenti filosofici principali della storia del pensiero. In particolare l’attenzione è volta al rapporto fra Essere immutabile [Stehen] e Realtà effettuale [Wirklichkeit], che è cambiato nel tempo.

L’antichità è il periodo in cui si studia la natura dell’essere, l’ontologia, ciò che è tale perché immutabile nel suo essere. Il transeunte ha valore metafisico secondario. La scienza dell’eterno è episteme, conoscenza in senso forte, ciò che viene fatto è competenza invece della tecne che non è scienza vera e propria. Lo storicismo rappresenta il primo drastico cambiamento di prospettiva e lo si fa risalire a Vico per la teoria secondo cui “il vero è il fatto”. Attenzione al fatto che si può conoscere perché è l’uomo che lo ha posto in essere. Prima invece era l’essere il concetto centrale (p. 29). Con la matematizzazione della riflessione si afferma pienamente la mentalità della misurazione propria dell’epoca contemporanea. Risalire alla causa. Per questo la teoria del fatto dà conoscenza effettiva perché in questo ambito possiamo risalire alla causa e la conoscenza della causa è la unica conoscenza effettiva. Nell’oceano del dubbio, il fatto rappresenta il nuovo punto fermo per la costruzione dell’esistenza umana. Così la storia sta accanto alla matematica ed è adesso l’unica vera scienza. Tutto diventa storia, Hegel per un verso, Comte per un altro trasformano perfino l’essere in un processo storico. Marx l’economia, Darwin l’evoluzione.

Il secondo cambiamento drastico avviene con l’avvento del pensiero tecnico. Non più il fatto, ma ciò che deve essere fatto, il faciendum è il nuovo fondamento ontologico (emblema di questa concezione è la Tesi 11 di Marx). Dice Ratzinger: “La verità con la quale ha a che fare l’uomo non è né la verità dell’essere né alla fine quella delle sue azioni passate, bensì è la verità del cambiamento, della formazione del mondo, una verità riferita al futuro ed all’azione” (p. 32). Questo porta dal dominio della storia al dominio della tecnica. Poiché la ricerca della verità dei fatti non sembrava supplire alla verità speculativa, allora non si credette che alla verità delle cose che si possono ripetere. Il modello scientifico dell’esperimento e della ripetibilità misurabile, unione di fatti e matematica è il nuovo criterio assoluto di verità.

In questo quadro Ratzinger si chiede quale sia il posto della fede. In primo luogo la teologia ha sbagliato nel seguire la riflessione su questo terreno, mettendo la fede sul piano storico. Poiché la crisi dello storicismo ha deluso anche le aspettative di una interpretazione storica della fede basata sulla conoscenza dei suoi presupposti storici, si è cercato di rifugiarsi nella dimensione del faciendum con la Teologia della liberazione che quindi condivide la stessa erronea illusione della modernità, ovvero cercare Dio nel mondo reale, presente o futuro che sia, con mezzi oggettivi.8


D. Le vie della conoscenza e la scelta decisiva

Al rapporto sapere/fare, proprio dell’impostazione storicistica e tecnicistica, Ratzinger contrappone quello essere immutabile/capire [Stehen-Verstehen]; non è detto che le due coppie siano antitetiche, ma sono certo distinguibili. Infatti, già l’ellenismo ebbe la tendenza erronea ad intellettualizzare la fede: “La fede verrebbe intellettualizzata, invece di esprimere l’essere immutabile sul saldo fondamento della fidata parola di Dio, essa viene messa in relazione col comprendere intellettuale e con l’intelletto e con ciò sviata su un piano assai diverso e del tutto inadeguato … la fede è infatti il consegnarsi al non-fatto-da-sé e mai fattibile, che proprio per questo fa da fondamento e rende possibile tutto il nostro fare” (p. 37).

