Roberto Fineschi
Un nuovo Marx
[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]
OFFICINA MARX - primo incontro
1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati.
In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.
Sicuramente questo è in parte il destino che l’opera di Marx ha subito in Unione Sovietica o nell’est Europa dove era una dottrina ufficiale di una istituzione e non poteva che essere vera, immodificabile, sicura in secula seculorum. Il diamat ne è l'esempio per antonomasia. Tra gli elementi cardine di queste varie formulazioni avevamo ovviamente che il socialismo reale costituiva l’inveramento delle teorie di Marx: il socialismo reale realizzandosi verificava le previsioni di Marx, l’esistenza di una intrinseca necessità storica per cui alla fine lì si doveva arrivare. Il presunto esito della evoluzione storica era quello che si era verificato.
Questa ideologia ebbe grande forza e direi quasi anche legittimità a suo tempo, perché dava coraggio e speranza ai militanti. Come dire: se il risultato della nostra lotta è quello verso cui tende il corso storico e ciò inevitabilmente accadrà, noi siamo forti perché cavalchiamo l’onda della storia; tutto ciò ci legittima nella nostra azione politica. Questa ideologia che pareva positivamente legittimare il movimento storico-politico nel momento dell’espansione, nel momento del collasso, della fine del socialismo reale (già nel periodo della sua difficile vita almeno dal secondo dopoguerra) suonava come una controevidenza: se Marx prima aveva ragione perché avrebbe sostenuto che il cosiddetto socialismo reale era la verifica delle sue previsioni, il suo crollo schiacciava sotto le macerie del muro non solo quell’esperienza, ma Marx stesso, anche Marx finiva nella spazzatura della storia insieme al socialismo reale. Quindi, il convitato di pietra a queste discussioni su Marx è spesso proprio il socialismo reale.
Gran parte di questi nuovi studi che anche io sto portando avanti e anche altri, come punto di partenza mirano a mostrare che il socialismo reale nel bene e nel male, perché anche di cose positive ne sono successe, non è tutt’uno con Marx.
Ovviamente non è vero che il socialismo reale non c’entra niente con Marx, semplicemente non sono la stessa cosa. Se si parte da questa premessa, la sua teoria, probabilmente, ha ancora qualcosa da dire al presente. Questo è un po’ lo sforzo. Anche perché a ben vedere Marx parla pochissimo del socialismo reale o, meglio, della società futura. Se si vanno a leggere le molte opere di Marx, la società futura è accennata, indicata con poche frasi, non è teorizzata nella sua complessità. Ci sono alcuni spunti come la gestione razionale, però tra l’enunciare il bisogno di una gestione razionale dell’economia e poi mostrare come questa funzioni, sia strutturabile, ce ne corre, e Marx non lo fa. In realtà, Marx sostanzialmente studia il modo di produzione capitalistico, questo è l’oggetto della sua ricerca, studia come funziona il capitalismo. Questa distinzione è importante perché non si può imputare a lui tutto quello che è avvenuto dopo. E’ un discorso aperto che si presta a più interpretazioni. Questa in genere è l’inizio della risposta alla prima obiezione che viene fatta, cioè la presunta identità tra socialismo reale e Marx.
La seconda obiezione che viene sollevata è che Marx parlava sostanzialmente della classe operaia, vedeva nella classe operaia il soggetto storico antagonista al capitale, la classe operaia soprattutto individuata nell’operaio di fabbrica, nell’operaio massa, e che, venendo meno o ridimensionandosi questa figura, verrebbe a mancare la terra sotto ai piedi a uno degli assunti fondamentali e, quindi, di nuovo Marx si sarebbe sbagliato oppure avrebbe avuto ragione entro certi limiti. Alcuni oggi vanno quindi a teorizzare la società post-moderna, post-industriale, post-operaista; cercare i soggetti che non siano gli operai-massa sarebbe andare oltre Marx, cioè utilizzare Marx ma per superarlo, per far vedere come la sua teoria fosse limitata e come ci sia bisogno di andare oltre. Io credo che la questione vada invece affrontato avendo presente i diversi livelli di “astrazione” a cui la teoria è sviluppata.
