Sunday, 12 October 2025

Mazzini e il Risorgimento

Mazzini e il Risorgimento


Un taglio un po’ nazionalistico più che patriottico nel senso mazziniano quello del Museo del Risorgimento, ma questo in fondo è la grande questione interpretativa della sua eredità spirituale e politica: popolo come legame di sangue o popolo come luogo della sviluppo della civiltà democratica?
Forse in Mazzini ci sono un po’ tutti e due, ma la natura sinceramente democratica, seppur entro i limiti borghesi, basata su libertà e eguaglianza e paritaria partecipazione alla costruzione della vita politica comune credo siano gli elementi costitutivi che tagliano le gambe all’interpretazione fascista che fa più leva sul lato romantico, sulla missione, ma che omette di essere il fascismo un movimento razzista e discriminatorio, vincolo che esclude la cittadinanza nazionale come momento costruttivo di quella universale.
E il fascismo fu il “compimento” del risorgimento, sì, ma in tutti i suoi aspetti negativi, genericamente nazionalistici e classisti.


I limiti della posizione mazziniana - interclassismo, incapacità di concepire un ruolo attivo delle masse contadine, sacralità della proprietà privata, ecc. - sono classicamente dibattuti.
Il punto nodale però è che i temi risorgimentali sono sostanzialmente scomparsi (museo deserto e non so dire quanto frequentato), da una parte per il suo carattere antipopolare che lo ha reso poco utilizzabile dalle forze progressiste se non come avviamento di un processo che poi si sarebbe compiuto con ben altre svolte (lotta di classe, rivoluzione proletaria, ecc.), e da rivendicare più per il suo slancio battagliero (Garibaldi) che per l’effettiva capacità pratica. Dall’altra perché anche il fascismo superstite post seconda guerra mondiale è stato sostanzialmente manovalanza atlantista e ora sudditanza smaccata e poco dignitosa.
Neppure il fascismo del ventennio, nonostante la sua propaganda nazionalista e populista, è riuscito a far braccia nell’atavica paura e timore nei confronti delle istituzioni di gran parte della popolazione… e a ben ragione per la sua soluzione violenta del conflitto di classe e per la tragedia della guerra in cui ha condotto il paese.

Forse quello che il Risorgimento ci può ancora insegnare è in negativo, ovvero quali sono stati i limiti di un movimento potenzialmente emancipatorio, animato anche da leader di buona volontà e sincera ispirazione democratica, che però non hanno saputo che pesci prendere da un punto di vista di obiettivi, organizzazione e strategia. E hanno infatti perso, salvo poi essere trasformati dai loro nemici vincitori in icone da sventolare loro malgrado o cui issare monumenti equestri (Mazzini morto nascosto con una condanna a morte sulla testa, Garibaldi al confino).


Ma poi hanno perso anche i loro nemici e non ha vinto nessuno. Ha vinto il capitale di un altro paese che ora progetta di succhiarci il sangue fino all’ultima goccia. E si capisce che qui emergono di nuovo due prospettive conflittuali: quella dell’orgoglio nazionale (fascisteggiante) e quella dell’emancipazione sociale che come tale non ha base nazionale di per sé, ma è di classe, quindi di struttura economica e non di popolo.
Ciò detto non si può non fare i conti con le condizioni attuali e con ciò che concretamente è possibile fare seppur in minima misura.
Contribuire alla salvaguardia e allo sviluppo sociale, date le condizioni attuali, non può ignorare la dialettica dello stato nazionale e del suo collocamento negli equilibri mondiali. Rispetto ai tempi risorgimentali, sono tuttavia completamente diverse le carte in gioco e la questione nazionale, in un contesto di schieramenti transnazionali con delle leadership immensamente più grandi, rischia di trasformarsi in una gabbia.

Non significa fare campismo, ma prendere semplicemente atto della cruda realtà per cui uno sviluppo sociale per adesso si realizza pesantemente anche in un contesto nazionale (diritti sociali, politiche del lavoro, fiscali, dei redditi, ecc. sono gestiti e si gestiscono attraverso lo stato) ma che ciò avviene tuttavia nel contesto della guerra dei mondi, in cui l’Italia, o chi per lei, da sola ha poca (o nessuna) voce in capitolo, né alcuna prospettiva di sviluppo se non come momento subalterno delle dinamiche maggiori. È in questo spazio in cui si opera, tra salvaguardia dei diritti sociali a livello locale, collocamento proficuo nel contesto internazionale e prospettive di emancipazione di lungo corso. Anche perché il vecchio padrone vuole il sangue nostro, ma lo avrà via interposta persona, ovvero grazie alle politiche del nostro governo.
Questo non lo si può fare senza ipotizzare processi egemonici che tengano in qualche modo conto della “questione nazionale”, ovvero degli interessi di altre classi o ceti che possono convergere verso obiettivi comuni di sopravvivenza.

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