La bibliografia su Marx è sterminata, nel secolo e mezzo che ci separa dalla sua opera principale è stato scritto di tutto, e veramente è difficile trovarsi di fronte ad un testo che non abbia delle forti componenti ideologiche che lo proiettino verso una dimensione di immediatismo politico. Il libro di Fineschi riesce ad allontanarsi dalle ideologie alla moda, e a focalizzare l'attenzione sui problemi teorici che la lettura del Capitale in ogni modo impone.
Fineschi fin dall'Introduzione sottolinea la possibilità di una nuova lettura di Marx. Le condizioni per questa nuova lettura possono essere sintetizzate in due punti:
a) la fine del cosiddetto socialismo reale, il quale ha imposto il luogo comune della conformità della politica dell'Europa dell'Est ai dettami di Marx;
b) la pubblicazione, ancora in corso, della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx e di Engels (MEGA² Marx Engels Gesamtausgabe).
Questi dunque i presupposti storico-contestuali che danno l'avvio all'opera di Fineschi. Già dall'indice è possibile scorgere la metodologia usata dallo studioso per lo studio del Capitale, in cui vengono individuati quattro livelli di astrazione:
1) il mondo della circolazione semplice;
2) la generalità universalità del capitale,
3) la particolarità del capitale, ossia i molti capitali in azione;
4) la singolarità del capitale, ossia credito e capitale fittizio.
Il mondo della circolazione semplice rappresenta l'inizio concettuale, l'immediatezza del modo di produzione capitalistico, il primo livello di totalità. In questa sezione l'autore presenta lo sviluppo dialettico della merce, lo sviluppo logico, dunque, della stessa, che non deve essere confuso con lo sviluppo storico-empirico della merce. La merce è dunque il presupposto concettuale che sta alla base, e che ne permette lo svolgimento, dell'intero sistema dell'economia borghese. Estremamente importante è chiarire il carattere di presupposto concettuale e non storico della merce, altrimenti rischiamo di imbatterci nello stesso errore di molta critica marxista che considera il metodo espositivo marxiano come una storia del divenire del modo di produzione capitalistico spogliato dei suoi elementi accidentali. Questo modo di considerare la teoria renderebbe Il Capitale una semplice opera sociologica di analisi del capitalismo ottocentesco, renderebbe limitate a quel periodo dello sviluppo della società borghese le categorie fondamentali dell'analisi. La merce di cui si parla all'inizio dell'esposizione della teoria non deve concepirsi come prius storico da cui si sviluppa il modo di produzione capitalistico, bensì un prius logico-concettuale, le cui determinazioni, per mezzo del divenire della forma, caratterizzano la totalità del sistema dell'economia capitalistica. Sarebbe un errore credere che, siccome la teoria inizia con l'esposizione della merce, allora la merce sia il primo concreto storico-empirico. Come ci ricorda Marx in un passo dei Lineamenti, "noi sappiamo che esse [le merci] esprimono le determinazioni della produzione sociale, ma che questa stessa ne è la premessa" (KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, a cura di E.Grillo, Firenze, La Nuova Italia, 1968, vol. I, p. 189). La categoria della merce è dunque solamente presupposto concettuale e non storico, altrimenti dovremmo prendere in considerazione soltanto lo scambio degli eccedenti, prima forma storico-fenomenica della merce, "il quale non abbraccia né determina la totalità della produzione. È l'eccedente tangibile di una produzione globale che sta al di fuori del mondo dei valori di scambio" (ivi, p.189). In questo modo esporremmo una storia che tiene conto esclusivamente del manifestarsi fenomenico degli eventi, senza assolutamente prendere in considerazione le strutture essenziali che a livello empirico non hanno necessaria contemporaneità con il fenomeno, che stanno alla base del divenire.
La merce, attraverso il suo duplice carattere di valore d'uso e valore, presuppone la pluralità delle merci e lo sviluppo del denaro, gli scambi, dunque quella che Marx chiama la circolazione semplice. Ma la circolazione semplice non è che fenomeno di un qualcosa che sta alle spalle della circolazione stessa, e che può essere delineato attraverso il termine produzione. Veniamo proiettati nel secondo livello di astrazione che da Fineschi viene chiamato l'"universalità del capitale". L'aggettivo "universale" è la traduzione del tedesco allgemein che dai traduttori italiani di Marx viene solitamente reso con "generale". In realtà l'uso di allgemein è in stretta relazione con besonder e einzeln, rispettivamente particolare e singolare. Si deve aver chiaro che Marx prende questi termini dalla dottrina del concetto della logica hegeliana.