Prima di entrare nel merito vorrei però fare una breve parentesi relativa alla pubblicazione della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels, la Marx-Engels-Gesamtausgabe. Alcune delle loro opere tradizionali sono state profondamente interessate dalle novità editoriali.
2. Per quanto riguarda L’ideologia tedesca, è stata pubblicata la nuova edizione qualche mese fa e ci sono significative novità, soprattutto per quanto riguarda il famoso primo capitolo su Feuerbach in cui, secondo alcune interpretazioni tradizionali, ci sarebbe addirittura la fondazione della dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, i cardini del materialismo storico. Questo primo capitolo proprio non esiste come stesura indipendente, è un collage di vari materiali preparatori; addirittura alcuni titoli erano in un angolo e sono stati messi in testa. Più che di un libro, si trattava di bozze a stampa di articoli scritti per un trimestrale poi mai realizzato. Era rimasto tutto lì e negli anni ’20 Riazanov, allora editore della prima MEGA (il primo tentativo di realizzare un’edizione storico-critico poi naufragato), felice di aver trovato il famoso libro lasciato alla critica “rodente” dei topi in cui si fa menzione nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, lo strutturò non sempre in maniera filologicamente accettabile. L’intervento di Adoratsky, nuovo editore della MEGA dopo la purga di Rjazanov, peggiorò ulteriormente la situazione, ristrutturando il capitolo su Feuerbach in maniera assolutamente arbitraria. Sono stati testi forieri di molte interpretazioni; il libri del resto hanno il loro destino, quindi anche queste interpretazioni filologicamente non perfette hanno prodotto teorie, interpretazioni ecc., ecc., che di per sé hanno una loro dignità; il punto attuale è tuttavia che è possibile tornare a Marx, cioè si possono finalmente leggere i testi per come lui li ha scritti. Questo vale in particolar modo per Il capitale, l’opera matura di Marx, incompiuta, al quale ha praticamente dedicato tutta la sua vita, almeno a partire dal ’57 in poi, scrivendo tre giganteschi manoscritti in cui ha buttato giù tre volte tutta la teoria; a grandi linee ovviamente, poi pubblicando il primo libro in più edizioni con moltissime varianti e poi cercando di pubblicare il secondo e il terzo senza riuscirvi. E’ noto che, dopo la sua morte, Engels ha pubblicato il secondo e il terzo libro. Nelle introduzioni spiega che tipo di lavoro editoriale ha fatto, non raccontando tuttavia tutta la storia. Adesso finalmente sono stati pubblicati tutti i manoscritti originali su cui Engels ha lavorato e quello che emerge in maniera evidente è che i libri non erano finiti, erano ben lungi dall’avere una forma pubblicabile. In particolare nel terzo libro abbiamo il manoscritto principale su cui Engels lavorò è del 1864/65; Marx morì nel 1883 e il libro uscirà curato da Engels nel 1894. In realtà, questo terzo libro è quindi quello meno elaborato, perché il primo libro Marx l’ha pubblicato nel 1867 poi l’ha ripubblicato altre tre volte; il manoscritto per il terzo libro è quindi un manoscritto vecchio, largamente incompiuto, c’è tutta una sezione che si intitola “La confusione”. Lui stesso parlando del suo lavoro pensa che questa parta sia confusa; è una lista di citazioni sul credito, sul capitale fittizio, evidentemente mostra che ci stava ancora ragionando, non aveva le idee chiare. Per dare un esempio di come Engels