Wednesday 28 December 2022

Ricapitolone di fine anno 2022

  Ricapitolone di fine anno.

Care amiche, cari amici, come o



gni anno, a uso degli interessati, faccio la lista delle mie cose. Il 2021 era stata esagerato, con ben tre post; nel 2022 mi sono decisamente ridimensionato, ma qualcosetta è uscita lo stesso
1. Saggi
- UNA HISTORIA COMPLEJA. LA TEORÍA DE LA ACUMULACIÓN EN MARX. MEMORIA - CEMOS, vol. 281, ISSN: 0186-1395
Questo si trova online: https://revistamemoria.mx/?p=3557
- Violence and Crepuscular Capitalism Structural Dynamics and Superstructural Forms of the General Law of Capitalist Accumulation. In: (a cura di): LORENZO FUSARO AND LEINAD JOHAN ALCALÁ SANDOVAL, The General Law of Capitalist Accumulation in Latin America and Beyond Actuality and Pertinence . p. 41-53, Lanham MD:Lexington Books, 2022
Sono entrambe traduzioni riviste di saggi già apparsi in italiano.
2. Articoli.
- Mazzini e “noi”, oblio e memoria nel capitalismo crepuscolare, apparso su "La città futura" del 15/07/2022. Anche questo si trova online: https://www.lacittafutura.it/.../mazzini-e-%e2%80%9cnoi...
3. Dulcis in fundo le cose più corpose uscite da un paio di settimane:
- la curatela degli scritti di A. Mazzone, Per una teoria del conflitto

https://marxdialecticalstudies.jimdofree.com/.../per-una.../;
- la raccolta rivisitata di una serie di riflessioni dal titolo Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni https://www.amazon.it/Capitalismo.../dp/B0BPGSVG6L.
Da ultimo ma non per ultimo, la fondazione dell'associazione culturale Laboratorio critico! laboratoriocritico.org
Buona fine e buon inizio a tutti!

Tuesday 27 December 2022

Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni di Roberto Fineschi Indice e introduzione.


Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni
di Roberto Fineschi


Volume acquistabile su amazon

Indice e introduzione.


Indice




Introduzione

I. Nozioni teoriche

Epoca, fasi storiche, capitalismi
Che significa “egemonia”? Note introduttive
Per una ridefinizione del concetto di “classe”
Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare

II. Appunti per una fenomenologia del capitalismo crepuscolare

Populismo
Orientamenti politici e materialismo storico
Razzismo
Alta Cultura
Social media
Scuola
Controcorrente? Ideologia ed egemonia del capitale

Appendice: culturalia
 
Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”
Strutturare i processi storici. Un paio di riflessioni a partire da Carducci
Dire dove andrà la storia. Tra Dante e Marx: noterelle sull’azione storica
Mazzini e “noi”. Oblio e memoria nel capitalismo crepuscolare




Introduzione

Gli scritti qui raccolti costituiscono una prima riflessio­ne sul concetto di “capitalismo crepuscolare”. Allo loro base vi è l’idea che il modo di produzione capitalistico sia entrano in uno stadio determinato, tardo, del suo sviluppo complessivo. Ciò non significa che le sue leggi strutturali siano cambiate: per come sono confi­gurate da Marx, esse implicano che il sistema abbia una dinamica di sviluppo per cui quelle stesse leggi non si ripetono sempre uguali a se stesse, ma com­portano modificazioni e riassestamenti in virtù dei quali si verificano dei momenti di rottura, dei salti (non solo a livello storico, ma anche teorico). Il capitalismo crepuscolare è per l’appunto la fase in cui la dinamica di valorizzazione è entrata in una dimensione per cui essa si realizza con sempre maggiore difficoltà. Ciò si accompagna a crescenti fenomeni speculativi di valo­rizzazione fittizia, a una disoccupazione di massa irre­dimibile e alla crisi degli assunti fondamentali dell’ideologia borghese tradizionale, in particolare il suo cardine: la categoria di “persona” ed i suoi diritti universali.

Il punto di partenza teorico generale di quanto qui esposto nasce dalle riflessioni sviluppate in La logica del capitale nel capitolo dedicato alle tendenza di lun­go periodo del modo di produzione capitalistico1. Un secondo momento è stato sviluppato in un saggio sul concetto di “violenza”2, dove si è iniziato a considera­re la relazione tra aspetti strutturali e loro dimensione ideologica. Anello intermedio è una ridefinizione teo­retica più accurata del concetto di “classe” e di ege­monia3. Sulla base di questi assunti ho sviluppato del­le riflessioni su alcune categorie di largo impiego nel dibattito culturale e ideologico contemporaneo, come ad esempio populismo, razzismo, alta cultura e social media.

Si tratta complessivamente di considerazioni prov­visorie. I temi di carattere più teorico sono offerti nella forma, spero più accessibile, di presentazioni fatte in dibattiti pubblici. Gli argomenti specifici sono stati in­vece oggetto di interventi di stampo pubblicistico, ma comunque con chiari riferimenti ai fondamenti indicati. Pur con tutti i caveat suddetti, mi pare che questi testi nel loro complesso abbiano un senso e possano es­sere presentati come inizio di riflessione e apportare un contributo al dibattito attuale.

Il testo credo possa essere utile come introduzione ad alcuni concetti fondamentali del pensiero di Marx e del marxismoiv.


1 R. Fineschi, La logica del capitale. Ripartire da Marx, Napoli, 2a ed., La scuola di Pitagora, 2021, cap. 6.3 (1 ed. Napoli, La città del sole 2001).


2 R. Fineschi, Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino, 2020, pp. 157-173.


3 R. Fineschi, Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica, Roma, Carocci, 2008, cap. 3.


iv Per un’introduzione più formale al pensiero marxiano aggiornata allo stato attuale degli studi critico-filologici, rimando al mio Marx, Brescia, Morcelilana. 2021.

Introduzione a Per una teoria del conflitto. Concetti hegeliani e materialismo storico. Il contributo di Alessandro Mazzone di Roberto Fineschi



Concetti hegeliani e materialismo storico. Il contributo di Alessandro Mazzone

di Roberto Fineschi


In occasione del decennale della morte di Alessandro Mazzone, tra alcuni ex-studenti (i “mazzoniani” di un tempo) è nata l’idea di ricordarne la figura e l’importante contributo teorico. Con l’adesione delle figlie è stata fondata un’associazione culturale dal nome “Laboratorio critico” con sede a Siena, città in cui Mazzone ha insegnato per molti anni concludendovi la propria carriera accademica; essa ha tra i suoi obiettivi la valorizzazione del suo lascito teorico e librario.

L’associazione, come suo primo atto concreto, ha deciso di promuovere la pubblicazione di una raccolta di scritti che abbracciano l’ultimo periodo del suo impegno teorico (1999-2012). È stata questa sicuramente una fase delicata della sua vita, segnata da problemi di salute, dalla fine dell’attività universitaria, quindi potenzialmente complessa anche intellettualmente.

Pur tra varie difficoltà egli è riuscito a delineare una serie di nodi problematici che, in qualche modo, davano una dimensione teorico-politica più accessibile alla sua sofisticata teoresi degli anni precedenti. Questa dimensione più “popolare” – nel senso più nobile del termine – rimane ancora di grande attualità e offre importanti strumenti per comprendere la realtà contemporanea.

Un contatto importante di questa fase fu quello instaurato con la Rete dei Comunisti, alla quale Mazzone non ha mai aderito formalmente ma con la quale ha a lungo dialogato partecipando a conferenze e pubblicazioni da essa promosse; è dunque sembrato giusto coinvolgere questa organizzazione nel progetto editoriale. L’auspicio è che questi scritti possano contribuire alla ripresa di un dibattito teorico-politico di più alto livello, con possibili ricadute pratiche.

Riprendendo punti essenziali della migliore tradizione marxista, Mazzone ne ha operato una articolata e originale sintesi. I contributi raccolti in questo libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di questo sforzo. Esso si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda è dedicata alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una ipotetica società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo. A conclusione troviamo un importante contributo che getta un ponte tra la riflessione teorico-politica più diretta e la possibilità di un approfondimento di tipo più formale legato alla dimensione filologica della nuova edizione storico-critica delle opera di Marx ed Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA2), dove Mazzone stesso cerca di mostrare la rilevanza non solo accademica, ma storico-culturale – e quindi a fortiori politica – di questo tipo di operazione.


Prima di procedere a una ricostruzione a grandi linee dei principali nodi tematici affrontati da Mazzone, vorrei offrire un breve spaccato dell’esperienza intellettuale vissuta con lui negli anni della nostra frequentazione.