Si rende chiaro a questo punto quando fino ad adesso era implicito sullo sfondo, ma già palese probabilmente agli addetti ai lavori: si rimanda alla distinzione heidegeriana fra pensiero calcolatore e pensiero della coscienza. Il primo è quello del calcolo e del Faciendum, il secondo è quello del Senso dell’essere. I due sono paritetici ed alternativi e si aderisce ad uno o all’altro per scelta; la fede è naturalmente legata al secondo. Quindi “ogni uomo deve, in una qualche forma, prendere posizione nell’ambito della decisione fondamentale e non si può che decidere in base al proprio credo. È un campo che non ammette risposta diversa da quella di un credo ed è proprio questo che nessun uomo può aggirare. Ogni uomo deve, in un qualche modo, «credere»” (pp. 38-39). Che cosa è allora la fede, veramente? La risposta ormai è chiara: è un modo di stare la mondo non riducibile al sapere; c’è un qualcosa che precedere non solo la conoscenza, la lo stesso fare dell’uomo, un fondamento, un senso che lui riceve come dato e che come tale non può essere conosciuto attraverso il sapere e il fare (p. 39).

Ciò detto, Ratzinger vede profilarsi una possibile critica di irrazionalismo: se pr scegliere fra conoscenza razionale e conoscenza intuitiva non esiste criterio alcuno, giustificazione dimostrabile possibile come dire che è in qualche modo razionale decidersi per la fede? Bisogno allora mostrare come la fede abbia delle ragioni o meglio come essa sia intrinsecamente logos, senso, fondamento, anche se ciò non sta sul piano della conoscibilità razionale, bensì su quello del senso che si dà (p. 41). Credo – Amen è tutta la struttura fondamentale della professione di fede apostolica – il testo che agli occhi di Ratzinger esprime il cuore del cristianesimo. La ricerca che si basa invece su ciò che può essere fatto finisce sempre per rimandare alla misurabilità ed al dato quindi non cerca la Verità, il Senso, ma la giustezza e la correttezza. Non cerca l’in sé, cerca il per noi. Al posto della ricerca dell’essere subentra la ricerca dell’utile. Invece il concetto di verità prende le distanze da quello di calcolabilità: Verità, senso, fondamento, logos, questo è il fondamento della fede. Questa forma altra di comprensione la si chiama Verstehen, capire: “La forma in cui l’uomo riceve il suo rapporto con la verità dell’essere non è il Sapere, ma il Capire: Capire il Senso a cui ci si è affidati. E invero si dovrà aggiungere che solo nell’essere immutabile [Stehen] si apre il Capire [Verstehen], non al di fuori di esso. L’uno non si dà senza l’altro, poiché Capire significa cogliere e comprendere il Senso, che si è ricevuto come fondamento, come Senso vero e proprio. Penso che questo sia il significato preciso di ciò che chiamiamo Capire: che noi impariamo a cogliere il fondamento, sul quale ci siamo posti, come il Senso e la Verità; che noi impariamo a conoscere che il fondamento rappresenta il Senso” (p. 43). Così la tecnica non può ottenere quello che può invece il discorso su Dio, discorso che capisce, che è capace del logos, quindi razionale; tale discorso è la teologia e questa razionalità è il diritto dei greci nel cristianesimo.

E. La Chiesa

Fondata la fede è giunto il momento di fondare la chiesa. Di nuovo: il modo per entrarvi e la “svolta”, la Kehre la cui paternità viene attribuita esplicitamente a Heidegger. La professione di fede apostolica è la formula che al meglio esprime lo spirito della chiesa e di questa svolta: struttura dialogica che implica l’accettazione di un dato; la fede viene dall’ascolto della parola donata, la filosofia dal riflettere (pp. 51-53). E la collettività e la dialogicità sono tanto più necessari quanto non tutti hanno un accesso privilegiato a Dio, quelli che non ce l’hanno abbisognano di colloquiare con gli illuminati per godere almeno di luce riflessa. Questo insieme è la chiesa e solo come tale essa corrisponde alla struttura dialogica della fede (p. 55). Se tutti fossero mistici non ci sarebbe bisogno del dialogo, invece alcuni Dio non lo vedono direttamente. La comunità è quindi il cammino dell’uomo verso Dio, un cammino che l’uomo può e deve percorrere e che, come mera conoscenza, non avrebbe forza.