abbia alterato questa parte, non perché avesse cattive intenzioni, ma semplicemente perché per essere pubblicato un libro deve essere finito ed il manoscritto non lo era, quindi bisognava lo finisse lui. Da tutta questa parte che si intitola “la confusione” Engels ha tirato fuori 11 capitoli che hanno un titolo, una struttura e che in genere sono costituiti da delle citazioni raccordate da un paragrafetto scritto da Engels, un cappello di Engels, la citazione, poi un raccordo di Engels. Con questo non si intende dire che Engels è un mistificatore, un traditore, ci mancherebbe altro, Engels ha cercato di fare nella maniera più onesta possibile il suo lavoro; il punto è che il libro non era finito e che l’ha finito lui. L’ha finito nel senso che l’ha pubblicato come opera compiuta, in realtà un materiale magmatico in cui c’erano tantissime porte aperte. Per citare alcuni dei problemi classici dell’interpretazione marxiana, la trasformazione del valore in prezzi era tutt’altro che finita, era un’esposizione composita. Anche la caduta tendenziale del saggio del profitto era tutt’altro che compiuta. Per non parlare del capitale fittizio dove c’è tutta questa parte che si chiama confusione. Se un libro del genere viene pubblicato come un libro finito, è un libro aporetico dove ci sono delle parti che fanno a cazzotti con altre parti. Per esempio tutto il dibattito sulla trasformazione del valore in prezzi, che è uno dei temi classici dell’esegesi marxiana, nasce dal presentare come finito uno sviluppo che aveva direzioni contrastanti e in sviluppo. Ritornare ai testi di Marx permette di utilizzare queste porte che erano aperte per andare avanti, per approfondire ulteriormente il discorso di Marx al di là dell’empasse storica in cui è finito perché senza queste novità , se stiamo ai testi tradizionali, si è veramente già detto tutto, probabilmente anche più di tutto. Il Marx tradizionale è stato letto, discusso e ridiscusso, è veramente difficile aggiungere qualcosa.
Il nuovo Marx non è nuovo solo nell’interpretazione ma lo è nella base testuale, cioè proprio un nuovo Marx da leggere, nuovi testi o testi rinnovati. Tra l’altro, nell’edizione critica hanno trovato anche nuovi manoscritti che non si conoscevano e sono in corso di pubblicazione trentadue volumi di annotazioni sia di Marx che di Engels. Questi quando studiavano un libro copiavano dei passaggi salienti e poi li commentavano o meno; di questo materiale ci sono trentadue volumi! Quindi veramente ora è possibile andare rigo per rigo a ricercare e ripensare anche criticamente vecchie nozioni alla luce di queste nuove evidenze testuali.
3. Alcuni esempi per dirvi perché è così importante tornare al testo. Chi si è mai occupato di Marx in vita sua sa che Marx è quello della teoria del Materialismo storico. Secondo voi Marx in tutta la sua opera quante volta usa l’espressione materialismo storico? Mai, neanche una volta. Oppure, Marx è il filosofo della Filosofia della prassi. Quante volte Marx in tutta la sua opera usa l’espressione filosofia della prassi? Mai. Per chi ha studiato economia Marx è il filosofo di valore-lavoro. Quante volte Marx ha utilizzato nella sua opera l’espressione valore-lavoro? Mai, neanche una volta. La cosa paradossale è che tutti i capitoli del manuale di filosofia o di economia usano espressioni per definire Marx che lui non ha mai utilizzato. Quindi è cruciale tornare al testo di Marx per vedere cosa Marx ha detto veramente.