1. La mia frequentazione diretta con Alessandro Mazzone è durata quasi venti anni1. Con lui ebbi la mia prima lezione universitaria nell’ottobre del 1992; si trattava di un corso di Filosofia della storia in cui si leggeva la Filosofia del diritto di Hegel. Inutile negare che tutti noi studenti, per lo più al primo o al secondo anno, subimmo il fascino di un professore molto diverso dagli altri che avevamo o avremmo conosciuto. Eravamo giovani e ingenui, ma avevamo la chiara sensazione che, grazie a quelle lezioni, venivamo introdotti nel mondo rarefatto e sofisticato della vera filosofia, vale a dire del pensiero capace di pensare le cose. Non era come negli altri corsi, dove si faceva il conto dei libri per l’esame, tot pagine dal manuale, tot dal seminario, ecc., delle fotocopie fatte in copisteria senza la bibliografia per risparmiare i soldi. Era una cosa molto diversa. La consapevolezza che stavamo vivendo un’esperienza per molti aspetti unica ci spinse a tenere duro quando ci spaccavamo la testa sulle sottigliezze concettuali hegeliane; capivamo la differenza fra ripetere a pappagallo le formule trinitarie e comprendere la dialettica intrinseca della cosa nel suo svolgimento. Accettammo di studiare per un solo esame quanto altri non studiavano nemmeno per la tesi. Si creò in questo modo la comunità dei “mazzoniani”, un gruppo di strani personaggi innamorati della filosofia marx-hegeliana (ma anche aristotelica, spinoziana, lukacsiana, gramsciana e via dicendo), guidati da quella singolarissima figura che era Alessandro Mazzone. Difficile spiegare l’effetto delle sue lezioni a chi non vi abbia assistito. Era forse la percezione della incredibile profondità del suo sapere a impressionarci; come la sua capacità di leggere, parlare e scrivere in cinque o sei lingue (per noi che a stento parlavamo italiano). Ci sembrava, in poche parole, che il sapere stesse personificato di fronte a noi e che noi avessimo la grande occasione di parlare con lui guardandolo negli occhi. 
Con Mazzone abbiamo, tutti noi, imparato a studiare; abbiamo capito che senza una solida base teorica non si ha la strumentazione per capire un granché; che educazione popolare non significa banalizzare le cose difficili, ma fornire i mezzi per capirle. Così siamo cresciuti; abbiamo cercato di imparare le lingue, di leggere i classici, di pensare – pur con tutti i limiti personali – in grande. Questo è l’insegnamento umano e di metodo che Alessandro Mazzone ci ha dato. 
Nei primi anni novanta, i momenti tragici del “crollo”, continuare a studiare Marx “nonostante tutto” non fu uno sterile esercizio nostalgico, bensì un atto di coerenza e onestà intellettuale; non di acritica e irrazionale fedeltà alla bandiera, ma di utilizzo di un metodo investigativo e scientifico, per il quale era chiaro che solo con la strumentazione marx-hegeliana si poteva dare conto di ciò che era successo, comprenderlo, digerirlo e impararne, nel bene e nel male, la grande lezione storica. Si trattava di un terreno scivoloso che, per essere affrontato, aveva bisogno non di slogan ma, di nuovo, di strumentazione scientifica. La cultura e l’attività politica non erano quindi una cosa “pratica” nel senso più banale del termine. Ci appariva molto chiaro come il fare senza il sapere – la cultura dell’immediato si diceva – era il modo migliore per fare altro rispetto a quelle che erano le nostre pur sincere e disinteressate intenzioni; farsi strumentalizzare, fare il gioco del “nemico”. La pratica del sapere, degli educatori che devono essere educati, della prassi che deve essere pensata per non essere mero spontaneismo inconcludente (o “concludente” per altri) erano per noi acquisizioni importanti, che ponevano una distanza tanto dall’attivismo anarcoide, condito in diverse salse, quanto dal disfattismo della sconfitta assoluta, per cui si butta via tutto cadendo nella disperazione di chi scopre che la propria fede non è quella vera. No, Mazzone ci ha insegnato che se si è sbagliato, si cerca di capirne il perché con gli strumenti della ragione. 
Altro caposaldo del suo insegnamento, anch’esso decisamente marxiano, è il senso del limite e un’autocritica spietata. Questo perfezionismo esasperato era dettato da una rigorosa serietà scientifica e dal rispetto per la disciplina filosofica. Ciò suona particolarmente strano oggi, dove il sistema universitario incoraggia la pubblicazione a ogni costo. 
Mazzone ha pubblicato relativamente poco; i suoi testi però, per chi li abbia letti, sono di una densità sorprendente. Non sono stati scritti per avere una pubblicazione da aggiungere in coda ad altre, ma per tentare di mettere un mattoncino nel grande muro del sapere. In questo ambito sono da ricordare i suoi studi sulla teoria dell’ideologia e sul feticismo del capitale. Particolarmente acuta la sua riflessione sulla teoria del modo di produzione su cui dirò qualcosa più in dettaglio in seguito.
In questa densa elaborazione teorica, uno dei grandi meriti, direi quasi “storici”, di Alessandro Mazzone resta senz’altro l’introduzione in Italia degli studi filologici su Marx ed Engels sulla base della nuova 
edizione storico-critica delle loro opere, la Marx-Engels-Gesamtausgabe.
Questa grande opera mette per la prima volta a disposizione degli studiosi un’ingente massa di scritti inediti dei due autori, in particolare concernenti Il capitale ma non solo, che cambiano non semplicemente l’interpretazione, ma la stessa base testuale sulla quale essa viene ricostruita.
Non mi dilungo qui sulle novità apportate dal grande progetto e rimando a un’importante raccolta curata proprio da Mazzone2; mi preme solo ribadire, a chi non lo ricordasse o non lo sapesse, che a lui va attribuito questo merito, insieme a pochi altri, e che esiste ed è esistita in Italia una tradizione di studi sulla MEGA che affonda le sue radici addirittura negli anni settanta. 

2. La riflessione teorica di Alessandro Mazzone negli ultimi venti anni si era sviluppata intorno a temi di grande attualità e di vitale importanza per la teoria del Materialismo storico. I contributi raccolti nel libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di cui si è occupato e li articolano cercando di inquadrarli in una dimensione di teoria politica che, alla fine, prospetta delle ricadute pratiche più precise. 
a. Processo storico. La nozione chiave intorno alla quale ruota la ricerca di Mazzone, dalla quale poi si dipanano come conseguenza necessaria tutta una serie di complesse categorie secondarie, è quella di processo storico. È fin troppo popolare l’ingenua idea che tutto è storico, ovvero che tutto passa; quello che c’era ieri non c’è più oggi, quello che c’è oggi non ci sarà domani, ecc. Questo è quello che già Luporini chiamava “storicismo invertebrato”, ovvero il susseguirsi di momenti diversi, ma sostanzialmente indefiniti. Il cambiare degli individui non implica necessariamente storia vera e propria; singole diversità non implicano necessariamente differenza. Se in Toscana per es. per settecento anni circa l’agricoltura è stata organizzata in base al sistema della mezzadria, migliaia di contadini si sono avvicendati a zappare la terra, ma la storia complessiva è sempre stata la stessa: settecento anni di mezzadria. Diverse storie individuali della stessa Storia. Processo storico significa invece elaborare una teoria che cerchi di spiegare come funziona la logica di un determinato periodo nel suo complesso. Allo stesso modo è diverso studiare la mezzadria in Toscana e le modalità di funzionamento del sistema mezzadrile (che poi in Toscana avranno avuto una loro particolare attuazione), similmente è diverso studiare il capitalismo inglese dell’Ottocento, oppure italiano, oppure contemporaneo, e cercare invece di sviluppare una teoria che cerchi di spiegare quali sono in generale le regole di funzionamento del capitalismo (che poi sarà più specificamente coniugato in realtà storiche
e geografiche particolari). Quindi, pensare il processo storico non significa semplicemente tener conto del cambiamento dei singoli momenti; significa piuttosto trovare le leggi per cui possiamo dire che un determinato periodo è identificabile come qualcosa di unitario e ricostruire la logica per cui questo qualcosa di unitario non è immobile e stazionario, ma ha delle tendenze per cui si modifica internamente e determina uno sviluppo che, a un certo punto, può culminare in un cambiamento qualitativo. Qui cambiamento significa che quello che verrà dopo non sarà riconducibile alle leggi di ciò che c’era prima; esso funziona e si sviluppa in base a nuove leggi complessivamente diverse. Non è quindi semplicemente un istante successivo al precedente, ma una nuova fase storica, perché quell’istante successivo ubbidisce a logiche diverse. 
b. Natura e fasi storiche. Per sviluppare una simile teoria Mazzone, sulla scia di Marx e Hegel, cerca di tenere insieme due fili, continuità e discontinuità, a più livelli: fra natura e storia, fra diverse fasi storiche. L’essere umano fa parte della natura, è un animale. La storia umana è elemento integrante della storia naturale. Tuttavia ha delle sue particolarità specifiche che ne fanno qualcosa di qualitativamente diverso rispetto agli altri animali: l’essere umano è un momento del processo lavorativo. Su questa sua specificità si costruisce la sua peculiare vicenda, che tuttavia non è altro che uno dei tanti modi della natura. Questa è la base “materialista” del pensiero marxiano. È questa, fra l’altro, terra di confine con lo studio dell’evoluzione della specie, della preistoria, ecc.
Stabilita la continuità/discontinuità fra essere umano e natura, si tratta adesso di capire che l’essere umano in generale non esiste. L’astrazione dell’essere umano in generale è un prodotto stesso della vicenda umana che ha generato questa nozione astratta solo di recente, mentre in precedenza si avevano, per stare agli esempi classici, greci e barbari, liberi e schiavi, ecc. A non esistere era proprio l’idea che greci, barbari, schiavi e cittadini fossero tutti uguali in quanto esseri umani. La cosiddetta natura umana, tanto cara a molte versioni antropologiche del marxismo, è un terreno molto delicato dove si rischia spesso di cadere in braccio alle ideologie più reazionarie. Infatti, il problema è stabilire quali siano le caratteristiche astratte da attribuire a questo uomano transtorico. Marx in realtà indica poche e precise cose, ovvero la capacità di lavorare e gli elementi che interagiscono con l’uomo nel processo lavorativo (mezzo e oggetto di lavoro; il processo, guidato dalla posizione di scopo, ha esito in un prodotto esterno, altro rispetto alla fisicità stessa dell’uomo che lo realizza). Si ha invece spesso la tentazione di aggiungere a questo rarefatto mondo dell’astratto ulteriori caratteristiche, solitamente di carattere esistenziale, di solito legate alla temperie culturale del momento. Facili le ironie di Marx su tutto ciò. Leggere l’alienazione in termini prettamente esistenziali è la versione teoretica più nobile di questo errore basilare che è in realtà l’opposto di quello che Marx si prefigge, vale a dire sviluppare una teoria del farsi dell’umanità, del processo attraverso il quale l’effettiva esistenza di un soggetto umano collettivo, umano in astratto, diventa possibile nella storia (non è certo un punto di partenza bell’e fatto a cui regredire).