Per sintetizzare: 1. la condizione dell’uomo è quella nichilistica della distuzione di tutti i valori, la realtà è l’abisso del nulla; 2. questa condizione è comune a tutti, non esiste alcuna forma di conoscenza razionale che possa cogliere il senso di questo nulla, il dubbio assoluto è quindi anche dell’ateo sul suo ateismo; 3. esiste però una via che si vuole arazionale – non irrazionale – per cogliere il fondamento, quella dell’ascolto della parola, del mistero che si rivela al di fuori delle vie conoscitive moderne (distinzione fra comprensione via calcolo e via coscienza che sono fra loro sostanzialmente alternative, irriducibili e avrebbero all’inizio pari validità conoscitiva; ci si professa per una delle due per fede, ma poi in realtà la seconda è quella autentica); 4. l’ascolto di questa parola diventa il fondamento della realtà effettuale, ma non per via dimostrativa, piuttosto per comprensione nella comunità cristiana della verità di quel messaggio attraverso il convincimento fondante; si vorrebbe poi questo convincimento “razionale”.



4. Heideggeriani alla riscossa

In Vaticano è sovrano un heideggeriano. Questa sorprendente conclusione alla fine non è neppure tanto strana e mostra una volta di più come il pensiero del filosofo tedesco si presti un po’ a tutti gli usi; questo, del resto, non tanto per la malafede o tendenzionsità di chi lo legge, quanto per la sua intrinseca natura. Infatti, se l’essere che si svela celandosi lo chiamiamo Dio, se la tradizione che accettiamo come manifestazione dell’essere è quella cattolica, il discorso fa poche pieghe. C’è poi l’ascolto della Parola, la svolta, la critica della conoscenza scientifica, ecc. ma la faccio breve, soprattutto perché non mi interessa mostrare nei dettagli che Heidegger sia la fonte ispiratrice di questa concezione, del resto l’autore stesso non pare farne mistero. Mi pare più interessante invece mostrare come questo messaggio, benché suggestivo, non si sottragga a critiche che si possono esprimere anche in parole povere e che forse ha qualche senso sottoporre all’attenzione del lettore.


Ad A. Che un approccio esistenzialista radicale sia quello più idoneo per comprendere il posto dell’uomo nella realtà mi pare tutt’altro che scontato, soprattutto tutte da discutere sono le premesse implicite in tale atteggiamento. Tanto per iniziare lo “uomo in generale” non esiste; solo da tempi relativamente recenti infatti questa categoria è emersa nel pensiero occidentale. Se nasce col Cristianesimo – tutti siamo figli di dio – solo con la Rivoluzione francese diventa legge di Stato – senza scordarsi, fra l’altro, che la schiavitù è stata abolita in svariati luoghi successivamente a questo evento. La domanda fondamentale dell’uomo quindi varia da periodo storico a periodo storico e lo stesso soggetto che se la pone non è mai l’uomo in generale, ma un francese, un italiano, ecc. che vive in un determinato momento. Questo non significa d’altra parte abbandonarsi ad un relativismo assoluto, infatti questi diversi periodi possono essere pensati come aventi delle leggi di funzionamento specifiche che è possibile ricostruire (questo se non altro è l’oggetto della filosofia di Hegel e di Marx). Proprio perché possiamo definire obiettivamente diversi periodi storici, si può sostenere che l’uomo in generale possa essere pensato come astrazione che però si attua sempre in condizioni sociali determinate. Invece di tenere insieme Universale e Particolare (l’uomo in generale come risultato di processi sociali storicamente determinati), l’heideggerismo tende a separarli e ad affermare da una parte il relativismo assoluto delle condizioni, dall’altra l’assolutezza del fondamento al di fuori di esse. La tragicità esistenzialista nasce proprio dalla pretesa fissità di questa scissione. Il problema filosofico vero è elaborare delle teorie del processo storico, non dire semplicemente che le cose cambiano (questo sarebbe il processo storico) ed angosciarsi nel cambiamento alla ricerca di un punto fermo (pretendendo fra l’altro che tale angoscia personale sia la condizione universale dell’uomo).