Il concetto di capitale in generale ci introduce direttamente nella sezione de Il Capitale dedicata alla trasformazione del denaro in capitale espressa formalmente da Marx nel passaggio da M-D-M a D-M-D. Attraverso la sussunzione formale e poi quella reale del lavoro al capitale - attraverso cioè cooperazione, manifattura e macchinismo - ci troviamo alla posizione della merce che da presupposto si fa presupposto-posto; chiarendo la terminologia hegeliana vediamo che la merce da presupposto concettuale, attraverso il suo divenire logico, struttura la totalità della produzione la quale, alla fine del primo ciclo produttivo riproduce tutti gli elementi che hanno permesso il ciclo, dando la possibilità al ciclo produttivo di ripetersi. La merce quale presupposto alla fine del processo produttivo è presupposto che ha posto se stesso.
La clausola di astrazione del capitale in generale presuppone che le merci siano vendute ai loro valori; nel momento in cui la clausola decade si passa alla particolarità del capitale, ovvero alla concorrenza. Scrive Marx: "Quando domanda e offerta si equilibrano, esse non possono più spiegare nessun fenomeno, non esercitano nessun influsso sul valore di mercato e ci lasciano completamente all'oscuro sul motivo per cui il valore di mercato si esprime proprio in questa somma di denaro piuttosto che in un'altra. Le vere leggi intrinseche della produzione capitalistica non possono evidentemente essere spiegate in base all'azione reciproca della domanda e dell'offerta (astraendo dal fatto che ambedue queste forze sociali dovrebbero essere oggetto di un'analisi più approfondita, ma non opportuna qui), poiché queste leggi si manifestano nella forma pura solo quando domanda e offerta cessano di agire, ossia si equilibrano. In realtà, domanda e offerta non si equilibrano mai, o se si equilibrano questo avviene solamente per caso, cosicché il fenomeno non ha nessun valore scientifico e deve essere considerato come inesistente. E tuttavia l'economia politica presuppone questo equilibrio. Perché? Innanzitutto per studiare i fenomeni nella loro forma regolare, corrispondente al concetto che se ne ha, ossia per studiarli indipendentemente dalle manifestazioni esteriori che risultano dal movimento della domanda e dell'offerta; in secondo luogo, per delineare la vera tendenza del loro movimento e, in qualche modo, fissarla" (K.MARX, Il Capitale, libro III, a cura di Maria Luisa Buggeri, Roma, Editori Riuniti, 1965, p.233). Per quanto riguarda l'interpretazione di questa parte Fineschi riesce a superare le aporie di matrice ricardiana attraverso l'interpretazione del rapporto valori prezzi presente nei manoscritti marxiani degli anni 1861/63: la contraddizione tra il valore determinato come quantità di lavoro socialmente necessario presente nella merce, concezione che riguarda il capitale in generale, quindi condizionato dalla clausola suddetta, e il valore determinato come costo di produzione della merce, viene superata attraverso la comprensione dei differenti livelli di astrazione di cui la teoria marxiana si compone: un livello storico empirico, che attraverso le forme della sensibilità immediatamente si manifesta, ed una struttura essenziale che di esso fenomeno è la ragion d'essere, e che con esso non coincide immediatamente. Non appaiono dunque contraddittori i libri primo e terzo, come larga parte della critica, a partire da Böhm-Bawerk, ha sostenuto fin dalla pubblicazione engelsiana del terzo libro del Capitale. È Engels stesso che nell'introduzione al terzo libro sostiene una interpretazione della questione che, invece di risolverla, la rende soggetta a critiche, identificando l'immediatezza fenomenica, quella che si manifesta mediante la nostra percezione sensoriale, con l'esposizione concettuale propria di Marx.
Dalla particolarità del capitale, caratterizzata dalla caduta della clausola di astrazione che fa coincidere produzione e consumo, ovvero dalla concorrenza, si passa al capitale nella singolarità, ovvero credito e capitale fittizio. Attraverso quest'ultima analisi del terzo libro del Capitale ci troviamo di fronte alla totalità del movimento del capitale come tale. L'ultimo capitolo è dedicato a focalizzare l'attenzione su alcuni aspetti che si rendono manifesti solo dopo il lavoro di analisi, magistralmente compiuto da Fineschi.
