Nihil sub sole novum, ovvero poveri content creator
Il content creator che tipo di lavoro è? È un lavoro?
Bisogna forse iniziare a interrogarsi soprattutto se sia una nuova tipologia di lavoro e se sia una variante di qualcosa di molto vecchio.
È ovviamente nuovo nel senso delle tecnologie che utilizza, delle modalità in cui si presenta e in cui viene fruito, ecc. Tutto ciò prima di internet, della tecnologia diffusa e a buon mercato e via dicendo non sarebbe certo stato possibile. Posto tuttavia tutto ciò, nelle forme astratte di realizzazione, è nuovo? Su questo ho i miei dubbi e credo che nella sostanza, a parte per i pochissimi fortunati nella percentuale globale di chi vi si cimenta, sia un lavoro assai sfruttato.
Innanzitutto, ovviamente, costa del tempo: bisogna imbastire delle sceneggiature, girare, editare, postare, promuovere, ecc. L’ingenuo senso comune è che lo si faccia nel “tempo libero”... Se tuttavia questa diventa l’attività che permette di portare la pagnotta a casa, l’illusione si dissipa immediatamente. Quanto “costa” questo tempo di lavoro? Per rispondere bisogna chiedersi: quanto e come si guadagna?
Si guadagna dalla percentuale che le varie piattaforme concedono, dalle eventuali sottoscrizioni, dalle sponsorizzazioni. C’è un guadagno minimo garantito? Ovviamente no, tutto il rischio d’impresa è a carico del content creator. Questo guadagno copre di per sé spese previdenziali, sanitarie, ecc.? Ovviamente no, si tratta di microimprenditoria individuale.Se si vanno a fare questi conti, temo che in sostanza sia un lavoro a bassa remunerazione, senza oneri per il vero datore di lavoro, con tutti i rischi a carico del creator.
Sempre esclusi i pochissimi fortunati dal grandissimo successo, chi si arricchisce veramente? Chi è il vero datore di lavoro? Ovviamente le piattaforme. Eccoci arrivati al dunque.
Se le piattaforme dovessero pagare loro i content creator per riempire capillarmente tutti gli spazi con l’oceanica offerta di contenuti esistente, dovrebbero assumere milioni (o forse miliardi) di persone. Esiste una soluzione molto più profittevole. Trasformare in propri “dipendenti” milioni di privati senza pagarli, anzi facendo pure pensar loro di essere liberi imprenditori. È un po’ lo stesso meccanismo delle partite iva ma più sofisticato.
Milioni di persone che pensano di lavorare per sé, lavorano per la piattaforma che dà loro le briciole per un’attività che se esse gestissero in proprio costerebbe milioni di volte di più. Oltre al costo effettivo, le piattaforme non hanno così alcun vincolo contrattuale di qualsiasi natura e addirittura scaricano la responsabilità penale e civile dei contenuti sui “liberi” creatori.
Il costo di produzione del contenuto è tutto sulle spalle del creator, il rischio di fallimento pure. Potrebbe quasi sembrare una riedizione dell’industria a domicilio, ma in realtà è ancora peggio, perché in quel caso c’è la commessa; qui invece si va a offrire il prodotto già realizzato sperando che piaccia. E il giudizio nonè dell’impresa stessa, ma del consenso che il contenuto riesce ad avere sul web. Così essa scarica anche la responsabilità editoriale, il quality check e chi più ne ha più ne metta.
Ma questa è imprenditoria e libero mercato, qualche ingenuo potrebbe commentare. Ovviamente no, perché il “mercato” è la piattaforma, vale a dire un’impresa che si arricchisce solo grazie a quei contenuti che dovrebbe altrimenti produrre in proprio e il cui costo e rischio scarica invece totalmente sui creators. Insomma, questi presunti “imprenditori” lavorano per la piattaforme, non sono affatto liberi. L’infrastruttura della loro “libertà” è di qualcuno, è un’impresa che li sfrutta nella maniera più bieca.
Quindi i sindacati dovrebbero iniziare a fare un po’ di contabilità a questi creators e cercare di far capir loro che sono salariati di fatto; e che sono salariati, nella maggioranza dei casi, a condizioni di merda.
I pochi che hanno successo servono ovviamente come specchietto per le allodole per i milioni che invece successo non ce l’hanno. È un po’ lo stesso meccanismo dei giochi a quiz per concorrenti di cultura medio-bassa o dei talent, dove il contenuto del programma lo fanno dei felici dipendenti non pagati col miraggio di vincere o diventare famosi.
Se il meccanismo con cui nasce e in cui molti ancora lo percepiscono è quello dello “arrotondare” lo stipendio, la realtà è che è un lavoro sfruttato e sottopagato.
L’accesso è apparentemente gratis: basta un cellulare e una connessione, cose che ormai ha anche il più miserabile dei miserabili. Si va a pescare nell’amplissima sacca della disoccupazione incapace di trovare qualsiasi impiego; dunque ci si autoimpiega nella maniera più semplice e immediata. Si riesce a guadagnare qualcosa.
Se già così è un lavoro sfruttato, non appena diventa il proprio lavoro, siamo in tutto e per tutto nel classico meccanismo di sfruttamento capitalistico, mascherato di tecnologia e libertà
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