Considerata a un alto livello di astrazione, la sua teoria dimostra di avere capacità di previsione di lungo periodo sorprendenti, in quanto teorizza tutta una serie di fenomeni che sono più attuali ora di quanto non fossero quando scrisse. Questa è la cosa veramente impressionante. Per esempio, prendiamo la globalizzazione; Marx non usa il termine globalizzazione, più hegelianamente dice “universalizzazione del lavoro individuale e viceversa”; la concatenazione della produzione e riproduzione del genere umano a livello mondiale, secondo Marx è una delle tendenze di lungo corso del modo di produzione capitalistico e lo dice anche nel Manifesto ma lo teorizza nel 1857/58 in un momento in cui di strada ce n’era ancora da fare prima che si raggiungesse l’ampiezza pervasiva odierna. La sua teoria ha previsto, cento anni prima, delle tendenze di lungo periodo che si sarebbero sviluppate e si sono sviluppate. Secondo lui, il modo di produzione capitalistico tende a fare altre cose, per esempio aumentare in maniera esponenziale la produttività del lavoro. Il lavoro diventerà sempre più produttivo. Anche qui difficile dire che non sia così, perché la produttività del lavoro è spaventosamente aumentata. Marx è un teorico non solo della dimensione cooperativa del lavorare ma del processo di determinazione della scienza e dell’automazione del lavoro ma come una tendenza di lungo corso del modo di produzione capitalistico, e di nuovo anche qui mi pare aver avuto ragione, proprio sviluppando la teoria del plusvalore relativo e dimostrando come il modo di produzione capitalistico, contraddittoriamente, da una parte si basi sullo sfruttamento del lavoro vivo ma dall’altra tenda ad espellere il lavoro vivo dal processo produttivo, per cui si tende sempre più a ridurre la parte del lavoro necessario. Questa contraddizione di fondo fa sì che l’apporto lavorativo del singolo lavoratore diventi sempre più specializzato, sempre più parziale, fino al punto in cui sia così formalistico da poter essere sostituito da una macchina. E’ il presupposto teorico per pensare l’automazione a livello di massa. Paradossalmente, le provocazioni della fine del lavoro non sono così incoerenti con quello che diceva Marx, non perché il lavoro finisca effettivamente ma perché la tendenza intrinseca del modo di produzione capitalistico di basarsi sul lavoro e espellere il lavoro è in atto, e determina nel lungo periodo questo processo di espulsione generalizzata e, quindi, come conseguenza la disoccupazione di massa. Una gigantesca disoccupazione di massa che da un certo punto in poi non è neppure elastica, ma rigida, non riassorbibile dall’ulteriore espansione della produzione. Insomma, anche qua secondo me le dinamiche correnti sono in linea con quanto Marx ipotizzava.
4. La crisi. Anche questo è un tema per cui in realtà Marx è stato sulla bocca di tutti dato che le teorie ortodosse non hanno una spiegazione della crisi. Se voi studiate nei manuali di macroeconomia leggete di crisi frizionali, crisi di riassestamento, rigidità che possono essere fluidificate con interventi esterni che però non implicano ciclicità strutturali per cui la crisi è un elemento costante, ricorrente della riproduzione sociale; quindi quando ci si trova di fronte a crisi come quella del 2007, 2008, in parte ancora in atto, i nostri economisti ufficiali non sanno che dire. Cito spesso che su Rai due Giuliano Amato spiegava la crisi con la teoria della sovrapproduzione di Marx, su Rai due alle 14,30! Non aveva un teorico ortodosso che gli dicesse perché potesse esserci una crisi così clamorosa e deflagrante che spezzava in maniera così dirompente le dinamiche della riproduzione. E Giuliano Amato spiega con eleganza, su Rai due, che c’è la crisi, perché Marx ha ragione, perché c’è la sovrapproduzione, perché il modo di produzione capitalistico tende a produrre a prescindere dal bisogno solvente, cioè a prescindere da chi può pagare, quindi alla fine ingolfa il mercato con una quantità di merci non vendibili, crolla il prezzo, la speculazione finanziaria non può rispondere a questa dinamica oggettiva.
Tant’è che si torna a parlare Karl Marx, Keynes, Schumpeter, tutti quegli autori che alla fine hanno messo in dubbio che un’armonia prestabilita riportasse tutte le cose al suo posto. Nella teoria di Marx la crisi è strutturale, il modo di produzione capitalistico necessariamente, ciclicamente produrrà crisi, niente di più normale: certo che c’è la crisi perché il modo di produzione capitalistico funziona così.