L’altro punto centrale è quello del “forse”: non si può escludere che il credente abbia ragione. Ma qualcuno avrebbe risposto: “ignorantia non est argomentum”, ovvero: il fatto che una cosa non si possa escludere non significa che sia un qualcosa di reale, tanto meno che possa essere fondamento di alcunché. Perché possa essere ritenuta fondamento bisogna mostrare perché. È, al solito, il tentativo irrazionalista di nullificare le capacità conoscitive umane sancendo l’impotenza della ragione. Ma il fatto che non si sia mai finito di conoscere e che determinate tesi siano sempre sottoposte – e necessariamente da sottoporre – a verifica è una garanzia della capacità critica della ragione, non della sua impotenza. Dire che una tesi non è vera perché di essa si può dubitare (senza dire perché ed in relazione a quali elementi concreti) è un po’ da sciocchini in verità e non sottrae dall’obbligo – come si pretenderebbe – di dimostrare le tesi alternative, che non possono certo essere prese per buone solo perché sono al momento astrattamente ammissibili.


Ad B e D. A questa controcritica si cerca di rispondere attraverso la tesi per cui Dio non sarebbe conoscibile sul piano dell’esperienza, anzi ne sarebbe alieno in linea di principio. L’argomento va spesso insieme alla distinzione fra due vie della conoscenza, quella della razionalità, su cui si appiattisce indistintamente il calcolo matematico, la misurabilità scientifica ed il ragionare umano in genere, e la via della coscienza e dell’esperienza vissuta. Questa due vie sarebbero di fatto alternative e porterebbero a risultati conoscitivi diversi e contrapposti. Solo la via della coscienza porterebbe alla conoscenza effettiva del fondamento, che, fra l’altro, viene concepito come fisso ed immutabile.

Anche senza citare Hegel, per cui il vero ateo è quello che afferma che dio non è conoscibile (razionalemente), si può guardare con un certo scetticismo una tesi che spezza in modo così radicale non solo fede e sapere, ma capacità intellettuale e conoscenza immediata. Ma ancora più importante è rendere noto che gran parte della storia della filosofia è consistita nel tentativo di mostrare come le due dimensioni siano tutt’altro che antitetiche e che anzi facciano parte di un’organica via alla conoscenza anche se con delle distinzioni, che però sono di grado e non assolute. Solo con l’irrazionalismo – una delle tendenza più retrivamente reazionarie del mondo moderno e contemporaneo, sempre risorgente nelle forme più svariate – questa scissione viene presa per radicale proprio per ridimensionare le possibilità – democratiche e progressive alla fin fine – della conoscenza razionale. Hegel, al solito, dà il posto che compete alla conoscenza immediata, intuitiva; afferma solo che sbagliato è pretendere che essa sia quello che non è, ovvero conoscenza razionale, dimostrativa (che non significa matematizzabile, si chiamerebbe dialettica). Perché in realtà la pretesa ratzingeriana è doppia: da una parte si dice “questa è la verità” e dobbiamo prenderla per buona, dall’altra ci si esime elegantemente dall’onere di dimostrare perché dicendo che non è possibile. La verità resta però quella, perché la sento come tale. Ma come può essere universale ciò che sento io? Come posso stabilire che sia quello che sentono anche gli altri? E come sindacare se quello che sento sia vero o falso, giusto o no? Non esiste alcuna via percorribile e quindi si apre la strada all’affermazione arbitraria di concezioni del mondo, talvolta divine, talvolta ultramateriali. Con quali mezzi ad esempio confutare le tesi naziste? Se loro si sentono così e il piano dialogico della discussione/dimostrazione è espunto in partenza… non resta che picchiarsi.

L’altro errore/sciocchezza è che la ragione sia meramente meccanica e strumentale e che neghi il sentimento dell’uomo, parte integrante della sua essenza che quindi va recuperato. Ma in realtà sempre Hegel distingueva efficacemente e in modo lungimirante fra un approccio strumentale della ragione, che egli chiamava dimensione intellettuale del sapere (quella fra l’altro delle scienze empiriche che non è solo utile, ma legittima e necessaria al sapere nel suo complesso, ma che non esaurisce il concetto di ragione come tale), la cultura dell’immediato che pretende di conoscere Dio attraverso la legge del cuore e la ragione vera e propria, ovvero il discorso razionale, dialettico, sulla realtà (approccio che non pare poi così diverso, ad es. dal procedimento aristotelico di discussione degli endoxa). Il ratzingerismo invece fa sparire tendenziosamente questa terza dimensione e riduce la ragione a mera ragione strumentale; ciò non è casuale ovviamente: si vorrebbe con ciò far credere cioè che alla “ragione” – ridotta a calcolo tout court – c’è una sola alternativa possibile, la legge del cuore; scartata la conoscenza razionale (ma in realtà intellettuale) l’unica alternativa sarebbe l’irrazionalismo mistico cotto in varie salse. Ahiloro, non è così: c’è anche la dialettica.

