Tuesday, 11 November 2025

Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?

 Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?


Dopo la visita a Genova al museo del Risorgimento e quella recente alla mostra di Fattori, si sprigionano riflessioni risorgimentali, non patriottiche ma, come sempre, problematiche. 

Gli scritti mazziniani sono infuocati, retoricamente straordinari ma teoreticamente poco efficaci. Messi insieme permettono di delineare i caratteri fondamentali del suo pensiero nei termini più volte enunciati, con i suoi pregi e i suoi limiti. La domanda generale è quella che mi ponevo qualche tempo fa: ha un qualche senso avere coscienza dei processi storico-sociali (Risorgimento) che hanno portato alla creazione di qualcosa che non era mai esistito prima (lo Stato italiano), delle dinamiche che, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno alla fine prodotto un connubio di persone che chiamiamo italiani e che neppure era mai esistito in precedenza; avere o meno consapevolezza se in questo processo, largamente egemonizzato da posizioni moderate se non esplicitamente reazionarie, non ci siano pur stati dei momenti alti, delle figure significative (non come singoli isolati, ma come simbolo di gruppi sociali in lotta) che con la loro azione e le loro idee, con l’esempio, il sacrificio personale, non gli abbiano conferito una connotazione democratica, letteralmente strappandola alle forze liberali e fasciste che hanno sempre fatto il possibile, con le buone e con le cattive, affinché questi processi di democratizzazione si bloccassero; chiedersi insomma se esista un’ideologia, o meglio una cultura almeno in una certa misura condivisa e con caratteristiche democratiche, che permetta di dire che un “noi” sussiste, che una comunità abbia una sostanzialità se non diciamo etica (in termini hegeliani) almeno con sufficienti elementi comuni da tenersi insieme tanto culturalmente quanto praticamente”.

Il tema è quello della costruzione del “noi”, concetto quanto mai abusato e soprattutto raramente definito, purtroppo spesso assunto come qualcosa di “naturale”, come se il passaggio dal generico “noi esseri umani” a “noi italiani”, “noi qui e ora”, o al mero “noi vs. loro” non implicasse un’enorme quantità di problemi teorici e storici. Il progetto della costruzione di un noi è uno dei grandi temi del pensiero politico otto-novecentesco. 

Il progetto mazziniano è affetto da divesti limiti, storicamente discussi; la sua proposta sociale è basata su interclassismo, modesto intervento sui diritti di proprietà, ecc.; senza neppure dimenticare la sua polemica anticomunista, anti-materialistica, le critiche lui rivolte da Marx e via dicendo. La sua natura democratico-borghese pare tuttavia difficile da negare, con leggi, diritti, libertà del popolo come momento della libertà e della collaborazione tra i popoli. Il “noi italiani” è però qualcosa di intrinseco da far rivivere, assopito nelle pieghe della storia, va destato, fatto “risorgere”. Proprio il sogno di un’Italia sempre esistita (che invece non era esistita mai), da far risorgere e “unificare” (e invece andava creata) è uno dei grandi limiti storici del Risorgimento. 


Che il “noi” vada invece costruito lo sa bene Giovanni Gentile. In questo progetto politico di creazione degli italiani-fascisti egli intende recuperare Mazzini come antecedente storico-politico e si riaggancia agli aspetti di più chiara derivazione romantica (Dio e popolo),. sicuramente quelli più vicini alla sua ottica neoidealistica e soggetti a interpretazione destrorse; per farne un antesignano del fascismo ha però bisogno di fare tutta una serie di forzature di non poco conto:

  1. la sostenuta necessità del nesso pensiero-azione in Mazzini diventa affermazione del fare come costitutiva del senso;

  2. l’altrettanto importante insistenza mazziniana sull’educazione diventa non veicolo di contenuti, ma essa stessa loro costruzione;

  3. il mazziniano anti-invididualismo contrastato attraverso la fede, la legge, Dio come legame sociale, immanente alla comunità diventa in Gentile diventa Stato e autorità statuale = forza. In Mazzini c’è critica dell’individualismo non dei diritti individuali.