c. Modo di produzione e teoria delle classi. Da questi assunti deriva una interessante teoria delle classi. Esse non si definiscono in base ad una descrizione empirica o sociologica di gruppi di persone che agiscono in un atelier, in una fabbrica e via dicendo; e tanto meno dal modo in cui le persone interessate si autodefiniscono o si percepiscono. Si tratta piuttosto di una definizione funzionale. Dato il modo di produzione capitalistico, è altrettanto data una modalità specifica in cui gli elementi del processo lavorativo si uniscono; questi elementi non sono astratte essenze, ma sono “interpretati” da persone in carne ed ossa. Il lavoro vivo è potenziale nella corporeità del lavoratore libero dai mezzi di produzione.
Questa condizione non è un mero dato di fatto, ma ciò che lo definisce come forza-lavoro nel mondo capitalistico: non avere la disponibilità dei mezzi di produzione e quindi essere nella condizione di doversi vendere per poter dar vita al processo lavorativo. Le altre condizioni materiali del processo (mezzo ed oggetto di lavoro) compaiono di fronte a lui personificate in un individuo, il capitalista. Non si tratta quindi di caratteristiche della personalità o dell’indole di questo o quell’individuo, ma della funzione oggettiva che essi hanno nel processo. Questa funzione si determina dal ruolo che i singoli si trovano ad avere al suo interno. Per queste ragioni, la riproduzione sociale complessiva, l’estrinsecazione stessa delle potenzialità vitali dell’individuo, si realizza come momento della riproduzione del capitale. La direzione stessa e le finalità complessive, sociali di questo processo si manifestano come volontà e pratica del capitale. 
I modelli di processo storico dialettici come quello del modo di produzione capitalistico non implicano il semplice ripetersi meccanico degli stessi fenomeni. Il processo ha una tendenzialità interna che progressivamente porta a delle fasi in cui si danno nuovi equilibri e nuovi assetti che, ad un certo punto, implicano delle modifiche essenziali degli stessi punti di partenza del sistema. Questa dinamica comporta che il modo di produzione capitalistico generi, produca, esso stesso dei risultati epocali senza i quali non sarebbe possibile pensare non solo il nostro mondo contemporaneo, ma una possibile società futura. Sulla scia di Marx, secondo Mazzone il primo risultato storico del modo di produzione capitalistico è la creazione di una produttività “incondizionata”; ciò significa che essa è, da una parte, molto elevata, potenzialmente superiore ai bisogni umani. In secondo luogo essa è libera per quanto riguarda l’obiettivo del produrre; il modo di produzione capitalistico svincola, infatti, la produzione dalla soddisfazione del bisogno (ovvero dalla sua “naturale” funzione), in quanto mira al plusvalore; questa apparente distorsione è in realtà la via verso la libertà: lavorare per soddisfare il bisogno è un’azione eterodiretta, l’appropriazione di plusvalore cancella questa necessità. La 
società futura dovrà far tesoro di questa possibilità creata nel capitalismo, ovviamente non per produrre plusvalore, ma per decidere liberamente quali scopi porre alla produzione (dato appunto il “superamento” del bisogno).
Si direbbe che si tratta della hegeliana negazione della negazione. Si deve negare la prima negazione, ma conservandone il contenuto: va conservata la negazione dell’eterodirezione dello scopo operata dal modo di produzione capitalistico, vale a dire che non si lavora più solo perché bisogna mangiare; ma bisogna negare la natura capitalistica di questa “liberazione”, vale a dire la produzione di plusvalore. La libera società deve porre lo scopo, ormai libero, della produzione. Il concetto di essere umano in generale in astratto (le nozioni giuridiche di libertà ed eguaglianza connesse al concetto di libero scambio, per cui i contraenti debbono essere liberi e uguali) è uno dei tanti portati del modo di produzione capitalistico, quanto la realtà dell’umanità come soggetto contraddittoriamente unitario. Questo è quanto nella vulgata passa sotto il nome di globalizzazione, distorsione ideologica e strumentale di un processo in atto per cui la riproduzione del singolo individuo in ogni canto del mondo è interconnessa con quella di ogni altro individuo in un’altra parte. Questo implica decisioni mondiali per quanto riguarda la vita di ogni individuo: l’umanità non è più una mera astrazione (astrazione prodotta essa stessa dal modo di produzione capitalistico), ma un fatto pratico ed organizzativo. Pone problemi globali e richiede risoluzioni globali.
Queste sono acquisizioni epocali senza le quali non è possibile il passaggio ad una fase superiore, più sviluppata, della riproduzione umana. Questo implica che per Marx è utopistico ed inconsistente un ritorno alle origini, siano esse intese come essenza antropologica sia come storica produzione precapitalistica. L’umanità associata è un prodotto potenziale del modo di produzione capitalistico [mpc]. Esso stesso, ad un certo punto del suo proprio decorso storico, crea una situazione per cui uno sviluppo ulteriore non è più possibile all’interno del sistema (ed è lo stesso sistema che ha posto quelle condizioni): il mpc crea il concetto astratto di essere umano e lo nega di fatto con lo sfruttamento del lavoro salariato; crea le condizioni di una produttività incondizionata, ma permette di produrre solo ciò che valorizza il capitale; pone la possibilità di svincolare la produzione dal bisogno, ma permette di produrre solo ciò che crea plusvalore; crea un mondo unico, ma concepisce l’interazione solo come sfruttamento imperiale e colonialistico. Alla fine, il capitale è, coerentemente con la sua natura più intrinseca, il limite di se stesso. Negati e superati i propri punti di partenza, non riesce a dare pieno sviluppo a quelle potenzialità epocali cui esso stesso dà vita, anzi, le blocca. È il momento del conflitto obiettivo, che prima che politico è logico. Gli elementi funzionali che fino ad un certo punto, sempre in maniera contraddittoria e certamente non armonica, hanno determinato un avanzamento obiettivo del sistema entrano in conflitto tra di sé; il loro rapporto è adesso non più  solo individualmente, ma oggettivamente conflittuale, vale a dire che non produce più un avanzamento nel sistema stesso, ne blocca anzi ogni ulteriore potenziale sviluppo. Ciò non implica, come si è erroneamente ritenuto in passato, né un passaggio automatico a una società futura in virtù dei meri meccanismi della storia, né un necessario collasso del capitalismo. La finitezza logica di un modello definisce una struttura teorica che nella realtà non esiste mai perfettamente; essa si complica e articola con ulteriori variabili e circostanze che certo non ne permettono una teorizzazione totale. Entra qui in gioco l’elemento preponderante dell’azione dei soggetti politici organizzati che, dato quel quadro strutturale, giocano la loro partita.
Il passaggio a una nuova società più giusta e razionale richiede dunque un’ulteriore elaborazione del concetto di classe che permetta di precisare alcuni passaggi in precedenza solo accennati. Classe, lo si è visto, ha una sua fondazione obiettiva, ovvero non dipende dall’autodefinizione soggettiva degli attori, ma dalla loro funzione obiettiva nel processo stesso. 
Le modalità con cui oggettivamente la produzione va organizzandosi determinano un’egemonia di classe nella conduzione del processo stesso. Qui egemonia, categoria di evidente ispirazione gramsciana, non va intesa nel senso limitatissimo di influenza delle idee di Tizio su quelle di Caio; tale riduzionismo tutt’ora in voga è ben altra cosa. Qui egemonia significa che l’organizzazione fattuale della riproduzione sociale complessiva, pur sempre all’interno delle dimensione capitalistica, include molti elementi di autoregolazione razionale, come ad es. la co-gestione dei lavoratori, le cooperative (di una volta), il relativo controllo/pianificazione da parte dello stato di vasti settori fondamentali dell’economia. Questi elementi di socialismo nel capitalismo, man mano che si sviluppano e generalizzano, ne trasformano la natura e determinano una progressiva socializzazione della produzione, un’egemonia di classe. Esiste naturalmente un risvolto autocoscienziale di questo processo obiettivo, per cui la dimensione soggettiva praticata può più o meno corrispondere alla dimensione oggettiva. Questo compito di trasformazione delle coscienze non è marginale ed è esso stesso momento del processo obiettivo e può essere od entrare in contraddizione con la pratica. 

3. Pubblicare i testi di Alessandro Mazzone non è una mera operazione commemorativa. La difficile situazione politica e culturale, la crisi profonda che sta attraversando la società borghese occidentale a causa della fase crepuscolare del capitalismo pone domande ed interrogativi ai quali le scienze sociali faticano a trovare risposta. Dopo un periodo di rimozione, il pensiero dialettico – che ha avuto in Marx e Hegel due dei suoi rappresentanti di spicco – è tornato in auge, proprio per la sua capacità di fornire una strumentazione non solo utile ma insostituibile. 
Questa nobile tradizione ha visto in Mazzone non solo un erede, ma un degno continuatore. L’associazione Laboratorio critico, i saggi qui raccolti, un più ampio dialogo tra forze in grado di promuovere approcci critici e alternativi costituiscono non solo un segno della vitalità di questa tradizione, ma un contributo concreto per comprendere il mondo e, auspicabilmente, per trasformarlo. 

Friday 16 September 2022

Tuesday 6 September 2022

Multiverso.Letture - Roberto Fineschi "La logica del capitale. Ripartire da Marx"



Luca Timponelli, sfidando gli arcaici mezzi di trasporto locali, è stato così gentile da venirsene a Siena a intervistarmi per conto dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Abbiamo chiacchierato a lungo del mio libro la Logica del capitale, che ha recensito con precisione e acume. Grazie!



Sunday 8 May 2022

Letture.org. Intervista a R. Fineschi su “La logica del capitale. Ripartire da Marx”


“La logica del capitale. Ripartire da Marx” di Roberto Fineschi


Prof. Roberto Fineschi, Lei è autore del libro La logica del capitale. Ripartire da Marx edito dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: quali condizioni consentono oggi una nuova lettura dell’opera di Karl Marx?

Le condizioni sostanziali sono due. La prima è di carattere scientifico: la nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe, MEGA2) sta mettendo a disposizione per la prima volta nella storia della ricezione marxiana una serie di testi fondamentali prima inaccessibili. Essi hanno cambiato la faccia di alcune delle opere fondamentali di Marx come i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ‘44, L’ideologia tedesca e, soprattutto, Il capitale. Il Marx che possiamo leggere oggi non è quello che è stato letto fino ad oggi.
La seconda è di carattere storico-politico. Senza esprimere sommari giudizi sulla storia novecentesca, è un dato di fatto che qualunque movimento politico organizzato ha bisogno di una dottrina certa e immutabile su cui basare la propria azione. Il marxismo inevitabilmente aveva ingessato il pensiero di Marx. L’ortodossia sovietica aveva poi finito per influenzare anche le posizioni anti-sovietiche o eclettiche. Al di là della valutazione che si voglia dare di queste esperienze (e sarebbe insensato liquidarle con sufficienza), è evidente che il venir meno di questo contesto nel suo complesso ha senz’altro permesso un più libero approccio al testo di Marx.

Quali nuove interpretazioni un’analisi filologicamente rigorosa della teoria marxiana?

In primo luogo non bisogna cadere nell’ingenuità di cancellare le interpretazioni passate semplicemente perché non avevano tutti i testi a disposizione. Si tratta di un complesso e stratificato dibattito secolare che ha prodotto risultati importanti e, date certe premesse, credo anche definitivi. Lo stesso testo di Marx, soprattutto per il suo carattere incompiuto, permette sicuramente anche letture multiple che possono trovare appigli importanti nel testo. Detto questo, credo che, grazie ai testi ora disponibili, sia possibile un tentativo di ricostruzione più filologico di ciò che Marx ci ha lasciato. Una testualità più precisa a mio parere permette di considerare alcune delle interpretazioni storiche, anche quelle sviluppate fino alle estreme conseguente, come in sé coerenti, ma forse meno corrispondenti alle intenzioni marxiane.

Gli esempi sarebbero molti e per questo ne sceglierò solo uno ma significativo: la teoria del valore-lavoro e il problema della trasformazione. L’impostazione tradizionale, che ha tenuto banco fino agli anni ‘70 quando si è sostanzialmente conclusa, per semplificare, con i contributi di Sraffa e Steedman, si basa su parti esigue del testo marxiano: i primi due paragrafi del primo capitolo del primo libro e il nono capitolo del terzo libro. Alla luce di essi, quel dibattito è sicuramente valido ed è giunto a conclusioni nella sostanza definitive. Una lettura di quei testi nel più ampio contesto in cui sono inseriti mostra invece, a mio parere, che tale interpretazione regge solo limitando fortemente l’impianto complessivo della teoria. In primo luogo la stessa espressione fondamentale “valore-lavoro” è semplicemente assente nei testi marxiani (l’ha inventata Böhm-Bawerk… paradossi della ricezione); in secondo luogo Marx parla espressamente di merce e denaro, solo all’interno della cui esposizione si danno sostanza, grandezza e, soprattutto, forma di valore. Non c’è dubbio filologico possibile che proprio quest’ultima categoria sia quella cui Marx dà assoluta preminenza ed essa addirittura scompare nel dibattito tradizionale. Nuovi testi pubblicati per la prima volta nella MEGA confermano ulteriormente questa preminenza. Anche per quanto riguarda il terzo libro, che in realtà è un torso largamente incompleto scritto negli anni ‘60 e quindi sicuramente meno elaborato del primo libro, si ignora completamente il capitolo decimo (secondo la numerazione dell’edizione engelsiana) in cui Marx introduce una nuova categoria fondamentale che è quella di valore di mercato che tiene conto dei problemi di realizzazione delle merci prodotte. Essa è pure scomparsa nell’interpretazione tradizionale. Parlando di merce e denaro da una parte, di valore di mercato dall’altra, la questione tradizionale più che una diversa soluzione ha un’impostazione complessiva alternativa.

Più in generale, i manoscritti e la loro stratificazione fanno emergere chiaramente la questione centrale dei livelli di astrazione e della rideterminazione delle categorie in questa articolazione successiva. Il dibattito tradizionale ha trattato parzialmente questa questione parlando di capitale in generale e concorrenza. Anche qui si è perso di vista un ulteriore livello di astrazione che invece emerge chiaramente dai manoscritti, vale a dire credito e capitale fittizio, il tentativo marxiano di impostare la questione dell’accumulazione fittizia in rapporto a quella reale, cioè la finanza e il suo ruolo cruciale nella riproduzione complessiva del capitale.