L’ultima parte de Il Capitale è dedicata al credito e al capitale fittizio, insomma alla finanza, e questo di nuovo in un periodo in cui sì certo c’era la finanza ma non era sviluppata al livello in cui è sviluppata adesso; Marx vede chiaramente quali sono le tendenze. Il modo di produzione capitalistico nel suo processo di accumulazione ad un certo punto tende a scindere e a presentare come due fenomeni apparentemente indipendenti l’accumulazione reale da una parte e l’accumulazione fittizia dall’altra. Tutta l’ultima parte della teoria del Capitale è incentrata sull’analisi del rapporto tra questi due tipi di accumulazione, come l’accumulazione fittizia ha effetti su quella reale e viceversa e quindi ha chiaramente in mente il problema che le due non coincidono immediatamente, cioè che ci sono dei livelli di distanziamento che implicano anche una moltiplicazione degli elementi fittizi circolanti, non c’è solo il denaro, ci sono le azioni, c’è il credito, le cedole di credito, le valute. Insomma la complessità di tutta questa materia Marx non l’analizza fino in fondo anche perché quando la teorizza lui ancora non si era sviluppata al livello in cui si è sviluppata adesso. Però non è vero, come tanti dicono, che Marx non pensi alla finanza, al contrario mette il tema della finanza proprio come punto finale della sua teoria del Capitale; è lì che tutta la complessità del sistema va a complicarsi ulteriormente. Questo è tutto un settore in cui si può lavorare. Però in Marx c’è una base da cui partire.
5. Verrei adesso, per tornare a quanto dicevo all’inizio, alla questione del lavoratore perché alcuni sostengono che sulla questione dell’operaio Marx si è sbagliato, perché l’operaio doveva essere il soggetto ecc., ecc., Con la rivoluzione si è sbagliato perché doveva essere in Inghilterra, nei paesi avanzati, ecc., ecc., quindi bisogna dar conto di questi aspetti,
Secondo me qui è possibile trovare una spiegazione e il punto di partenza sostanzialmente è : di cosa sta parlando Marx? Sta parlando del capitalismo della rivoluzione industriale? Sta parlando del capitalismo in generale? Cioè è una specie di teorizzazione di quello che stava accadendo nel 1800 in Inghilterra oppure è una teoria più generale del capitalismo che va ad individuare dei meccanismi di fondo che non necessariamente si riducono a quella fase storica? Secondo me la risposta è la seconda e anche qui la filologia aiuta. In primo luogo Marx quante volta usa la parola capitalismo in tutta la sua teoria? Una. Una volta sola. Quello di cui Marx parla sempre è il modo di produzione capitalistico e lo dice lui che userà l’Inghilterra come esempio in quanto paese più sviluppato e quindi paese in cui il modo di produzione capitalistico è più apparente, si manifesta nella sua pienezza. Ma in realtà quello di cui parla sono le leggi fondamentali di questo sistema e se noi, avendo questa cosa in mente, andiamo a vedere la sua teoria del soggetto, questo permette di pensarlo in maniera diversa.
L’operaio massa, questa interpretazione tradizionale che viene fuori dalla sezione che nel primo libro del Capitale si intitola Produzione del plusvalore relativo in cui Marx fa vedere quali trasformazioni materiali e organizzative il modo di lavorare subisce una volta che è sussunto sotto al capitale, cioè una volta che viene inquadrato nel processo di valorizzazione del capitale. Le figure che menziona sono tre e sono celeberrime: 1) la cooperazione, il carattere cooperativo del lavoro che aumenta la sua produttività, 2) la manifattura in cui il singolo lavoratore diventa un lavoratore parziale cioè non è più in grado di realizzare tutto il processo da solo ma riesce a farlo in quanto collabora con altri, e infine 3) la grande industria in cui addirittura il singolo lavoratore diventa un’appendice di un processo oggettivo del quale lui esegue mansioni accessorie; addirittura, tendenzialmente potrà scomparire con l’automazione. Su questa falsariga, si è tradizionalmente individuato nell’operaio di fabbrica il culmine di questo processo e quindi nell’operaio il principale soggetto antagonista al capitale, perché appunto il lavoro andava organizzandosi in tale modalità. Questa interpretazione chiaramente legittima, anche in certe fasi storicamente vera, in quanto quando Marx scriveva quello sembrava l’effettivo corso della storia. Successivamente l’espansione della grande industria anche dopo la seconda guerra mondiale, anche in Italia, questo processo di generalizzazione dell’operaio di fabbrica come principale forma del lavorare sembrava confermarlo; poi, come sapete, almeno nei paesi più avanzati si è riscontrato un momento di arresto, la diminuzione del settore industriale, la terziarizzazione, la delocalizzazione insomma, e attraverso la meccanizzazione un processo di apparente riduzione della presenza dell’operaio di fabbrica e quindi la verifica fattuale della non correttezza di questa teoria.