In primo luogo l'attenzione cade sull'esposizione dialettica di Marx che vede nella logica hegeliana il principale riferimento. L'esposizione dialettica è quella della merce quale "cellula economica", la quale si sviluppa attraverso le contraddizioni che le sono immanenti, valore d'uso e valore di scambio, fino a giungere alla totalità del modo di produzione capitalistico. "La contraddizione di valore e valore d'uso ha attraversato tutti i livelli dell'esposizione, determinando lo sviluppo della forma di valore, l'accumulazione, la riproduzione sociale complessiva, la determinazione del valore di mercato e quindi del prezzo di produzione, la crisi, la generalizzazione del feticcio del capitale, fino a porre la loro opposizione al livello di astrazione più basso della teoria del capitale come tale: la società per azioni di fronte alla generalizzata integrazione della produzione materiale" (Fineschi, p.430).
Infine si determina un concetto di storia che si distacca dalla concezione del semplice accadere empirico; il divenire della teoria traccia le coordinate per la comprensione del movimento logico del capitale, un movimento che riguarda le strutture essenziali delle categorie e non il loro semplice aspetto fenomenico.
Il lavoro di Fineschi è estremamente curato anche da un punto di vista strettamente critico-filologico; per quanto l'utilizzo della terminologia faccia spesso riferimento a quella koinè linguistica che si è sviluppata in Italia nel dibattito hegelo-marxista degli anni sessanta e settanta (Della Volpe, Luporini, Cantimori, Badaloni, ecc.), è costante l'utilizzo critico di questa terminologia attraverso la comparazione con i termini originali tedeschi, comparazione volta all'esplicitazione dei termini marxiani nella loro specifica genesi, e nei loro riferimenti particolari.
Thursday, 2 September 2010
Marx e Hegel. Recensione di Luigi Cavallaro
di Luigi Cavallaro
su il manifesto del 07/01/2007
Nel suo ultimo saggio, edito da Carocci, Roberto Fineschi dimostra attraverso un'analisi rigorosa dei testi come il limite del dibattito sui rapporti fra metodo marxiano e dialettica hegeliana consista nel non essere mai usciti dall'ottica interpretativa dell'autore del «Capitale»
Il rapporto Marx-Hegel è uno dei luoghi classici del marxismo. Da Althusser a Colletti, da Croce (e Gentile) a della Volpe, da Lukács a Popper, la bibliografia sul tema è sterminata e ha dato luogo a interpretazioni antitetiche, in cui il metodo marxiano è stato di volta in volta definito «dialettico-hegeliano», «dialettico-antihegeliano», «antidialettico-antihegeliano-empirista», e così via. Ed è proprio nell'approccio a un tema così complesso che possiamo nuovamente apprezzare la competenza con cui nel suo importante volume Marx e Hegel. Contributi a una rilettura (Carocci, pp. 206, euro 18), Roberto Fineschi sta procedendo nel suo scavo di lungo periodo all'interno della problematica marxiana.
Fineschi è un maratoneta della filologia. La sua esposizione (sempre chiara nonostante l'obiettiva complessità dei temi affrontati) rifugge da ogni sensazionalismo: niente frasi a effetto, niente slogan, solo una paziente e rigorosa analisi dei testi condotta sulle versioni originali, dei cui termini-chiave non di rado egli offre nuove traduzioni, in modo da svelarne l'essenza categoriale. Non che trascuri la letteratura secondaria, beninteso: lo confermano diciassette pagine fitte di bibliografia in coda al volume. Solo che ogni affermazione, interpretazione o traduzione proveniente da quanti hanno scritto su Marx e Hegel è da lui sottoposta a una rigorosa verifica diretta sui testi di Marx e Hegel, in modo da evitare quanto più possibile quel ricorrente equivoco che si genera quando l'intentio lectoris (specie se lettore «autorevole») si sovrappone, soffocandola, all'intentio operis.
È figlio di questo metodo il principale risultato che lo studio di Fineschi offre al dibattito: a suo avviso, infatti, le ambiguità che concernono il rapporto fra Marx e Hegel scaturiscono non soltanto dal modo in cui si legge Marx, ma soprattutto dal modo in cui «lo stesso Marx si rapporta al problema del metodo (e a Hegel come autore di riferimento)». Il limite di fondo che, secondo Fineschi, ha afflitto il dibattito sul metodo marxiano e sui suoi rapporti con la dialettica hegeliana consiste infatti «nel non essere usciti dall'ottica interpretativa di Marx»: è la sua interpretazione di Hegel che non è mai stata posta in discussione, dai marxisti come dai non marxisti, ed è di qui, a suo avviso, che originano gli equivoci e i paradossi che hanno intessuto la querelle, a cominciare da quello famoso di Lucio Colletti, che rinnegò il marxismo quando si rese conto che dentro c'era ... la dialettica!