Che relazione esiste tra Hegel e Marx?

Il tema è quanto mai complesso e storicamente molto stratificato nelle interpretazioni. Anche in questo caso una più precisa testualità, in questo caso anche hegeliana, permette di riprendere le fila del discorso su basi filologicamente più precise. Un limite del dibattito tradizionale è stato, in primo luogo, non mettere quasi mai in dubbio che la lettura marxiana di Hegel fosse ineccepibile. Si può invece mostrare come essa sia fortemente condizionata dal contesto culturale in cui avvenne. Si deve dunque distinguere tra la ricezione marxiana di Hegel e un confronto tra Marx e Hegel su basi critico-filologiche che non necessariamente coincide con il primo. Per es. la centralità che il giovane Marx dà alle categorie “hegeliane” di alienazione ed estraneazione si dimostra eccessiva e alterante rispetto al testo hegeliano. Oppure le critiche di idealismo/spiritualismo rivolte a Hegel sono molto legate alla lettura feuerbachiana, ma forse non corrispondenti alla lettera hegeliana, almeno a giudicare dalle interpretazioni più recenti del filosofo berlinese. In questo contesto, credo che il tratto di continuità più forte ed efficace sia la dialettica; il mio libro è in fondo il tentativo di mostrare come tutta la teoria marxiana del capitale sia strutturata e sviluppata dialetticamente. Proprio la ricostruzione di questa struttura dialettica consente a mio avviso di affrontare diversamente – e prospettare una soluzione a – molte delle questioni rimaste irrisolte nel dibattito tradizionale.


Come si è andata formando la teoria marxiana del modo di produzione capitalistico?

È stato un processo lungo, complesso e… incompiuto. Dell’ambizioso piano complessivo in sei libri (capitale, lavoro salariato, rendita, stato, commercio estero, mercato mondiale), Marx ha realizzato, senza finirlo, il primo mettendoci elementi del secondo e del terzo. La sua stesura è iniziata più concretamente nel 1857/8, biennio di redazione dei cosiddetti Grundrisse, cui sono seguiti altri due “Grundrisse”, vale a dire i Manoscritti del 1861-63 e quelli del 1863-65, usciti per la prima volta integralmente nella MEGA, per poi pubblicare 2 edizioni tedesche (1867, 1872/3) e una francese (1872-5) del primo libro del Capitale e per poi, infine, redigere svariati manoscritti per il secondo e alcuni per il terzo libro (1867-1883). Gli scritti che precedono il 1857 sono di grande importanza per tracciare il percorso di formazione di molte idee fondamentali di Marx, ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarli, soprattutto perché sono quasi sempre “contro”, ovvero documentano il processo di comprensione, critica e superamento delle idee attraverso cui Marx si forma, senza però che egli giunga a una formulazione propria, non più solo “critica” ma sistematica e propositiva. Una teoria complessiva non solo del “capitalismo” ma della modernità nel suo complesso, vale a dire non meramente “economica” ma sociale a 360°, inizia solo con il 1857: una teoria della storia, del suo sviluppo, del conflitto, dell’ideologia, ecc. tutto in uno. Tentativo ambizioso effettivamente, ma quello è il livello a cui voleva confrontarsi, la totalità del sistema sociale capitalistico.

In questo contesto è importante distinguere tra modo di produzione capitalistico e capitalismo, o meglio capitalismi, vale a dire tra una teoria generale di un sistema economico-sociale in astratto e i capitalismi esistenti che con essa non coincideranno mai e che prevederanno livelli di complessità ed articolazione che come tali mai saranno identici alla teoria astratta. Insomma, Marx non parla meramente del capitalismo della rivoluzione industriale, ma dei meccanismi di un sistema complesso che, nelle sue linee generali, è tuttora in essere.

Quali questioni solleva la ricostruzione della teoria complessiva del capitale da Lei svolta?

È un libro sicuramente ambizioso, perché va a toccare quasi tutte le questioni tradizionali più scottanti e cerca di reimpostale in maniera alternativa. In questo contesto, mi permetto di ribadirlo ancora una volta, è essenziale la nuova base testuale. Altrimenti, poiché su Marx si è sostanzialmente già detto tutto anche in maniera estremamente documentata e sofisticata, prima o poi si finisce per rigirarsi in discorsi già fatti.

Più concretamente, facendo alcuni esempi, le questioni più rilevanti sono quelle del metodo e dello statuto epistemologico della dialettica (quindi del rapporto con Hegel), del valore e della trasformazione (più correttamente ricollocate nella prospettiva di merce/denaro, valore di mercato), dei livelli di astrazione (quattro e non i due del dibattito tradizionale), del ruolo centrale dell’ultimo di questi (credito e capitale finanziario, scomparso nell’edizione engelsiana), la questione della continuità e discontinuità storica e dei limiti del metodo dialettico (il materialismo storico), dei soggetti storici (lavoro salariato e non solo classe operaia).

A mio modo di vedere, se riletto in quest’ottica, la teoria di Marx non solo ha molto da dire nella comprensione del mondo contemporaneo, ma è addirittura una delle poche che ne spiega le dinamiche di fondo. Gli esempi classici che si fanno sono la cosiddetta globalizzazione, l’aumento della produttività del lavoro, la crisi, il conflitto e molti altri. È paradossale che in occasione della spaventosa crisi degli ultimi due decenni, a fronte di migliaia di cattedre di macroeconomia capillarmente distribuite in tutte le università, non si sia trovato di meglio che rispolverare la teoria della crisi del vecchio Moro. Forse è proprio una strumentazione teorica cui non si può rinunciare.


Il libro non tratta direttamente questioni politiche o storico-politiche. Direi però che pone le premesse per una discussione critica anche di esse, soprattutto nella definizione dei soggetti storici e della dinamica di lungo periodo del modo di produzione capitalistico. È un dato di fatto che, mentre nelle previsioni “economiche” Marx ha sostanzialmente anticipato in maniera corretta gli sviluppi futuri, in quelle politiche si è spesso sbagliato. È un tema complesso che però, inquadrato nella prospettiva dei livelli di astrazione cui sopra accennavo, credo possa trovare una risposta o quanto meno il modo di essere trattato criticamente.

Per concludere direi che questo libro non è un tentativo meramente erudito di riprendere dei temi classici alla luce della filologia per cercare di salvare Marx dalle critiche storiche. Si tratta piuttosto di una ricostruzione che mira a mostrare l’attualità e l’estrema efficacia di quella teoria se intesa in termini secondo me più corretti; ne mostra del resto la incompiutezza e i punti in cui è possibile riprenderla e approfondirla alla luce dei cambiamenti storici successivi.

Friday 15 April 2022

Roberto Fineschi, Discussione intorno al senso della guerra

Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra.
Il video è disponibile a questo link.
Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento.


Discussione intorno al senso della guerra
di
Roberto Fineschi

Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.
  