Qui in realtà si può vedere come Marx affronti la tematica su due registri, uno più teorico formale e uno più storico-descrittivo. Quello storico–descrittivo è quello più menzionato, una specie di fenomenologia delle trasformazioni del lavoro nella società industriale. Invece, se noi guardiamo gli aspetti formali, in realtà individuiamo delle trasformazioni del modo di lavorare che non necessariamente funzionano solo con la manifattura o con la grande industria. Cerco di spiegarmi meglio.
Con la manifattura abbiamo la parzializzazione del lavoro: il lavoratore non è più in grado di fare tutto il processo ma solo un pezzetto, con la grande industria abbiamo la appendicizzazione. Questi passaggi però sono interpretabili come “figure” in cui storicamente nuove modalità di lavorare sono emerse. Queste modalità del lavorare, che sono emerse grazie al modo di produzione capitalistico in forma di manifattura e grande industria e quindi la parzializzazione, la subordinazione fra l’altro ad una finalità posta dal capitalista ecc. ecc., sono venute meno con il venir meno della grande industria o della manifattura? Credo di no. Perché anche nella più informatizzata delle catene lavorative, anche il freelance che sta a casa sua e riempie l’articoletto nel software preformato che gli viene presentato magari dall’India, lavora nelle stesse modalità formali: questo è un processo di parzializzazione e subordinazione che risponde esattamente a queste modalità di lavoro. Il lavoratore è parziale, subordinato e trasformato in appendice. Quindi sono modalità che è possibile incasellare in quella teoria, non sono altro da quella teoria. Anche la forma non necessariamente salariata del contratto di lavoro, il freelance per esempio, non è un lavoratore subordinato in termini contrattuali ma, di fatto nella sua pratica operativa, lo è, anzi è peggio ancora perché ha su di sé il peso dei tempi morti. Facciamo un esempio di uno che effettivamente lavora al giorno in un ufficio per cinque ore su otto per cui è pagato; se il suo datore di lavoro non riesce a farlo lavorare otto ore, il suo tempo morto è un costo, perché lo paga otto ore ma lui ne lavora cinque. Se invece questo è un freelance, abbiamo una specie di cottimo, le cinque ore in cui lui non è produttivo sono a carico del lavoratore, quindi tutto ciò rientra perfettamente nel sistema di riduzione dei costi che è la dinamica di produzione del plusvalore relativo. Se consideriamo le trasformazioni formali del modo di lavorare, dunque, quelle categorie nate per parlare di manifattura e di grande industria funzionano ancora. Sono processi complessivi con finalità eterodiretta che subordinano e parcellizzano l’attività dei singoli che lavorano per la valorizzazione del capitale esattamente come facevano prima.
In questo contesto è interessante vedere come si è tradizionalmente tradotta il termine “operaio”. Nelle edizioni tradizionali non solo italiane ma nelle lingue neolatine, se voi leggete il testo trovate che a volte abbiamo operaio a volte abbiamo lavoratore. In realtà se voi guardate il testo tedesco c’è sempre la stessa parola: “Arbeiter”. Questa scelta di tradurre in un modo o in un altro è sempre stata una scelta del traduttore che per suoi buoni motivi ha pensato che in certe circostanze era meglio mettere “operaio” rispetto a “lavoratore”, ma il testo tedesco ha sempre “Arbeiter”. E “Arbeiter” deriva da “arbeiten” e significa “lavorare”; la “-er” finale è come il nostro “-tore” in italiano, è il suffisso che si utilizza per creare un sostantivo da un verbo,. Marx parla del lavoratore come l’altro del capitale è il Lohn-Arbeiter, è il lavoro salariato; il concetto di lavoro salariato è ampio, molto più ampio non solo dell’operaio ma anche più ampio del “lavoratore produttivo”, che è meramente impiegato nel processo di produzione. “Lohn-Arbeiter” è quel soggetto che partecipa in maniera subordinata, parcellizzata o addirittura in forma di semiautoma al processo di valorizzazione del capitale.