  4. l’attentato come evento che desta le coscienze diventa in Gentile teoria della “violenza educativa” e quindi dell’uso legittimo della forza come costitutiva di egemonia.

  5. Progresso. Siccome il fare è costitutivo, in Gentile progresso diventa meramente il fare nella sua successione senza metro di confronto storico per dire che il futuro sia migliore del passato, ragionamento praticamente impossibile nei termini attualistici. Riduzione dunque di progresso a mera successione degli stati del fare.


Certo, l’anti-individualismo in Mazzini diventa anti-materialismo e idealismo comunitario; si fa in sostanza coincidere materialismo e bieco utilitarismo borghese cui contrapporre ideali e slancio universali, eroismo, patria. Esattamente la stessa valutazione che farà Gentile nel suo saggio su Marx. Pur ammettendo che da queste premesse filiazioni destrorse sono possibili, tuttavia, come già si diceva una vocazione democratica, costituzionale, progressiva dell’unità nazionale per cui la libertà del popolo è condizione della libertà dei popoli credo siano decisamente incompatibili con il razzismo e la politica di dominio a essa connaturata tipica del fascismo, come con la tesi della violenza come argomento teorico legittimo. Altrettanto poco con l’idea attualista che l’essere sia inteso come fare e che il fare stesso sia legittimatorio della propria azione. 

In queste forzature si intravede ovviamente l’intenzione gentiliana di presentarsi come erede della tradizione risorgimentale e dunque di presentare il fascismo come coronamento di quella esperienza, legittimandone storicamente l’avvento.


Se il Risorgimento ha in larga misura fallito nella costituzione di un noi nazionale, non è andata meglio al fascisimo con un astratto nazionalismo patriottardo e l’illusione che militarizzando educazione e società se ne costituisse un’identità. Ovviamente in entrambi i casi il grande assente è la questione di classe: nel caso del Risorgimento letteralmente ignorata (contadini grandi assenti o addirittura avversi al nuovo Stato), nel secondo addirittura esplicitamente repressiva in linea di principio. La questione drammaticamente in sospeso è in sostanza chi sia questo “popolo”, questo “noi” da gestire, formare, coinvolgere, escludere, dirigere. 

Nell’accezione pre-rivoluzione francese, il popolo non è tutta la società, ma le classi subalterne. A lungo solo contadini, poi anche  borghesi ulteriormente divisi per funzione sociale e reddito. Nel caso italiano, durante il Risorgimento, da sempre prevale la tesi che la grande massa della popolazione, il popolo subalterno, fossero sostanzialmente i contadini, e che essi siano restati ai margini se non siano stati addirittura palesemente contrari al processo unitario per questioni di classe. È sicuramente un tema difficile in Mazzini che nel 1860 scrive un’intera opera indirizzata agli operai italiani… quanti mai saranno stati? Probabilmente abbagliato dalla realtà inglese, si immaginava masse salariate, addirittura industriali, anche in Italia. 

Ciò che viene da chiedersi è se il problema del “noi”, non solo di classe ma anche nazionale, sia una questione ancora all’ordine del giorno. La questione del noi si colloca nella delicata dialettica di forza ed egemonia, per cui la costruzione di questo soggetto non può meramente essere forzata, ma necessita di momenti di consenso perché c’è bisogno della partecipazione attiva e convinta di questi individui. Un progetto collettivo, in una certa misura interclassisticamente inclusivo, è necessario alla classe dirigente per realizzare i propri obiettivi. Per i borghesi l’universalizzazione del concetto di persona; per i fascisti il dominio imperiale come garanzia del benessere interno anche delle classi subalterne interne. Qui sta forse una delle novità della fase crepuscolare del capitalismo. La rinuncia alla costruzione di un noi egemone e l’uso coercitivo della violenza come elemento di unificazione dei subordinati. 