Per dimostrare il proprio assunto, Fineschi procede in primo luogo a una ricognizione approfondita dei testi marxiani, in modo da mettere in luce ciò che cambia nell'analisi del pensatore di Treviri man mano che abbandona la temperie filosofica giovanile. I luoghi principali sono quelli classici (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e i Manoscritti del 1844, poi la celebre Introduzione del 1857 ai Grundrisse e l'altrettanto celebre Poscritto alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale) e la sua analisi testuale mostra che la vera «presa di distanza» che Marx compie nelle opere della sua maturità concerne non Hegel, ma - potremmo dire - il modo in cui la sua «anteriore coscienza filosofica» aveva interpretato Hegel.
Emblematica, in questo senso, è l'Introduzione del '57, non a caso scritta dopo che, «by mere accident», Marx aveva riletto la Scienza della logica: qui, a più riprese, egli sente il bisogno di avvertire che il duplice processo di risalita dal concreto all'astratto (al fine di porre le «determinazioni più semplici») e di ridiscesa dall'astratto al concreto (al fine di riprodurre quest'ultimo come «unità del molteplice») sarebbe cosa differente dal metodo hegeliano di «concepire il reale come il risultato del pensiero» e più volte rimarca che l'«errore di Hegel» consisterebbe nel credere che il pensiero produca effettivamente il reale, invece di limitarsi a riprodurlo «come un che di spiritualmente concreto».
Il problema - obietta a ragione Fineschi - è che questa è precisamente l'interpretazione che la «Sinistra hegeliana» (Bauer e Feuerbach su tutti) aveva dato di Hegel, trasformandolo in una specie di «Spinoza+Fichte»: una interpretazione che considerava la Fenomenologia dello Spirito (e in particolare il capitolo dedicato al Sapere assoluto) come lo snodo concettuale decisivo per intendere l'intera filosofia di Hegel. Testi alla mano, Fineschi mostra però che quell'interpretazione non regge: che il processo di comprensione coincida con la creazione oggettuale delle cose Hegel non lo pensa né lo dice, al punto che, nell'Introduzione del '57, Marx - evidentemente condizionato dalla propria «anteriore coscienza filosofica» - finisce con l'attribuire a Hegel una visione del rapporto fra pensiero e realtà che però, anche terminologicamente, è fichtiana e che proprio nella Fenomenologia Hegel aveva criticato.
L'errore in cui è rimasto imprigionato il dibattito Marx-Hegel è, in altri termini, quello di confondere Hegel con l'idealismo soggettivo: tutta l'infinita polemica su materialismo e idealismo si fonda su questo falso presupposto, nonostante gli studiosi di Hegel abbiano chiarito «ad nauseam» il carattere oggettivo dell'idealismo hegeliano. Quando si sia sgombrato il campo da questa erronea credenza - e va ascritto a merito di Fineschi l'averla rivelata come tale, con un procedimento non dissimile da quello che, in un suo studio precedente (Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del «capitale», La Città del sole, 2001), lo aveva portato a denunciare il carattere spurio della famigerata «teoria del valore-lavoro» - la questione diventa un'altra, cioè stabilire in cosa diverga la teoria marxiana del divenire storico rispetto a quella hegeliana, individuando i soggetti e le forme di codesto divenire. È qui che, in effetti, potrebbe emergere un limite della Darstellung hegeliana, che la renderebbe irriducibile a quella marxiana dell'Introduzione del '57. Per quanto la discussione ferva tutt'ora tra gli studiosi hegeliani, non sono in pochi, infatti, a sostenere che Hegel non sviluppa la logica del reale in base alla sua struttura interna, ma impiega all'uopo una logica generale in sé svolta. «L'empirico è quindi surrettiziamente inserito in una deduzione logica a priori e coartato dentro regole di una logica ad esso estranea», scrive Fineschi. Invece, la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, che Fineschi giustamente colloca al centro della teoria marxiana della storia, impone di costruire una «logica peculiare dell'oggetto peculiare», ossia una logica per ciascuna di quelle loro possibili «unità» che sono i «modi di produzione» storicamente determinati.