Il processo di valorizzazione del capitale non è, infatti, solo il processo di produzione del capitale, cioè il primo libro de Il capitale, ma è anche il processo di circolazione del capitale, sono le configurazioni complessive del sistema che sono i tre libri del Capitale. Il capitolo che Marx intitola “Classi” è l’ultimo del terzo libro, non è nel primo libro; quindi il problema per chi cercasse da questi presupposti di sviluppare una teoria dei soggetti politici, dell’azione politica è da una parte un problema di definizioni fondamentali, cioè qual è “l’altro del capitale”, qual è il soggetto antagonista del capitale? Marx parla di lavoro salariato. Il lavoro salariato, mettendo molta enfasi sul lavoratore di fabbrica perché funzionava bene in quelle precise circostanze storiche, però più generalmente il lavoro salariato. Questa configurazione del lavoro salariato come parcellizzato, subordinato, un anello della grande catena della riproduzione capitalistica di per sé non individua nessun soggetto particolare, è il presupposto di fondo per pensare configurazioni più concrete. Una cosa è parlare del capitalismo italiano all’interno della Comunità europea nel 2018, un’altra del modo di produzione capitalistico in generale: nel mezzo ci sono tanti livelli intermedi, c’è per esempio una teoria dello Stato, del commercio internazionale, del mercato mondiale, di come questo si configura e crea delle soggettività più articolate.
Anche la disoccupazione di massa è perfettamente funzionale al lavoro salariato, è semplicemente l’altra faccia della medaglia, è quella parte dei lavoratori che il modo di produzione capitalistico rende inutilizzabile. Non è che è inutilizzabile in astratto, ma è inutilizzabile perché non valorizza il capitale. Come dire: anche questa disoccupazione di massa sta dentro il gioco. Chiaramente, se io ho dei progetti politici non posso parlare a queste persone come se fossero lavoratori salariati, devo spiegare e articolare il mio discorso in modo che loro capiscano che il loro non essere lavoratori salariati fa parte del sistema salariale, che sono funzionalmente non salariati perché non valorizzano il capitale e quindi stanno dentro allo stesso sistema dei salariati. Questo non è possibile senza teorie cuscinetto, senza teorie non del solo modo di produzione capitalistico, ma anche dei capitalismi più determinati e poi delle analisi fattuali, appunto del capitalismo italiano del 2018 nel contesto dell’Unione Europea ecc., ecc.
6. Perché Marx sbaglia nelle previsioni politiche? Perché neanche lui ha elaborato questi livelli intermedi, tutta questa teorizzazione intermedia non riesce a compierla prima della morte, addirittura lui muore prima di finire la teoria del modo di produzione capitalistico in generale che resta incompiuta; però, d’altro lato, lui Il capitale lo ha scritto per dare alla classe lavoratrice il più grande proiettile da scagliare contro la borghesia, per citare un suo famoso passaggio. E allora cosa fa: lui per primo fa il primo marxista della storia, cerca di utilizzare la sua teoria astratta con finalità politiche concrete, avendo però il problema di questa grande distanza tra livelli generali e livelli particolari. E infatti le sbaglia tutte: la rivoluzione in Inghilterra non c’è, la classe operaia inglese come avanguardia neppure, addirittura la rivoluzione si verifica in un angolo del mondo dove il capitalismo era presente in maniera sporadica. Però secondo me questo tentativo di ricostruzione che sto proponendo permette di rendere conto anche di questi fallimenti di Marx stesso; quindi, quando Marx parla della inevitabile rivoluzione fa politica, cerca di dire agli operai cui si rivolge che sono legittimati nella loro lotta, anche se scientificamente non glielo potrebbe ancora dire, perché scientificamente non ha completato la sua opera.