 
La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più
politically correct
ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha. Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi. Il tratto comune è che se si instaura una società che in qualche modo argina la violenza anarchica dello stato di natura a livello interno, il problema si ripropone a livello esterno nelle relazioni internazionali in cui, di nuovo, i singoli funzionano come atomi anarchici. Secondo alcuni la loro interazione porta naturalmente a un equilibrio tra forze contrapposte e, alla fine, stabilisce un ordine che non è necessariamente giusto o bello, ma è un ordine. Invece secondo altri quest'ordine va costruito in qualche modo replicando la dimensione contrattualistica attraverso istituzioni terze che riescano, da una posizione
super partes, a riconciliare e ricomporre il dissidio atomico dell'anarchia. Le ultime vicende hanno rilanciato sicuramente approcci realistici o neorealistici: il sistema instabile in cui ci troviamo dalla fine prima del bipolarismo della guerra fredda e poi con la crisi di un potenziale unipolarismo degli Stati Uniti come potenza egemone mondiale costituiscono un sistema dall’equilibrio instabile in cui varie forze cercano i propri spazi di una possibile ricomposizione generale; qui l'elemento della guerra è drammaticamente una carta da giocare, una carta che è stata giocata non solo adesso in Ucraina ma anche varie altre parti del mondo. Questo non significa ridurre tutte le guerre a tattica geopolitica; sicuramente esistono motivazioni interne e specifiche di crisi della società ucraina che preesistono sicuramente alla guerra attuale e che anzi l'hanno preparata; su di esse però insistono anche interessi più generali che tuttavia hanno un peso notevole anche nelle dinamiche interne.
    Secondo me la teoria di Marx aggiunge degli elementi d'analisi utili alla comprensione di come queste forze internazionali e nazionali agiscono nel tentativo di dire la loro, di imporsi. Un problema delle teorie realiste o comunque di quelle che si basano sull'idea degli Stati come soggetti individuali risiede infatti nella limitata capacità di stabilire quali siano le motivazioni e soprattutto il contesto strutturale in cui questi stati agiscono. La logica di potenza, di potere ecc. sicuramente sono un elemento decisivo, ma probabilmente astratto, o meglio parziale
; non permettono di comprendere a 360 gradi le ragioni profonde o, quantomeno, riducono la complessità delle cause che spesso non è riconducibile solo alle decisioni dei singoli governi. Secondo Marx non ci sono gli astratti Stati che agiscono; essi si collocano in configurazioni peculiari che hanno delle caratteristiche storicamente determinate e che rispondono a una logica specifica che di fatto crea un contesto economico, sociale e politico solo all'interno del quale esiste una gamma di scelte possibili; contesto che non coincide, anzi trascende la somma delle singole decisioni individuali, spesso
sovradeterminandole. Ignorare questo aspetto – e non lo dice solo Marx, ben inteso - non permette di cogliere appieno la gamma del possibile, le alternative sul tavolo di fronte agli effettivi attori politici che poi prendono decisioni. Questa cornice Marx la chiama modo di produzione capitalistico, un sistema di riproduzione sociale che non parla dell'essere umano in generale, della società in generale ma di una strutturazione peculiare che ha un andamento determinabile e che appunto pone dei confini a questo andamento.
    Pare impossibile, anche senza essere marxisti, marxiani o in qualunque modo si voglia connotare un orientamento di questo tipo, negare che nel modo di produzione capitalistico il motore fondamentale dell'azione è la la valorizzazione del capitale: essa è la condizione è la conditio sine qua non che fa sì che il sistema stia in piedi, non semplicemente che si decida di fare la guerra o non fare la guerra: è una condizione non solo storica o fattuale, ma ontologica di esistenza della modernità. Questa precondizione così astratta si configura poi in sistemi più complessi che, al di là del capitale in generale, includono chiaramente capitalismi storicamente, geograficamente determinati eccetera. Tutto ciò implica delle dinamiche che, a lungo andare, secondo Marx in qualche modo modificano la natura stessa del capitalismo in una maniera che sostanzialmente mina le basi stesse su cui esso si fonda. In questo senso, generalizzando ancora di più, la teoria del capitale è una teoria dialettica in cui l'idea di conflitto, di auto-contraddittorietà è intrinseca al sistema. È la natura stessa della realtà che, nel modo di produzione capitalistico, si caratterizza come processo di valorizzazione che, a un certo punto, mette in crisi le stesse condizioni di tale processo; il capitalismo non si riproduce in maniera circolare ma crescendo su se stesso, raggiungendo, a un certo punto, una condizione per cui mette in crisi il funzionamento “naturale” del processo di valorizzazione.
    Quali sono gli elementi che lo caratterizzano: l'impiego sempre più massiccio di tecnologie, di macchine, i progressi della scienza che Marx non poteva neanche immaginare che aumentano la produzione del plusvalore relativo, che parallelamente escludono una massa crescente di forza-lavoro determinando quindi una disoccupazione di massa, una sovraproduzione di massa, tutte condizioni che di fatto mettono in crisi il meccanismo della valorizzazione. Questa condizione strutturale, qui solo brevemente richiamata, la chiamo capitalismo crepuscolare; un elemento chiave di questa fase consiste proprio nell'incapacità del sistema di mantenersi e progredire semplicemente sulle basi del meccanismo “naturale” di valorizzazione. Ci sono degli ostacoli che il sistema stesso da solo non riesce a rimuovere, si incarta in se stesso.
    Se questa è la cornice generale in cui la dinamica fondamentale si muove, essa delimita essa i confini all’interno dei quali l'azione politica, l'intervento di istituzioni può di fatto agire come fattore che toglie gli inceppi, che fa ripartire in qualche modo il processo. Ciò può essere fatto in maniera pacifica attraverso il welfare state, l'investimento statale sia economico e sociale (i cosiddetti meccanismi keynesiani), ma in realtà si può anche intervenire attraverso mezzi violenti: è sostanzialmente possibile imporre condizioni di valorizzazione che non sarebbero “naturali”, che non si realizzerebbero cioè in base allo sviluppo del modo di produzione capitalistico per com'è. Alterando in maniera “extra-economica” questi vincoli, di fatto si permette una valorizzazione.    
    Che c’entra questo con la guerra? Una delle possibilità, non necessariamente l’ unica ma una delle possibilità sul tavolo, è ricorrere alla violenza per imporre determinate condizioni di valorizzazione o per bloccare condizioni di valorizzazione di capitali mossi da altri paesi o che nascono in altre nazioni; il ricorso alla violenza e alla guerra come manifestazione principe della violenza, come violenza organizzata, statuale e perpetrata con mezzi di distruzione massicci, può rientrare in un quadro di questo tipo, cioè può diventare una delle carte da giocare, o addirittura, in certi casi, un'ottima carta.
    Nella situazione attuale, senza parlare direttamente dell'Ucraina, è evidente che, oltre alla dimensione specifica, esiste un problema di ricollocazione mondiale tra potenze che rappresentano grandi sistemi: chiaramente gli Stati Uniti da una parte, la Cina dall'altra, la Russia in una posizione intermedia (per non parlare dei cosiddetti “paesi emergenti”). I sistemi di penetrazione sono diversi tra loro: da una parte la Cina penetra con la sua capacità produttiva, di egemonia reale grazie alla quale entra comprando, costruendo, facendo investimenti. È una modalità che è impossibile fuori dalla Cina perché si realizza grazie alla sinergia tra capitale privato e capitale pubblico, che in maniera coordinata fanno operazioni che non sarebbero possibili in un sistema puramente capitalistico, dove nessuno appoggerebbe in maniera così forte investimenti che non è sicuro che diano un ritorno garantito. Le grandi istituzioni finanziarie cinesi lo fanno perché è una decisione politica, legata alla proprietà statuale di esse. Nel capitalismo puro questo non succede perché la banca, l'investitore agisce solo con la garanzia di un ritorno. Ciò dà alla Cina un vantaggio competitivo notevole.
    Da una parte c'è dunque un paese in grande espansione produttiva, commerciale, finanziaria che sicuramente vede nella Russia un possibile alleato, se non altro temporaneo, dall'altra c'è la grande forza tradizionale statunitense, probabilmente in declino, che non
riesce a competere a questi livelli e che chiaramente considera la guerra come una delle possibilità. In realtà tutti la considerano, ma il vantaggio degli Stati Uniti è quello di essere il più forte da un punto di vista militare.
    Con ciò non si vuole ridurre la complessa questione solo alle dinamiche imperialiste statunitensi; le variabili io gioco sono più ampie e includono altri interessi di terzi altrettanto poco nobili. Il punto è che in un quadro complessivo di questo tipo, la guerra è una delle carte che queste grandi potenze possono giocare, in particolare quelle che, per i motivi detti, hanno più interesse e vantaggio nel farlo. In questo momento la condizione di equilibrio internazionale è frammentata; se la posta in gioco è ridiscutere le condizioni, in un sistema a capitalizzazione difficile sicuramente la possibilità della guerra è una di quelle che i “decisori” considerano.
    Vorrei infine aggiungere che Marx permette di considerare altri tipi di guerra e altri tipi di conflittualità che per adesso sono rimasti sottotraccia. Il gioco delle potenze internazionali
ha anche una dinamica interna, nazionale, fatta altrettanto di conflitti. Senza voler tirar fuori il conflitto di classe, chiamiamolo pure come si preferisce, pare evidente che all'interno della società cinese, russa, italiana, statunitense in questo momento c'è una fase di conflittualità potenziale estrema dovuta proprio alla crisi del modo di produzione capitalistico, che non solo non garantisce più il pieno impiego, ma che sta producendo disoccupazione di massa, impoverimento costante dei ceti medi eccetera eccetera. Per farla breve, Marx tenta di mettere insieme la dinamica interna nella sua proiezione esterna come parte di un processo articolato, ma unitario. Aggiunge quindi, secondo me, degli strumenti interessanti per tentare di comprendere questa complessità in cui la dimensione della violenza, della guerra, risultano essere intrinseche alla crisi profonda, di sistema, del modo di produzione capitalistico. Ciò non significa né che esso crolli, né che ci sia la rivoluzione, né chissà cosa; però è evidente l’esistenza di una crisi profonda le cui dinamiche producono la guerra come una delle sue possibili variabili.

Thursday 14 April 2022

Discussione intorno al senso della guerra

Discussione intorno al senso della guerra

Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sulla guerra al quale sono stato gentilmente invitato.
Non ho detto niente che non avessi già scritto, ma è stata una bella occasione anche per confrontarsi con insigni colleghi da punti di vista diversi.


Sunday 27 March 2022

Diario di guerra. Riflessioni sull'Ucraina guardando alla bigger picture.

Copio qui per comodità una serie di post messi su facebook a partire dal 6 di marzo sul tema della guerra in Ucraina, cercando di collocarla nel più ampio quadro solo all'interno del quale acquista a mio parere un senso compiuto.


March 6 at 12:07 PM
In un momento così tragico, al netto della retorica diritto-umanista, le domande interessanti secondo me sono le seguenti.
Dato che era evidente che continuando a forzare la mano la Russia sarebbe intervenuta (ed era evidente che si stava organizzando per intervenire), perché Zelensky lo ha fatto? E dunque: in che misura le sue scelte sono state concordate con la Nato?
Una possibilità è che lo abbia fatto di sua iniziativa immaginando che poi lo avrebbero protetto. Questa sì sarebbe stata una vera pazzia. Considerando il tipo non lo si può escludere al 100%, ma, ripeto, sarebbe vera follia.
Una seconda possibilità è che gli sia stata promessa una qualche forma concreta di protezione. Se così fosse, con quale strategia? Un impegno diretto significherebbe guerra mondiale e Biden ha chiarito che non si sarebbe mosso direttamente. Ma una guerra combattuta attraverso intermediari ucraini ha scarse possibilità contro l’esercito russo. Dunque era calcolato sin dall’inizio che gli ucraini erano mera carne da macello?
Se così fosse, dunque, sulla pelle degli ucraini, a che cosa si mira?
- Un obiettivo era indebolire politicamente l’Unione Europea e riportarla nei suoi ranghi e questo lo si è ottenuto facile facile (ma ce n’era bisogno?).
- Impantanare la Russia in una sporca guerra per indebolirla?
- Creare una frattura insanabile tra potenziali partner economici in possibile crescita anti-USA (UE e Russia)?
- Seguire la tattica adottata nelle ultime campagne, vale a dire destabilizzare un’area per renderla non competitiva per un lungo periodo?
Tutte ipotesi ovviamente. Un effetto collaterale prevedibile però è avvicinare Russia e Cina (e altri potenziali partner emergenti che stanno stretti nel corrente ordine mondiale). L’avranno sicuramente messo in conto. Quindi?




March 7 at 6:45 PM
Se lo dice anche il prof. John Mearsheimer



YOUTUBE.COM
Putin's Invasion of Ukraine Salon | Ray McGovern, John Mearsheimer
Prof. John Mearsheimer, political scientist, University of ChicagoRay McGovern, former C.I.A





March 13 at 9:22 AM ·
Bisogna prendere atto che a migliaia di persone che manifestano per la pace non crei alcun problema che durante l'evento parli chi è oggettivamente responsabile in grandissima misura della piega che hanno preso gli eventi, sia per la gestione interna della crisi profonda che divide l'Ucraina, sia per averla collegata a questa folle escalation internazionale. Non solo, come suo solito continua a spingere sull'acceleratore invocando la no fly zone che sarebbe l'anticamera della guerra globale. Gridare "pace" e appoggiare Zelensky significa gridare "guerra".
Quali siano i veri obbiettivi in tutto ciò dell'amministrazione a stelle e strisce è ancora difficile dirlo. Pare però già evidente che a essere danneggiate sono l'Europa e le fiorenti relazioni economiche con la Russia. Si vuole tirar su un nuovo muro invalicabile? Rimettere al loro posto le esuberanti ambizioni tedesche (e in subordine francesi)? Far capire agli europei che la loro appartenenza a un mondo pacificato è sempre sub judice e revocabile, se necessario?
Sarà interessante capire come le cancellerie di questi paesi, al di là delle roboanti affermazioni, cercheranno di ricomporre la faccenda, ma quello che è sicuro è che a pagare il prezzo più alto saranno le classi subalterne in tutte le nazioni coinvolte, senza bandiera.




March 15 at 6:37 PM ·
A questo link, notizia delle 17:57, Zelensky prende atto che la NATO non interverrà... e pare dire: "però me lo avevate promesso"...
Si ride per non piangere. E piangono in tanti a causa di questi folli a cui sta bene scatenare una possibile guerra mondiale senza neppure rendersi conto, se non troppo tardi, che sono burattini nelle mani di altri. Altri che poi li lasciano a farsi macellare da un nemico 1000 volte più forte.



ILFATTOQUOTIDIANO.IT
Guerra Russia-Ucraina, la diretta - Putin a Michel: "Kiev non è seria nei negoziati". Zelensky: "Non entreremo nella Nato, ammettiamolo". Uccisi




March 16 at 8:11 PM ·
Vassallaggio in ultima istanza
A proposito di mondo libero, credo si possa ricordare, in occasione dell'anniversario della morte, la tragica vicenda di Aldo Moro.
Senza voler entrare nel merito di nulla, basti ricordare che nella task force governativa la quasi totalità dei membri apparteneva alla P2 e una buona parte è risultata pure a libro paga della CIA, soprattutto i capi dei servizi segreti. Ingerenze?
Ovvio, si dirà, c'era la guerra fredda, bisognava salvare il paese dalla minaccia comunista, quindi quelle erano le regole del gioco da seguire nel grande conflitto internazionale.
Giustissimo. Se però si accetta che quelle sono le regole del gioco della Realpolitik, allora bisogna sbandierare con minore veemenza la bandiera della libertà e dell'autodeterminazione... e accettare l'idea del vassallaggio, diciamo, in ultima istanza.
Il vassallaggio in ultima istanza è probabilmente migliore del puro dominio (ma esiste un puro dominio senza egemonia?). Ampliare i margini tra ultima istanza e dominio diretto è senz'altro un qualcosa che in occidente consideriamo acquisito e credo sicuramente un progresso. Però non ci inganniamo sulla natura delle cose e sulla revocabilità di questi margini al bisogno e che di vassallaggio comunque si tratta.