Sempre altrove scrivevo: “Con il capitalismo crepuscolare, con la sua pletora infinita di forza-lavoro e un mercato mondiale, queste due condizioni fondamentali, questo retroterra materiale [la necessità di un “popolo” come fonte di forza-lavoro e mercato di assorbimento interno] tende a venir meno. I subalterni sono pronti a essere rispediti nel mondo della schiavitù diretta ed essere oggetto di dominio senza direzione; non c’è dunque neppure più bisogno di educarli, che abbiano coscienza di sé, perché non serve più. Il “cittadino” ideale quindi è quello che di fatto ha perso tutti i caratteri attivi di cittadinanza e che è ridotto a neo-plebe, in certi casi anche agiata, ma comunque politicamente passiva, inconsapevole, incapace di decisione autonoma. La sua “competenza” pratica nel problem solving, come si ama tanto dire adesso, non gli consente di percepire, interagire, modificare, il contesto del problem solving che si accetta come dato, immutabile, “naturale””. 

La polverizzazione individualistica del capitalismo crepuscolare che arriva a teorizzare i diritti individualistici sopra altri individui è una tendenza strutturale del sistema. Essa è conseguenza degli sviluppi estremi del capitalismo e sembra produrre l’esigenza di analfabeti funzionali. Sempre commentavo: “È inutile nascondersi, infatti, che siamo di fronte a un processo non di analfabetismo, ma di “analfabetizzazione” di massa, dove cioè l’incapacità crescente di pensare la complessità del reale, e la propria posizione in esso, non è un mero dato di partenza, ma uno scopo scientemente perseguito”.

È in sostanza diventato un progetto politico “produrre” il popolo ignorante o, meglio, strumentalmente sapiente ma socialmente inebetito. 

Si potrebbe acutamente osservare che la questione non è di popolo, ma di classe; sarebbe però ingenuo non tener conto che una parte rilevante dello scontro politico-culturale avviene tuttora attraverso la forma dello stato-nazione. Contribuire alla salvaguardia e allo sviluppo socio-economico, date le condizioni attuali, non può ignorare la dialettica dello stato nazionale e del suo collocamento negli equilibri mondiali. Rispetto ai tempi risorgimentali, sono tuttavia completamente diverse le carte in gioco e la questione nazionale, in un contesto di schieramenti transnazionali con delle leadership immensamente più grandi, rischia di trasformarsi in una gabbia. Non significa fare campismo, ma prendere semplicemente atto della cruda realtà per cui uno sviluppo sociale per adesso si realizza pesantemente anche in un contesto nazionale (diritti sociali, politiche del lavoro, fiscali, dei redditi, ecc. sono gestiti e si gestiscono attraverso lo stato) ma che ciò avviene tuttavia nel contesto della guerra dei mondi, in cui l’Italia, o chi per lei, da sola ha poca (o nessuna) voce in capitolo, né alcuna prospettiva di sviluppo se non come momento subalterno delle dinamiche maggiori. È in questo spazio in cui si opera, tra salvaguardia dei diritti sociali a livello locale, collocamento proficuo nel contesto internazionale e prospettive di emancipazione di lungo corso. Anche perché il vecchio padrone vuole il sangue nostro, ma lo avrà via interposta persona, ovvero grazie alle politiche del nostro governo. Questo non lo si può fare senza ipotizzare processi egemonici che tengano in qualche modo conto della “questione nazionale”, ovvero degli interessi di altre classi o ceti che possono convergere verso obiettivi comuni di sopravvivenza.

2. Al fallimento risorgimentale della creazione di un popolo ha contribuito l’incapacità anche degli intellettuali e degli artisti di dargli voce, di coglierne ed esprimerne le passioni, pulsioni e idealità. Sicuramente ha qui giocato un ruolo centrale l’incapacità di classe della borghesia democratica di saldarsi politicamente a esso. L’intellettualità borghese e piccolo borghese, anche quella radicale, non si è posta alla testa dei contadini ma di minoranze radicalizzate urbane che hanno inevitabilmente finito per soccombere sotto i ben più organizzati moderati (rivoluzione-restaruazione di gramsciana memoria). Se abbiamo una grande letteratura e una grande arte borghese e della crisi profonda della borghesia, abbiamo una grande arte popolare? Intendendo qui con popolo prima le masse contadine e poi quelle operaie formatesi successivamente. La costruzione di questo noi culturale nel secondo dopoguerra fu per esempio un progetto esplicitamente rivendicato dal PCI, tra gli artisti da Calvino (e in larga parte fallito). 