C'è d'altra parte una tensione irrisolta nel pensiero marxiano, e bene fa Fineschi a metterla in rilievo. Per quanto cioè Marx si sforzi di fuoriuscire dalla teoria (pseudo-)hegeliana della storia come alienazione dell'essere generico per dedicarsi alla costruzione di una propria teoria, basata appunto sulla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nemmeno lui riesce a venire completamente a capo delle idee vecchie che si ramificano in tutti gli angoli della mente e in più di un luogo - specie quando evoca la frusta problematica dell'«alienazione» - sembra ricondurci verso il mondo aporetico di Bauer e Feuerbach.
Si tratta probabilmente di un altro aspetto di quella «tensione latente tra la teoria marxista e il comunismo di Marx» che - secondo Etienne Balibar - è stata spinta all'estremo dalla riflessione di Louis Althusser. E poiché, proprio in questi giorni, salutiamo anche l'arrivo in libreria della prima traduzione integrale di Leggere Il Capitale (pubblicato da Mimesis nella collana «Althusseriana», pp. 428, euro 30), possiamo sperare che, avendo Fineschi rimesso finalmente la questione coi piedi per terra, si ricominci a discuterne in modo più produttivo. Magari all'insegna del compiacimento con cui Lenin annotava, a conclusione del suo riassunto della Scienza della logica, che «in quest'opera di Hegel, che è la più idealistica, vi è il meno di idealismo e il più di materialismo».
Fineschi è un maratoneta della filologia. La sua esposizione (sempre chiara nonostante l'obiettiva complessità dei temi affrontati) rifugge da ogni sensazionalismo: niente frasi a effetto, niente slogan, solo una paziente e rigorosa analisi dei testi condotta sulle versioni originali, dei cui termini-chiave non di rado egli offre nuove traduzioni, in modo da svelarne l'essenza categoriale. Non che trascuri la letteratura secondaria, beninteso: lo confermano diciassette pagine fitte di bibliografia in coda al volume. Solo che ogni affermazione, interpretazione o traduzione proveniente da quanti hanno scritto su Marx e Hegel è da lui sottoposta a una rigorosa verifica diretta sui testi di Marx e Hegel, in modo da evitare quanto più possibile quel ricorrente equivoco che si genera quando l'intentio lectoris (specie se lettore «autorevole») si sovrappone, soffocandola, all'intentio operis.
È figlio di questo metodo il principale risultato che lo studio di Fineschi offre al dibattito: a suo avviso, infatti, le ambiguità che concernono il rapporto fra Marx e Hegel scaturiscono non soltanto dal modo in cui si legge Marx, ma soprattutto dal modo in cui «lo stesso Marx si rapporta al problema del metodo (e a Hegel come autore di riferimento)». Il limite di fondo che, secondo Fineschi, ha afflitto il dibattito sul metodo marxiano e sui suoi rapporti con la dialettica hegeliana consiste infatti «nel non essere usciti dall'ottica interpretativa di Marx»: è la sua interpretazione di Hegel che non è mai stata posta in discussione, dai marxisti come dai non marxisti, ed è di qui, a suo avviso, che originano gli equivoci e i paradossi che hanno intessuto la querelle, a cominciare da quello famoso di Lucio Colletti, che rinnegò il marxismo quando si rese conto che dentro c'era ... la dialettica!
Per dimostrare il proprio assunto, Fineschi procede in primo luogo a una ricognizione approfondita dei testi marxiani, in modo da mettere in luce ciò che cambia nell'analisi del pensatore di Treviri man mano che abbandona la temperie filosofica giovanile. I luoghi principali sono quelli classici (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e i Manoscritti del 1844, poi la celebre Introduzione del 1857 ai Grundrisse e l'altrettanto celebre Poscritto alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale) e la sua analisi testuale mostra che la vera «presa di distanza» che Marx compie nelle opere della sua maturità concerne non Hegel, ma - potremmo dire - il modo in cui la sua «anteriore coscienza filosofica» aveva interpretato Hegel.
Emblematica, in questo senso, è l'Introduzione del '57, non a caso scritta dopo che, «by mere accident», Marx aveva riletto la Scienza della logica: qui, a più riprese, egli sente il bisogno di avvertire che il duplice processo di risalita dal concreto all'astratto (al fine di porre le «determinazioni più semplici») e di ridiscesa dall'astratto al concreto (al fine di riprodurre quest'ultimo come «unità del molteplice») sarebbe cosa differente dal metodo hegeliano di «concepire il reale come il risultato del pensiero» e più volte rimarca che l'«errore di Hegel» consisterebbe nel credere che il pensiero produca effettivamente il reale, invece di limitarsi a riprodurlo «come un che di spiritualmente concreto».