March 18 at 7:19 AM
"In fact we started our assistance to Ukraine before this war began"
Be', se lo dice lo stesso Biden che ha ragione Putin, bisogna rassegnarsi...
Con tutti questi armamenti a pioggia che non vanno solo all'esercito ma ai "civili", la strategia che si delinea pare quella del "pantano" e di una pace difficile anche se si trovasse l'accordo con il governo e l'esercito ufficiale. Dare ai russi un nuovo Afghanistan (anche per fagliela pagare per aver vinto in Siria).
A vantaggio delle mire geo-strategiche dei soliti noti. A vantaggio dei produttori di armi (uno delle lobby più influenti). A svantaggio dei legami Russia-Europa, a svantaggio della Cina che non ha nulla da guadagnare da tanta instabilità e si trova costretta a prendere una posizione. A svantaggio della popolazione inerme in Ucraina, degli statunitensi poveri (circa un terzo della popolazione, intorno a 100 milioni di persone) cui forse tutti quei soldi gioverebbero di più, a svantaggio nostro sia per il rischio di escalation, sia perché questo massacro lo stiamo finanziando anche noi.
Che pelo sullo stomaco bisogna avere per usare parole come libertà, uguaglianza, democrazia e investire sempre di nuovo milioni di dollari per provocare una situazione che, lo si sa benissimo, porterà morte, guerra e devastazione?
I sempre più difficili processi di valorizzazione del capitalismo crepuscolare.



YOUTUBE.COM
Biden pledges additional 800 million dollar aid to Ukraine
President Joe Biden responds to Ukrainian President Volodymyr Zelensky's remarks to Con







March 20 at 8:06 AM ·
Fare la pace o fare la guerra?
Per fare la pace bisogna ovviamente volerlo; e lo devono volere tutti i soggetti in campo. La domanda è dunque se essi vogliano effettivamente fare la pace. A questo punto bisogna ulteriormente chiedersi chi sono gli attori in campo.
Per rispondere è necessario da subito mettere da parte tutta la retorica diritto-umanista: parlare della questione accettando questo terreno di confronto significa da subito omettere le cause reali, gli obiettivi reali, le strategie reali. Del resto tutti i soggetti in causa hanno dato ampia dimostrazione in un passato recente e remoto di quanto stiano loro a cuore i diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli: sono tutti delle belve sanguinarie.
Ma chi sono? Stati Uniti da una parte, Russia dall’altra. Chi sono coinvolti? Cina e Stati Europei ricchi.
Qual è l’oggetto del contendere? Prima ancora della concretezza geopolitica, lo sfondo su cui tutto ciò accade è la difficile valorizzazione del capitale tipica del capitalismo crepuscolare.
Grandi Stati Europei, Russia e soprattutto Cina stanno da anni sviluppando delle importanti convergenze di sviluppo economico. Il grande progetto della via della seta prospetta all’orizzonte un’integrazione di sistema che va dalla Spagna alla Cina e passa anche dall’Africa dove gli interessi cinesi sono crescenti. I cinesi non arrivano con i carri armati, ma con una montagna di investimenti, coi soldi, insomma: comprano per produrre ricchezza. La loro è un’egemonia strutturale che si insinua con una rete capillare possibile solo grazie al sistema di investimento che include la collaborazione tra grande capitale pubblico e privato che agiscono in maniera coordinata. Per questo riescono a mettere in piedi investimenti che il capitalismo “disordinato” occidentale non può realizzare. In questa lotta *l’oggetto del contendere è l’Europa occidentale*, sia come mercato di assorbimento, sia come sistema produttivo.
Gli Stati europei, al di là dei loro timidi, miopi e maldestri tentativi di organizzarsi in proprio, sono stati vassalli degli US. Questa condizione di vassallaggio è stata garantita sia manu militari con la vittoria della II guerra mondiale e tutte le trame della guerra fredda, sia per via economica con ricchi investimenti, la linfa su cui si è costruito il loro benessere. Alcuni di questi stati ora mordono il freno, anche perché il benessere (ma in realtà il benessere è solo riflesso della valorizzazione del capitale) non pare più così garantito e si cercano nuove strade che includono vantaggiosi rapporti (già esistenti e in via di ulteriore sviluppo) con Cina e Russia. Gli Stati Uniti, con un’economia in difficoltà, non possono permettere che ciò accada, ma non riescono a vincere sul piano economico. La valorizzazione del grande capitale a stelle e strisce (non degli “americani”: molti “americani” sia negli Stati Uniti che nel resto del continente non hanno nulla da guadagnare dalla politica dei loro amministratori) è incline a percorrere vie non strettamente economiche. Per esempio, per far sì che si consumino i propri prodotti, si può agire in modo che i prodotti degli altri non riescano ad arrivare per la distruzione delle reti commerciali, oppure semplicemente per costrizione: dovete comprare i nostri anche se non vi converrebbe. D’altro canto si può creare consenso affinché avvenga un consumo forzoso di beni particolari (armamenti) comprati dallo Stato; creare dunque una domanda altrimenti inesistente e cospicua per uno dei settori trainanti dell’economia nazionale (la vecchia corsa agli armamenti). Questo anche a svantaggio dei ceti popolari nazionali di cui ovviamente all’amministrazione centrale interessa il giusto.
Insomma, staccare l’Europa ricca dall’Asia e tenerla, a suo svantaggio, dentro il meccanismo di valorizzazione del capitale a stelle e strisce. Secondo me è questa la posta in gioco. Se è questa, si capisce bene la politica NATO (che significa classi dirigenti degli Stati Uniti) di allargamento a est sviluppata da decenni e la creazione della trappola ben congegnata che, tenendo conto delle mire di Putin, non poteva non scattare. L’obiettivo è insomma *tirare su un nuovo muro*, che divida l’Europa non solo dalla Russia, ma anche dalla Cina.
Se tutto questo ha un senso, la guerra c’è perché fa parte di un piano strategico a stelle e strisce. Loro vorranno fare la pace (non certo Zelensky che è solo uno strumento; e per l’amministrazione a stelle e strisce gli ucraini solo carne da cannone) solo quando questo obiettivo sarà consolidato. Quindi vogliono che il pantano raggiunga un livello di fangosità a ciò idoneo e che, allo stesso tempo, le industrie militari e del gas lucrino abbastanza. Divide et impera.
Il capitalismo crepuscolare mette in campo meccanismi di accumulazione “irrazionali” dal punto di vista del vantaggio economico, nel senso che certi capitali egemoni si valorizzano ponendo condizioni coercitive allo sviluppo del sistema di produzione e consumo affinché si valorizzino loro a discapito di altri che invece si valorizzerebbero senza quelle condizioni “artificiali”. È una sorta di neocolonialismo di rapina. Ci si può chiedere quanto possa stare in piedi nel lungo periodo, ma i fantomatici “decisori” ragionano in base alla possibilità di sopravvivenza di se stessi, non del sistema. Che loro non siano necessari al sistema (venir meno dopo un’eventuale sconfitta con i competitors) o che il sistema non esista (venir meno perché non si gioca più), messa in questi termini è per loro la stessa cosa: verrebbero meno.
La speranza è che il buon senso, nel senso dello stabilire in maniera non violenta nuove regole globali del processo di valorizzazione, prevalga. A questo fine gli US devono accettare che non ci sono più solo loro e che sono in declino e gli altri devono accettare di pagare un bel dazio affinché stiano buoni.




March 21 at 7:34 PM ·
Poiché imperversa una propaganda senza pudore, a uso di chi in buona fede - e pure animato da buone intenzioni - ne cade vittima, volevo rimarcare alcuni concetti credo di buon senso:
1) Criticare, anche aspramente, Zelensky e la Nato non significa pensare che Putin abbia ragione.
2) Se le politiche di Zelensky e della Nato sono concausa della situazione attuale (e pare difficile negare che sia così), appoggiare Zelensky significa gettare benzina sul fuoco, ovvero volere la guerra. Ciò però non significa che si debba fare quello che vuole Putin e nemmeno che la sua Russia sia un modello di civiltà a cui si ispira chi critica Zelensky e la Nato.
3) Se si vuole la pace, la strada da percorrere è quella diplomatica che non taccia delle *reciproche* responsabilità e che cerchi di sanare sia l'aspro dissidio interno all'Ucraina (non tutti sono con i nazionalisti o addirittura con i neonazisti, anzi il paese sembra politicamente molto diviso), sia il suo riverbero internazionale.
4) Che l'escalation della guerra possa portare a un conflitto mondiale è un pericolo purtroppo tutt'altro che astratto. Quindi non è tanto difendere Putin, ma evitare la distruzione del pianeta (degli Ucraini, dei Russi, degli Italiani, ecc.). La speranza è che con un po' di buon senso si cominci a ponderare le scelte, soprattutto tra l'opinione pubblica che può mettere pressione ai "decisori".




March 22 at 10:00 AM ·
Rimaniamo razionali
Se non ha alcun senso ridurre tutta la cultura statunitense al razzismo e al dispotismo del capitale, nessuno ne ha ridurre la cultura russa alla politica del suo presidente attuale.
Giusto come promemoria, qualche nome a caso che credo tutti considerino parte del patrimonio culturale *mondiale*:
Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’ (ucraino universalmente considerato uno dei più grandi scrittori russi), Majakovskij, Nabokov, Kandinskij,
Malevich, Ejzenshtejn, Tarjovsky, Tchaikovsky, Stravinsky, Borodin,
Rachmaninov, Shostakovich, Prokofev, Pavlov, Vygotskij, Lurija, Nureev e molti altri ancora.




March 24 at 8:20 PM ·
Fare la pace significa non fare la guerra
Pare che alcuni abbiano difficoltà nel cogliere il nesso tra volere la pace e non fare la guerra: vuoi la pace se e solo se non fai la guerra.
Ne segue che se fai la guerra, non vuoi la pace.
Se dunque Zelensky fa la guerra (e vuole continuare a farla) e si appoggia Zelensky, non si vuole la pace (anche se si sventola la bandiera della pace).
Diciamo dunque serenamente che chi appoggia militarmente in maniera diretta o indiretta Zelensky non vuole la pace ma vuole vincere la guerra. Che l’Italia nella *guerra* si schiera dalla parte dell’Ucraina zelenskiana e combatte a suo fianco contro la Russia.
L’Italia per Costituzione però non solo non contempla, ma *ripudia* la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Se la Costituzione ripudia la guerra e l’Italia fa la guerra, il governo ripudia la Costituzione.
Come vuole la stragrande maggioranza degli italiani (nonostante una campagna mediatica con pochi precedenti, con tanto di democratiche rimozioni o ridicolizzazioni di chi non si mostri entusiasta per la guerra), il governo deve muoversi per una soluzione diplomatica.