Le conseguenze di questa distanza sono poi state ereditate nella cultura di massa, dove al cinema fa cassa Checco Zalone, in televisione e sui social spopola il trash della peggior lega. La transizione del popolo verso il benessere lo ha in larga parte trasformato in plebe consumatrice senza una vera identità o consapevolezza culturale. Chi mettere nella lista degli artisti o intellettuali “popolari” in senso eminente, ovvero che hanno dato voce e quindi possibiità di autoriflessione alla cultura popolare in sé [non nel senso reazionario di völkisch, come “identità intrinseca”, ma in quello socio-culturale di classe]?

Credo che l’assenza di questo tipo di artista e intellettuale in Italia, come notoriamente sottolinea Gramsci, sia un problema endemico non risolto nemmeno dopo la nascita del PCI. L’estrazione borghese o piccolo borghese della maggior parte dell’intellettualità nostrana ha quasi sempre finito per influire sulla prospettiva espressiva. Anche autori di estrazione popolare, una volta che si sono “intellettualizzati”, hanno spesso assunto prospettive borghesi.


3. A mio modo di vedere, un’eccezione interessante è proprio Giovanni Fattori, in cui una prospettiva “popolare” emerge. Fu a lungo ardente appassionato alle trasformazioni risorgimentali che leggeva in chiave democratica, vale a dire anche come necessarie trasformazioni sociali. Nella bella mostra livornese è paradossalmente questo un aspetto che resta quasi completamente sottotraccia: la passione politica. Come da artista Fattori rappresenta il mondo politico-sociale che ha intorno, i soggetti che lo popolano, le istanze proprie e collettive traspaiono?


Per quanto la sua famiglia riesca ad arricchirsi, essa viene etichettata come “plebe ricca”; le origini autenticamente popolari in Fattori fanno dunque parte del suo vissuto più intimo e saldano il motivo risorgimentale alla rivendicazione dell’emancipazione sociale. Rifiuta categoricamente la rappresentazione della campagna e del popolo di maniera e usa la sua arte come denuncia di fatto, con il suo carattere “fotografico”, “vero”, che nulla toglie alla fatica, alla concretezza dei suoi protagonisti senza imbellettamenti. Uno spirito anarchico più che socialista o radical democratico probabilmente che però riesce a fare un’arte popolare per il popolo, che al “popolo” piace largamente ancora oggi.


Abbandonato rapidamente lo stucchevole e vacuo tema storico-romantico, la macchia diventa il modo di rappresentare una natura e un’umanità fatto di singoli anonimi, spessissimo rappresentati di spalle, o di masse inserite in un tutt’uno naturale di cui fanno intrinsecamente parte. I campi larghi, talvolta larghissimi, sono epopee di un organismo unico in cui l’individuo non scompare, ma è omologo alla natura e dunque non ha identità individuale, è collettivo. Una massa senza volto, ma viva come collettività in cui ciascuno è tutti e viceversa.


Anche il tema patriottico è caratterizzato da un soggetto di massa, di nuovo con campi larghi e masse di combattenti. Anche qui però emerge rapidamente l’umano: le ritirate, i feriti, le retrovie sono soggetti prediletti. Il lato tragico delle conquiste che saranno rapidamente frustrate dal pressappochismo interessato di destra e sinistra storica, provocando quella delusione generazionale che accumerà Fattori a Carducci e a tanti altri che prenderanno le più disparate vie, non sempre progressiste. Ma non Fattori. 

L’interesse per i soldati si concentra a questo punto sulla loro vita comune non in battaglia, durante i riposi, gli accampamenti




(chissà se Monicelli ne La grande guerra aveva in mente queste scene di Fattori). Poi gli esploratori, le sentinelle, anche loro diventate parte del paesaggio, immerse nei campi larghi e come sempre anonime, di tre quarti, di spalle, non individui con nome e cognome, ma nuovamente pluralità. I contadini adesso in divisa pagando la “tassa del sangue” e ancora enigmaticamente smarriti in un mondo che ancora li padroneggia e che adesso guardano invece di lavorarlo.