Il problema - obietta a ragione Fineschi - è che questa è precisamente l'interpretazione che la «Sinistra hegeliana» (Bauer e Feuerbach su tutti) aveva dato di Hegel, trasformandolo in una specie di «Spinoza+Fichte»: una interpretazione che considerava la Fenomenologia dello Spirito (e in particolare il capitolo dedicato al Sapere assoluto) come lo snodo concettuale decisivo per intendere l'intera filosofia di Hegel. Testi alla mano, Fineschi mostra però che quell'interpretazione non regge: che il processo di comprensione coincida con la creazione oggettuale delle cose Hegel non lo pensa né lo dice, al punto che, nell'Introduzione del '57, Marx - evidentemente condizionato dalla propria «anteriore coscienza filosofica» - finisce con l'attribuire a Hegel una visione del rapporto fra pensiero e realtà che però, anche terminologicamente, è fichtiana e che proprio nella Fenomenologia Hegel aveva criticato.
L'errore in cui è rimasto imprigionato il dibattito Marx-Hegel è, in altri termini, quello di confondere Hegel con l'idealismo soggettivo: tutta l'infinita polemica su materialismo e idealismo si fonda su questo falso presupposto, nonostante gli studiosi di Hegel abbiano chiarito «ad nauseam» il carattere oggettivo dell'idealismo hegeliano. Quando si sia sgombrato il campo da questa erronea credenza - e va ascritto a merito di Fineschi l'averla rivelata come tale, con un procedimento non dissimile da quello che, in un suo studio precedente (Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del «capitale», La Città del sole, 2001), lo aveva portato a denunciare il carattere spurio della famigerata «teoria del valore-lavoro» - la questione diventa un'altra, cioè stabilire in cosa diverga la teoria marxiana del divenire storico rispetto a quella hegeliana, individuando i soggetti e le forme di codesto divenire. È qui che, in effetti, potrebbe emergere un limite della Darstellung hegeliana, che la renderebbe irriducibile a quella marxiana dell'Introduzione del '57. Per quanto la discussione ferva tutt'ora tra gli studiosi hegeliani, non sono in pochi, infatti, a sostenere che Hegel non sviluppa la logica del reale in base alla sua struttura interna, ma impiega all'uopo una logica generale in sé svolta. «L'empirico è quindi surrettiziamente inserito in una deduzione logica a priori e coartato dentro regole di una logica ad esso estranea», scrive Fineschi. Invece, la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, che Fineschi giustamente colloca al centro della teoria marxiana della storia, impone di costruire una «logica peculiare dell'oggetto peculiare», ossia una logica per ciascuna di quelle loro possibili «unità» che sono i «modi di produzione» storicamente determinati.
C'è d'altra parte una tensione irrisolta nel pensiero marxiano, e bene fa Fineschi a metterla in rilievo. Per quanto cioè Marx si sforzi di fuoriuscire dalla teoria (pseudo-)hegeliana della storia come alienazione dell'essere generico per dedicarsi alla costruzione di una propria teoria, basata appunto sulla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nemmeno lui riesce a venire completamente a capo delle idee vecchie che si ramificano in tutti gli angoli della mente e in più di un luogo - specie quando evoca la frusta problematica dell'«alienazione» - sembra ricondurci verso il mondo aporetico di Bauer e Feuerbach.
Si tratta probabilmente di un altro aspetto di quella «tensione latente tra la teoria marxista e il comunismo di Marx» che - secondo Etienne Balibar - è stata spinta all'estremo dalla riflessione di Louis Althusser. E poiché, proprio in questi giorni, salutiamo anche l'arrivo in libreria della prima traduzione integrale di Leggere Il Capitale (pubblicato da Mimesis nella collana «Althusseriana», pp. 428, euro 30), possiamo sperare che, avendo Fineschi rimesso finalmente la questione coi piedi per terra, si ricominci a discuterne in modo più produttivo. Magari all'insegna del compiacimento con cui Lenin annotava, a conclusione del suo riassunto della Scienza della logica, che «in quest'opera di Hegel, che è la più idealistica, vi è il meno di idealismo e il più di materialismo».
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