D’altronde, il tentativo di Ratzinger di recuperare una dimensione razionale a tale approccio irrazionalistico attraverso il Verstehen, ovvero dicendo che la fede rappresenterebbe il vero logos, appare in verità piuttosto verbalistico soprattutto perché non si capisce in che cosa dovrebbe consistere la razionalità della cosa.


Ad C. Per la sua sommarietà ed il suo schematismo, la ricostruzione storiografica non meriterebbe in verità molti commenti e, a mio modesto parere, vale poco e si spiega tutta con la prospettiva gnoseologica sopra evidenziata. Ciò che fa emergere è il suo carattere esistenziale e la sua preoccupazione classista. Ratzinger ha paura delle cose che cambiano, più ferme stanno meglio le controlla. Quindi tradizione è sinonimo di sicurezza, di stabilità. Il marxismo, per prenderne una a caso, e tutte le filosofie che teorizzano il cambiamento sono quindi da condannare. Non bisogna cambiare ma ascoltare il fondamento che ha già parlato attraverso la tradizione. In realtà questo tipo di approccio è quello veramente positivista perché la realtà va accettata per come è e quindi i fatti come sono rappresentano l’assoluto che si è manifestato. In ogni caso, benché all’inizio si fosse detto che si trattava di un credo, che non si può dire quale sia la scelta giusta, ecc., una volta che ha scelto Ratzinger è abbastanza deciso nell’affermare la sua fede. Perché più ci crede più essa è vera.

Per menzionare solo due punti discutibili fra i molti, ci sarebbe da notare che la distinzione fra i due tipi di conoscenza che Ratzinger riprende da Heiddeger (calcolatrice e coscienziale) trova un assai significativo antecedente nella celebre distinzione operata da Dilthey fra conoscenza del mondo naturale e conoscenza del vissuto storico al quale Heiddeger stesso rimanda esplicitamente. Il caso vuole che Dilthey sia considerato quasi unanimemente il padre, o uno dei padri, delle Storicismo tedesco, sì, proprio del tanto deprecato storicismo di cui il ratzingerismo, piegandolo esistenzialisticamente, finisce per essere una delle tante varianti. E mi pare curioso anche mettere in luce come, nel tentativo di elaborare una filosofia radicalmente antipositivistica e per certi aspetti non lontana dall’heiddegerismo, la filosofia dell’atto di Gentile prenda le mosse esattamente dall’assunto vichiano per cui la “verità è il fatto”, principio in cui Ratzinger vede l’origine del positivismo (senza entrare nel merito della legittimità dell’interpretazione gentiliana di Vico). Forse un’analisi più attenta almeno di questi punti era consigliata.

Due parole infine sul fatto che Ratzinger torni spesso su termini che hanno a che fare col “rovesciamento” dell’approccio sensibile alla realtà, come Kehre, Bekehrung, Umkehr. Alcuni lettori ricorderanno che l’attacco radicale che risale a Feurbach – e che Marx farà suo – del misticismo che lui credeva di Hegel (e che forse più propriamente apparteneva alla destra hegeliana) consisteva proprio nel “rovesciarne” [Umkehrung] la prospettiva: prima il reale poi l’ideale, prima la realtà poi le idee, prima il sensibile poi l’astratto. Questa auspicata nuova “svolta” pare proprio il tentativo di tornare ad un approccio mistico, di cancellare in un sol colpo non solo la dialettica, ma anche i progressi del materialismo “volgare”.


Ad E. Si trova poi anche il modo di garantire la gerarchia ecclesiastica travestendola da comunitarismo: proprio perché alcuni sanno meglio ed altri peggio è necessario che questi si parlino; se tutti sapessero potrebbero evitare di parlarsi. Ma parlarsi è bello ed avvicina a Dio e quindi l’ineguaglianza gnoseologica costituisce il fondamento della struttura gerarchicamente comunitaria della Chiesa; naturalmente non si deve far altro che rispettare tale struttura, altrimenti finisce il dialogo salvifico fra uomini e uomini e Dio.