March 26 at 15h ·
Tra l’incudine e il martello
Ho cercato di argomentare altrove quali siano, a mio parere, i veri motori della guerra corrente (scontro interimperialistico tra forze concorrenti, con l’attore principale economicamente in via di declino ma militarmente più forte. La povera Ucraina nel mezzo) (https://www.facebook.com/roberto.fineschi/posts/5218200028200733?__cft__[0]=AZWGfDdCXQgPFLLOjLpOTe_Y80pVHqFjc7DxTuIrs7U36_M7r336HSylBrH0bGtGlstIY8TIHmjuBX1Rk8DyXuqMk61oktdYK9lncXsBtUM1JeDsZidgRJrcPyfu9ujMhmI&__tn__=%2CO%2CP-R) .
L’Europa e l’Italia che ruolo possono giocare? Questi paesi hanno convenienza e tessere relazioni con Cina e Russia e già lo stanno facendo. Questa guerra è, tra le altre cose, sicuramente un richiamo all’ordine, soprattutto alla Germania, l’unico dei paesi europei in grado dire la sua sul grande tavolo mondiale. Se questo richiamo all’ordine danneggia le economie europee, le condizioni sono tali per cui per esse sganciarsi dagli US non è possibile, sia per motivi militari, sia perché legarsi ad altri nuovi padroni è un’incognita. Sì, perché la decisione è a quale padrone in ultima istanza sottostare. Fatti tutti i conti per ora si preferisce il vecchio.
L’incapacità di trasformarsi in un soggetto politico effettivo rende i singoli paesi europei marginali nelle trattative internazionali e la politica neomercantilistica tedesca, che ha prosciugato gli altri paesi senza pietà, sicuramente non ha creato consenso affinché la Germania possa giocare un ruolo di leadership effettivamente unitaria. Speravano che spolpando gli altri poi avrebbero potuto sedere autonomamente al tavolo dei grandi. Questa doccia fredda li riporta alla dura realtà del vassallaggio.
Insomma, l’amministrazione a stelle e strisce, che ha congegnato il tutto affinché le cose prendessero questa piega, almeno per adesso sembra ottenere diversi risultati a sé utilissimi: 1) Russia in un pantano, 2) Europa (Germania) punita per la sua esuberanza, 3) progetto della Via della Seta reso molto complesso nel suo terminale europeo (nuovo muro tra est e ovest), 4) commesse militari e gas alle stelle per super profitti delle grandi corporation.
Pare che il ragionamento sia di giocare la partita fino a quando la si può gestire da una posizione militare di forza. Bisognerà vedere fino a che punto vorranno spingersi per costringere i vari dissidenti a piegarsi. Sono però sempre di più quelli, alcuni alleati storici, che iniziano a percepire che forse il vento sta cambiando.
Per salvaguardare la pace mondiale forse ci si potrebbe sedere intorno a un tavolo e fare le buone vecchie spartizioni; ciò lascerebbe il mondo la merda che è, ma almeno eviterebbe la guerra mondiale. Date le circostanze attuali questo pare a me l’obiettivo minimo da auspicarsi.
Gli “staterelloni” europei (soprattutto Germania e Francia) forse potrebbero avere un ruolo se si muovessero in questa direzione, partendo dalla de-escalation della guerra.




April 3 at 6:40 PM ·
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Dominio senza direzione? Europa a un bivio?
Seppur fornendo rigenerati articoli di seconda mano (residuati bellici della Repubblica Democratica Tedesca), la Germania ha deciso di armare l’esercito di Zelenski. Il paese che forse economicamente ne aveva più motivo ha dunque deciso di rinunciare a fungere da paciere. In cambio le è stato garantita una possibilità di riarmo ancora più ampia?
Il Regno Unito spinge Zelenski a non cercare la pace, ma continuare la guerra per negoziare da rapporti di forza migliori.
Gli Stati Uniti stanno d’altra parte facendo pressioni a quei paesi che non si sono allineati minacciando rappresaglie se acquisteranno dalla Russia le eccedenze dovute alle sanzioni.
Sempre più evidente dunque la volontà Nato di portare avanti una guerra a bassa intensità in cui la Russia si impantani a lungo. Con conseguenze economiche rilevanti e grande drenaggio (furto) di ricchezza dai portafogli europei direzione US (anche varie imprese locali hanno ovviamente il loro tornaconto, come armamenti e fornitori e mediatori di energia).
Dati i rapporti di forza, i paesi occidentali, tuttora militarmente semi-occupati, non possono probabilmente fare altrimenti, anche se ci rimettono. Ma può essere un’operazione a contropartita zero? Pura forza? Se così fosse, inizierebbe qui una nuova fase in cui gli alleati hanno solo paura senza prospettive generali di vantaggio. Solo dominio e niente direzione? Diventerebbe una dinamica potenzialmente pericolosa e instabile.
Ad aumentare l’instabilità verranno le elezioni. Nonostante il bombardamento mediatico a reti unificate, una larga parte tacitata dell’opinione pubblica è tuttora contro la spedizioni di armi e in favore delle trattative; sarà interessante vedere che cosa succederà dopo diverse bollette del gas a mille euro, dopo la sospensione o chiusura di attività per insostenibilità economica (il vecchio conto della serva: costa più di quello che rende). Già ora una larghissima parte dell’elettorato disprezza il governo in carica (quindi praticamente anche tutti i partiti, essendo esso sostenuto da tutto l’arco parlamentare a parte la Meloni che fa finta di essere all’opposizione); lo dimostra semplicemente non andando a votare. Le prossime elezioni in Francia e Italia potrebbero dare delle belle sorprese. Siccome però un’alternativa non esiste (basti vedere come sono tornati all’ovile gli esuberanti pentastellati, ma anche i leghisti di belle speranze, lo stesso Zelenski in Ucraina), come sarà gestita la crescente conflittualità sociale che già cova sotto la cenere e che sarà sicuramente ravvivata dalle conseguenze economiche della guerra?
Se chi è preposto starà sicuramente già lucidando i manganelli, come si può immaginare a lungo andare un equilibrio nazionale e internazionale in cui chi gestisce le fila solo prende e non spartisce? Che domina con la mera forza?
La necessità di un tavolo in cui ci si accordi su spartizioni e margini di manovra si impone. Certo non sembra questo l'orientamento a stelle e strisce, ma la difficoltà del compito non toglie che questa sia forse l'unica alternativa che possa garantire stabilità.




April 5 at 11:53 PM ·
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Come già scrivevo, la pace non si farà, almeno per un po', perché chi ha brigato di più perché le cose prendessero questa piega lo ho fatto con l'intenzione di fare la guerra e affinché la guerra diventasse un pantano. Ovviamente guerra per interposta nazione.
Se la logica che supponevo ha un senso, nell'ottica dei suoi promotori, più la guerra dura, meglio è. Anzi, il lento logorio è la modalità ideale.
A fare la pace hanno interesse tutti gli altri. Ma la Russia non può certo fare marcia indietro. I paesi europei sono troppo legati al primo motore e, anche se ci rimettono, devono fare buon viso a cattivo gioco. La Cina, comprensibilmente, non intende esporsi troppo per non rischiare di impantanarsi pure lei. Insomma, per ora la maggioranza sta alla finestra a vedere un po' che piega prendono le cose. Fare la pace, per ora, non è nell'agenda di *nessuno*.
Viene da chiedersi però se prima o poi questi nazionalisti prenderanno coscienza che il loro sogno (delirio?) patriottico porta dritto dritto alla distruzione della propria nazione, alla morte della propria gente. Si renderanno conto, prima o poi, di essere pedine?