Nel piano originario di Marx c’erano sei libri: Il capitale, il lavoro salariato, la rendita, lo stato, il commercio internazionale e il mercato mondiale, sei libri di cui lui ha scritto a stento il primo, infilandoci dentro un pezzetto del secondo e un pezzetto del terzo, quindi è un progetto largamente incompiuto. Pur nella sua incompletezza, la sua è comunque una delle poche teorie che ci spiega molto del presente e quindi ecco il perché di questo sforzo di risalire alle fonti, per riappropriarci, per quanto possibile, di una autentica formulazione su cui lavorare. Perché le basi sono buone, nelle linee di fondo è stata capace di spiegare le linee tendenza di lungo periodo. Quella che secondo me è la sfida per noi contemporanei che in qualche modo ci rifacciamo a questa teoria è andare avanti e cercare di continuare il lavoro che Marx ha iniziato anche, chiaramente, vedendone tutti i limiti, anche quelli che ho esposto.
In realtà i limiti ci sono, la mancata teorizzazione dei livelli intermedi e quindi la ricerca di scorciatoie per intervenire immediatamente, cioè di risposte alla problematica politica quotidiana in base alla teoria astratta non è possibile immediatamente. In quella formulazioni lì a questo non non ci può essere risposta.
Non sono entrato nei dettagli di questioni teoriche più da specialisti relativamente a punti aporetici della teoria, per esempio la teoria della trasformazione. Non so che tipo di familiarità abbiate con questo tema, ma si tratta di una delle grandissime questioni nel dibattito tradizionale tra economisti: Marx nel terzo libro de Il capitale non riuscirebbe a trasformare i valori in prezzi, cioè a dimostrare come dalla teoria del valore si sviluppi una teoria dei prezzi di produzione. Voi direte, perché è una questione così importante? E’ così importante perché non è un assunto meramente teorico, ma prettamente politico: anche a chi muoveva questa critica non importava particolarmente della trasformazione, perché se voi prendete le teorie ortodosse che si insegnano a macroeconomia, alcune hanno delle premesse che fanno veramente ridere, con assunti assolutamente arbitrari. Anche tantissimi teorici “ortodossi” riconoscono tali, ma si fa finta di niente per portare avanti la teoria, per svilupparla. Non sono così fiscali. Perché invece sono così fiscali con il povero Karl? Perché la contraddizione tra il primo e il terzo libro distruggerebbe la coerenza della teoria e se la teoria non sta in piedi cos’è che pure non sta in piedi? Non sta in piedi lo sfruttamento, non sta in piedi l’antagonismo di classe, cadono insieme tutte le conseguenze politiche della teoria. Per questo hanno dato addosso quanto hanno potuto a quest’aspetto. Esso è in effetti aporetico, è veramente un punto difficile del testo; alcune delle critiche tradizionali effettivamente sollevano questioni legittime. Secondo me, la ricostruzione filologica deve dare delle risposte a questi legittimi dubbi e allo stesso tempo essere capace di rispondere positivamente, salvando insieme alla trasformazione lo sfruttamento e tutto quanto.
Quindi, se queste cose possono sembrare bizantinismi filologici, in realtà il punto è risolvere i nodi teorici concreti la cui soluzione da anche legittimazione a possibili teorie e movimenti politici che su questa teoria di basano. E’ questo la prospettiva pratica di questo tipo di ricerca.
Il punto chiave è: Marx è un autore veramente” nuovo”, che ha una base testuale rinnovata che permette di cercare di uscire dalle secche del dibattito tradizionale. Non si tratta di proporre in astratto nuove interpretazioni più o meno fantasiose, più o meno legittime, più o meno discusse e ridiscusse perché su questo si è veramente già detto tutto; il punto è che Marx è diverso nei testi e dato che è una teoria che nel lungo periodo ha già dimostrato di avere grandi capacità di previsione, vale proprio la pena di vedere se riusciamo a cavarne qualcosa, perché è veramente l’unica teoria che spiega crisi, mondializzazione, conflitto, finanziarizzazione, ci sta tutto dentro, quindi... grazie Marx e lavoriamoci!
Grazie a tutti voi per l’attenzione.