* * *


Adesso sappiamo perché il nuovo papa è attaccato alla tradizione e vede nel cambiamento un pericolo, nella conservazione la salvezza. Sappiamo anche come mai è profondamente pessimista, perché il fondamento di tutto è indimostrabile e crederci è atto da rinnovare continuamente sull’abisso del nulla.

Più in generale si può osservare che l’avversione al Vaticano II ed alla modernità in genere ed il ritorno al cattolicesimo della controfirma, del Concilio di Trento hanno fatto un salto in avanti: se i teologi antiliberali di fine ‘800 inizio ‘900 riproponevano ad oltranza la dottrina di San Tommaso contro il mondo moderno, adesso la reazione, anche quella cattolica, ha nuove armi, ovvero ha messo insieme un certo tipo di scolastica con l’esistenzialismo e l’irrazionalismo, ha dato veste contemporanea a cose vecchie e vecchissime, ha confuso la gioia e la speranza del messaggio cristiano con la paura del nulla, per venire a Roma è passata da Friburgo.9



1 Appena la nuova edizione: J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005. Per un profilo più breve vedi anche Joseph Ratzinger, Der konservative Sinnstifter, sulla “Frankfurter Allegemeine” del 20 aprile e Josef Ratzinger, le gardien de la doctrine, su “Le monde” del 21/4.

2 Cfr. G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia Repubblicana, 2**, Torino, Einaudi, 1995, pp. 299ss.

3 Lo si evince persino leggendo a campione, con un minimo di spirito critico, la monumentale biografia agiografica scritta da Gorge Weigel – Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, Milano, Mondadori, 2001. Lo spessore reazionario del suo pontificato emerge se non altro dal tentativo dell’autore di eludere come “inadeguata” la distinzione fra destra/sinistra, conservazione/progresso.

4 Dal recente libro di Giancarlo Zizola – esperto conoscitore di cose vaticane, sincero cattolico che si potrebbe dire senz’altro modernista – emerge chiara la preoccupazione legata a certe scelte filotradizionaliste ed anticonciliariste di Giovanni Paolo II. In tutti questi casi appare chiaro che il movens delle prese di posizioni papali è Ratzinger che viene più volte di fatto presentato come il protettore più estremo non della tradizione ma del tradizionalismo tridentino in Vaticano. È il nome più citato nel capitolo “Le sacre rivincite della Restaurazione”. Cfr. G. Zizola, L’altro Wojtyla. Riforma, restaurazione e sfide del Millennio, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.

5 Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975, pp. 2088ss. Non si parlerà qui del relativo declino dei gesuiti e dell’emergere di formazioni assai più minacciose considerandone il cieco integralismo come ad es. la menzionata Opus Dei, Comunione e liberazione in Italia, I legionari di Cristo in Messico, ecc.

6 J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 19773 (ed. orig. 1968). Recentemente ripubblicato in italiano col titolo Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico della fede, Brescia, Queriniana, 2003.

7 È la traduzione dell’esergo. Assai curiosa pare a me l’abbreviazione autografa della firma, graficamente infatti è un “abbasso”, ovvero una W rovesciata. Se infatti prendete la “j” di Joseph e la inclinate verso sinistra, poi la “r” di Ratzinger e la inclinate invece verso destra e quindi ne incrociate le basi, il risultato è appunto un abbasso.

8 Notoriamente, come capo del Sant’uffizio, Ratzinger è stato alla guida di un drastico movimento di repressione della Teologia della liberazione, condannando ufficialmente i suoi esponenti più autorevoli – Boff fra tutti – ed incoraggiando capillarmente la sostituzione fisica o l’emarginazione di tutti i vescovi che non prendessero nettamente le distanza da essa.

9 Heidegger, come è noto, vi insegnava all’università. Ratzinger non ha abbandonato i toni apocalittici del passaggio nella valle di lacrime neppure recentemente, facendovi riferimento nell’omelia per la morte di Giovanni Paolo II e per quella di Don Giussani.

Marx e Hegel di Roberto Fineschi (Conferenza al Ghislieri, dicembre 2018)

  Marx e Hegel Trascrizione leggermente rivista della relazione dal medesimo titolo presentata al convegno internazionale “Marx e la tradizi...