April 15 at 10:32 AM ·
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Discussione intorno al senso della guerra, di Roberto Fineschi
Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra. Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento.
Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.
La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più politically correct ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha. Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi. Il tratto comune è che se si instaura una società che in qualche modo argina la violenza anarchica dello stato di natura a livello interno, il problema si ripropone a livello esterno nelle relazioni internazionali in cui, di nuovo, i singoli funzionano come atomi anarchici. Secondo alcuni la loro interazione porta naturalmente a un equilibrio tra forze contrapposte e, alla fine, stabilisce un ordine che non è necessariamente giusto o bello, ma è un ordine. Invece secondo altri quest'ordine va costruito in qualche modo replicando la dimensione contrattualistica attraverso istituzioni terze che riescano, da una posizione super partes, a riconciliare e ricomporre il dissidio atomico dell'anarchia. Le ultime vicende hanno rilanciato sicuramente approcci realistici o neorealistici: il sistema instabile in cui ci troviamo dalla fine prima del bipolarismo della guerra fredda e poi con la crisi di un potenziale unipolarismo degli Stati Uniti come potenza egemone mondiale costituiscono un sistema dall’equilibrio instabile in cui varie forze cercano i propri spazi in una possibile ricomposizione generale; qui l'elemento della guerra è drammaticamente una carta da giocare, una carta che è stata giocata non solo adesso in Ucraina ma anche varie altre parti del mondo. Questo non significa ridurre tutte le guerre a tattica geopolitica; sicuramente esistono motivazioni interne e specifiche di crisi della società ucraina che preesistono sicuramente alla guerra attuale e che anzi l'hanno preparata; su di esse però insistono anche interessi più generali che tuttavia hanno un peso notevole anche nelle dinamiche interne.
Secondo me la teoria di Marx aggiunge degli elementi d'analisi utili alla comprensione di come queste forze internazionali e nazionali agiscono nel tentativo di dire la loro, di imporsi. Un problema delle teorie realiste o comunque di quelle che si basano sull'idea degli Stati come soggetti individuali risiede infatti nella limitata capacità di stabilire quali siano le motivazioni e soprattutto il contesto strutturale in cui questi stati agiscono. La logica di potenza, di potere ecc. sicuramente sono un elemento decisivo, ma probabilmente astratto, o meglio parziale; non permettono di comprendere a 360 gradi le ragioni profonde o, quantomeno, riducono la complessità delle cause che spesso non è riconducibile solo alle decisioni dei singoli governi. Secondo Marx non ci sono gli astratti Stati che agiscono; essi si collocano in configurazioni peculiari che hanno delle caratteristiche storicamente determinate e che rispondono a una logica specifica che di fatto crea un contesto economico, sociale e politico solo all'interno del quale esiste una gamma di scelte possibili; contesto che non coincide, anzi trascende la somma delle singole decisioni individuali, spesso sovradeterminandole. Ignorare questo aspetto – e non lo dice solo Marx, ben inteso - non permette di cogliere appieno la gamma del possibile, le alternative sul tavolo di fronte agli effettivi attori politici che poi prendono decisioni. Questa cornice Marx la chiama modo di produzione capitalistico, un sistema di riproduzione sociale che non parla dell'essere umano in generale, della società in generale ma di una strutturazione peculiare che ha un andamento determinabile e che appunto pone dei confini a questo andamento.
Pare impossibile, anche senza essere marxisti, marxiani o in qualunque modo si voglia connotare un orientamento di questo tipo, negare che nel modo di produzione capitalistico il motore fondamentale dell'azione è la la valorizzazione del capitale: essa è la conditio sine qua non che fa sì che il sistema stia in piedi, non semplicemente che si decida di fare la guerra o non fare la guerra: è una condizione non solo storica o fattuale, ma ontologica di esistenza della modernità. Questa precondizione così astratta si configura poi in sistemi più complessi che, al di là del capitale in generale, includono chiaramente capitalismi storicamente, geograficamente determinati eccetera. Tutto ciò implica delle dinamiche che, a lungo andare, secondo Marx in qualche modo modificano la natura stessa del capitalismo in una maniera che sostanzialmente mina le basi stesse su cui esso si fonda. In questo senso, generalizzando ancora di più, la teoria del capitale è una teoria dialettica in cui l'idea di conflitto, di auto-contraddittorietà è intrinseca al sistema. È la natura stessa della realtà che, nel modo di produzione capitalistico, si caratterizza come processo di valorizzazione che, a un certo punto, mette in crisi le stesse condizioni di tale processo; il capitalismo non si riproduce in maniera circolare ma crescendo su se stesso, raggiungendo, a un certo punto, una condizione per cui mette in crisi il funzionamento “naturale” del processo di valorizzazione.
Quali sono gli elementi che lo caratterizzano: l'impiego sempre più massiccio di tecnologie, di macchine, i progressi della scienza che Marx non poteva neanche immaginare che aumentano la produzione del plusvalore relativo, che parallelamente escludono una massa crescente di forza-lavoro determinando quindi una disoccupazione di massa, una sovraproduzione di massa, tutte condizioni che di fatto mettono in crisi il meccanismo della valorizzazione. Questa condizione strutturale, qui solo brevemente richiamata, la chiamo *capitalismo crepuscolare*; un elemento chiave di questa fase consiste proprio nell'incapacità del sistema di mantenersi e progredire semplicemente sulle basi del meccanismo “naturale” di valorizzazione. Ci sono degli ostacoli che il sistema stesso da solo non riesce a rimuovere, si incarta in se stesso.
Se questa è la cornice generale in cui la dinamica fondamentale si muove, essa delimita i confini all’interno dei quali l'azione politica, l'intervento di istituzioni può di fatto agire come fattore che toglie gli inceppi, che fa ripartire in qualche modo il processo. Ciò può essere fatto in maniera pacifica attraverso il welfare state, l'investimento statale sia economico e sociale (i cosiddetti meccanismi keynesiani), ma in realtà si può anche intervenire attraverso mezzi violenti: è sostanzialmente possibile imporre condizioni di valorizzazione che non sarebbero “naturali”, che non si realizzerebbero cioè in base allo sviluppo del modo di produzione capitalistico per com'è. Alterando in maniera “extra-economica” questi vincoli, di fatto si permette una valorizzazione.
Che c’entra questo con la guerra? Una delle possibilità, non necessariamente l’ unica ma una delle possibilità sul tavolo, è ricorrere alla violenza per imporre determinate condizioni di valorizzazione o per bloccare condizioni di valorizzazione di capitali mossi da altri paesi o che nascono in altre nazioni; il ricorso alla violenza e alla guerra come manifestazione principe della violenza, come violenza organizzata, statuale e perpetrata con mezzi di distruzione massicci, può rientrare in un quadro di questo tipo, cioè può diventare una delle carte da giocare, o addirittura, in certi casi, un'ottima carta.
Nella situazione attuale, senza parlare direttamente dell'Ucraina, è evidente che, oltre alla dimensione specifica, esiste un problema di ricollocazione mondiale tra potenze che rappresentano grandi sistemi: chiaramente gli Stati Uniti da una parte, la Cina dall'altra, la Russia in una posizione intermedia (per non parlare dei cosiddetti “paesi emergenti”). I sistemi di penetrazione sono diversi tra loro: da una parte la Cina penetra con la sua capacità produttiva, di egemonia reale grazie alla quale entra comprando, costruendo, facendo investimenti. È una modalità che è impossibile fuori dalla Cina perché si realizza grazie alla sinergia tra capitale privato e capitale pubblico, che in maniera coordinata fanno operazioni che non sarebbero possibili in un sistema puramente capitalistico, dove nessuno appoggerebbe in maniera così forte investimenti che non è sicuro che diano un ritorno garantito. Le grandi istituzioni finanziarie cinesi lo fanno perché è una decisione politica, legata alla proprietà statuale di esse. Nel capitalismo puro questo non succede perché la banca, l'investitore agisce solo con la garanzia di un ritorno. Ciò dà alla Cina un vantaggio competitivo notevole.
Da una parte c'è dunque un paese in grande espansione produttiva, commerciale, finanziaria che sicuramente vede nella Russia un possibile alleato, se non altro temporaneo, dall'altra c'è la grande forza tradizionale statunitense, probabilmente in declino, che non riesce a competere a questi livelli e che chiaramente considera la guerra come una delle possibilità. In realtà tutti la considerano, ma il vantaggio degli Stati Uniti è quello di essere il più forte da un punto di vista militare.
Con ciò non si vuole ridurre la complessa questione solo alle dinamiche imperialiste statunitensi; le variabili io gioco sono più ampie e includono altri interessi di terzi altrettanto poco nobili. Il punto è che in un quadro complessivo di questo tipo, la guerra è una delle carte che queste grandi potenze possono giocare, in particolare quelle che, per i motivi detti, hanno più interesse e vantaggio nel farlo. In questo momento la condizione di equilibrio internazionale è frammentata; se la posta in gioco è ridiscutere le condizioni, in un sistema a capitalizzazione difficile sicuramente la possibilità della guerra è una di quelle che i “decisori” considerano.
Vorrei infine aggiungere che Marx permette di considerare altri tipi di guerra e altri tipi di conflittualità che per adesso sono rimasti sottotraccia. Il gioco delle potenze internazionali ha anche una dinamica interna, nazionale, fatta altrettanto di conflitti. Senza voler tirar fuori il conflitto di classe, chiamiamolo pure come si preferisce, pare evidente che all'interno della società cinese, russa, italiana, statunitense in questo momento c'è una fase di conflittualità potenziale estrema dovuta proprio alla crisi del modo di produzione capitalistico, che non solo non garantisce più il pieno impiego, ma che sta producendo disoccupazione di massa, impoverimento costante dei ceti medi eccetera eccetera. Per farla breve, Marx tenta di mettere insieme la dinamica interna nella sua proiezione esterna come parte di un processo articolato, ma unitario. Aggiunge quindi, secondo me, degli strumenti interessanti per tentare di comprendere questa complessità in cui la dimensione della violenza, della guerra, risultano essere intrinseche alla crisi profonda, di sistema, del modo di produzione capitalistico. Ciò non significa né che esso crolli, né che ci sia la rivoluzione, né chissà cosa; però è evidente l’esistenza di una crisi profonda le cui dinamiche producono la guerra come una delle sue possibili variabili.

April 24 at 10:22 AM ·
Incudini e martellate
L’ennesima guerra dal sempre più evidente profilo imperiale presenta probabilmente un salto di qualità rispetto alle numerosissime già viste negli ultimi decenni: *l’Europa è tra gli obiettivi*. Non solo l’Europa “marginale” (Serbia e Kosovo), ma quella forte, minacciata nei suoi interessi vitali: senza il gas russo buona parte del sistema manifatturiero va a gambe all’aria. Target principale: Germania.
Gli europei, e la Germania in primis, ci mettono del loro, non volendo creare un’effettiva comunità economica in grado di competere al livello di USA e Cina, ma di questo il grande capitale a stelle e strisce può solo ringraziare a monte.
Quale sia il target è chiaro ai principali attori europei, Germania e Francia soprattutto, le uniche ad avere una rispettabilità internazionale, che hanno cercato una de-escalation prima che la guerra scoppiasse, ma poi hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Siccome però la posta in gioco è troppo alta - si rischia il declassamento a periferia del mondo, disoccupazione di massa, ecc. - non si può non cercare una strada alternativa e questi paesi si stanno muovendo (la contromossa imperialista potrebbe essere stimolare una conflittualità interna, solleticando la grandeur francese e cercando di isolare la Germania, ma vedremo). Il governo italiano, non contando niente, non può che aspettare il decorso degli eventi, ma sarà interessante vedere come reagirà l’imprenditoria industriale italiana di fronte al rischio di scomparire, chi appoggerà per esempio alle prossime elezioni. È del resto molto indicativo che, nonostante un’informazione a senso unico, una percentuale molto alta degli intervistati dimostri di aver capito bene a che gioco si sta giocando. Chi voteranno?
Si preannuncia una grande instabilità, con poche certezze, tra cui quella solita: il costo maggiore ricadrà sulle masse subalterne.

April 25 at 10:32 AM ·
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25 aprile anti-fascista
Il 25 aprile non è una festa di liberazione nazionale, ma di liberazione dal nazi-fascismo. Infatti, i nazionalisti e i filo-fascisti italiani non l'hanno mai festeggiata, piuttosto l'hanno sempre apertamente osteggiata e denunciata come divisiva.
Infatti è divisiva: è contro il fascismo e le sue ramificazioni in forme diverse.
L'antifascismo durante la Resistenza e prima è stato principalmente comunista. Con la liberazione, tutte le forze anti-fasciste si sono messe insieme creando un arco costituzionale giustamente più ampio che comprendesse democratico-cristiani, liberali, azionisti, ecc. Le forze borghesi democratiche, tutte concordi del votare pagina rispetto alla disastrosa esperienza del ventennio. La Costituzione è stato il loro fiore all'occhiello.
Con la guerra fredda però il quadro è cambiato e anche le alleanze. I vecchi fascistoni facevano ora comodo nel quadro della difesa *atlantica*. Il vassallaggio di fatto del nostro paese è stato garantito, come oramai è emerso anche a livello giudiziario, da manovre che hanno utilizzato come manovalanza il vecchio armamentario fasciostoide, sia dentro che fuori le istituzioni, e che era gestito a livello *NATO*.
Si dirà, era la guerra fredda, meglio così, altrimenti ora saremmo in Italia nelle condizioni sociali ed economiche dell'est europa.
Tutto giusto, ma fatta questa concessione, che si crede perspicace, il giochino è già finito:
1) si riconosce che non c'è autodeterminazione dei popoli ma legittime zone di influenza;
2) si riconosce che è legittimo tramare sotto traccia, cioè al di là o al di fuori della legge, per legittimi interessi internazionali;
3) si butta cioè all'aria tutto il castello del sedicente ordine democratico che invece, *al bisogno*, si vorrebbe utilizzare contro il nemico di turno.
Venendo al caso corrente, il governo ucraino è fortemente nazionalista, le istituzioni hanno significative presenze neonaziste, e ha praticato politiche fortemente repressive nei confronti delle regioni russofone. Ah, ha messo fuori legge dei partiti, quello comunista con circa il 15% dei voti.
Per farla breve: sia la NATO che l'attuale governo ucraino con il 25 aprile non c'entrano niente.
Con il 25 aprile non c'entra niente neanche Putin, autocrate dalla mano pesante. Che Putin sia quello che è non significa necessariamente che chi è contro Putin sia meglio... dipende dalle ragioni e dai contenuti.
Ha però forse senso fare un ragionamento più ampio: gli ideali e le aspirazioni del 25 aprile non sono correntemente l'obiettivo politico di alcun partito di livello nazionale. Questo è forse il vero oggetto di riflessione e non si può dire semplicemente che si tratta di mancanza di memoria storica, di formazione, ecc. ecc., questo è solo un elemento. A mio modo di vedere, la questione di fondo è che le dinamiche economiche e sociali del capitalismo crepuscolare producono il fascismo come possibilità reale. Se non si agisce a questo livello, non c'è retorica anti-fascista che abbia possibilità di successo. In questa prospettiva, ci sono in questo momento più domande che risposte. L'inevitabile risultato è lo smarrimento e l'insignificanza politica. È forse di nuovo il momento di lavorare für ewig.



  Anche sul canale youtube di Laboratorio Critico il video dell'incontro con Giorgio Cesarale sulla società civile hegeliana. Per ch...