E quando i protagonisti sono individuali, sono i primi piani dei butteri, eroi a cavallo tra le mucche.

Fattori non cede alle suggestioni simbolistiche, alla cattiva coscienza piccolo borghese scioccata dai cambiamenti storici e in cerca di rassicurazioni intime da un lato, misticamente collettive dall’altro. È quanto verrà invece fuori da Pascoli e soprattutto dal suo discepolo Nomellini. In lui, inizialmente fattoriano, già si apprezza l’interesse per il protagonismo soggettivo; gli stessi soggetti di Fattori hanno adesso un protagonista individuale che si staglia, chiaramente in primo piano ed è riconoscibile (fienatore, scioperante). L’individualismo sta prendendo campo.

E il Risorgimento che nell’ultimo Fattori è delusione e rammarico rabbioso, diventa in Nomellini mito, sogno prospettico da rivendicare e riproporre in chiave messianica.





Quella chiave messianica che riprenderà il dannunzianesimo prima e il fascismo poi di cui Nomellini celebrerà i fasti e la prospettiva interpretativa del Risorgimento come sua anticipazione. 




Fattori rivendica il proprio carattere anti-intellettuale; ma non è rivendicata ignoranza. È in qualche modo la denuncia e quindi la pratica dello distanza tra cultura e popolo, come se acculturandosi in Italia implicasse di per sé un salto di classe, diventare borghese, urbano, traditore.


4. Se il capitalismo putrescente sembra puntare sulla violenza diretta senza progetti egemonici, la costruzione di un soggetto alternativo credo passi anche attraverso la riappropriazione di un canone culturale “popolare” nel senso suddetto, e progressista. Non può essere questa la cronologia dei grandi nomi da manuale, ma neppure una classificazione in base al loro credo politico. Si tratta piuttosto di comprendere la grandezza dei singoli autori proprio per il loro significato non solo tecnico, ma storico-culturale: se ci si limita a dire “Pirandello era grande, va be’ era anche fascista, ma a me piace l’opera”, o idem per es. per Verga, “è profondissimo anche se conservatore” si fa meglio che peggio. La loro grandezza sta infatti nel cogliere l’essenza della cultura fascista e tardo umbertina nella loro espressione artistica dal di dentro (evitando così,  tra l’altro, di apprezzarli per il loro fascismo o conservatorismo senza nemmeno accorgersene). Non significa dare un giudizio politico della loro opera, ma coglierne davvero il senso - e quindi il valore - politico-culturale-estetico. E attraverso questa comprensione fare un po’ di fenomenologia del nostro spirito, intendendo meglio noi stessi e le nostre prospettive. Allo stesso modo il discorso vale in positivo: chi è stato davvero popolare e progressista dando voce culturale al popolo?

Credo che sia un nodo importante per evitare di discutere di cultura tra tre gatti mentre la massa guarda Il grande fratello o Checco Zalone. Il bizantinismo letterario che purtroppo da tempo imperversa in molte facoltà non pare andare in questa direzione, ma ci sono eccezioni che vanno coltivate. La produzione di un noi è un progetto interrotto reso quanto mai problematico dall’individualismo esasperato del capitalismo crepuscolare e proprio per questo potenzialmente rivoluzionario. Sicuramente controegemonico. 


Durbè, Dario, Fattori, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

Fineschi, Roberto, Mazzini e “noi”, oblio e memoria nel capitalismo crepuscolare, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

-, Populismo. Punti di partenza, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

-, Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Carducci, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

Gentile, Giovanni, I profeti del Risorgimento italiano, in Opere, vol. XXVI, Firenze, Sansoni, 1944

- La filosofia di Marx, in Opere, vol. XXVII, Firenze, Sansoni, 1955

Mazzini, Giuseppe, Dei doveri dell’uomo, Milano, Rizzoli, 2010

- Scritti politici, Torino, Einaudi-Ricciardi, 1976, 3 voll.

Patti, Mattia, Nomellini, Plinio, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)


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