Intervista sulla MEGA apparsa su Pangea (estratto)
Lei da anni lavora alla revisione e alla pubblicazione dell’opera omnia di Marx e di Engels. Può riassumere in breve per cortesia le vicende che hanno contrassegnato lungo i decenni questa immane avventura editoriale e politica?
La storia della pubblicazione delle opere di Marx ed Engels è purtroppo troppo lunga per essere riassunta brevemente. Procedendo per sommi capi, si può innanzitutto affermare che è stata travagliata per due ragioni principali: la prima è l’uso politico di Marx che ha inevitabilmente, nel bene e nel male, influito sul destino del suo lascito. In secondo luogo, bisogna aggiungere che gran parte di esso era in forma manoscritta, quindi opere non pubblicate che avevano bisogno di un importante intervento editoriale. Questi due motivi hanno causato una estrema lentezza e problematicità nella realizzazione delle varie edizioni storiche.
Il primo tentativo di un’edizione storico-critica è stato fatto tra gli anni Venti e Trenta per opera del russo Rjazanov nel contesto delle politiche culturali sviluppatesi dopo la Rivoluzione di Ottobre. Per avvenute complicazioni sempre di carattere politico (scilicet: stalinismo), Rjazanov fu epurato e sostituito da Adoratskij. Tuttavia, sia per motivi politici che per il sopraggiungere della guerra, la prima Marx-Engels-Gesamtausgabe (questo il titolo dell’edizione, acronimo mega)fu interrotta e non più ripresa. Al suo interno apparvero ad es. in versioni molto controverse i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ‘44 e la cosiddetta Ideologia tedesca. Altre opere pubblicate al suo interno o in collegamento a essa sono La critica del diritto statuale hegeliano, La dialettica della natura e i Grundrisse.
Dopo la Seconda guerra mondiale si è avuta la pubblicazione di varie edizioni di Opere, nessuna delle quali storico-critica. All’edizione russa, la prima di impianto generale, fece seguito quella tedesca, i celeberrimi Werke (in genere menzionati con l’acronimo mew, Marx-Engels-Werke). Anche sulla base di questi progetti furono concepiti i Collected Works in 50 volumi, sulla cui struttura era esemplata anche l’edizione italiana degli Editori Riuniti, conosciuta come meoc (Marx-Engels, Opere Complete, talvolta denominata solo meo) ora ripresa indipendentemente l’una dall’altra da Lotta comunista e La città del sole.
La nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (in genere menzionata come mega 2), è stata iniziata dopo molte controversie nel 1975 ed è tuttora in corso di pubblicazione; inizialmente sotto la direzione degli Istituti per il marxismo-leninismo rispettivamente di Mosca e Berlino, è ora curata da una fondazione internazionale (imes, Internationale Marx-Engels Stiftung) di diritto olandese ma con base operativo presso l’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo. Rispetto a una normale edizione delle opere, vengono pubblicati in essa tutti i lavori a tutti i livelli di lavorazione, quindi inclusi manoscritti preparatori, appunti, abbozzi, ecc. Essa sta cambiando la faccia a diverse delle opere tradizionalmente lette; ad es. i menzionati Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca e il Il capitale non sono più le opere che abbiamo conosciuto e letto fino ad oggi. C’è insomma in senso letterale “un nuovo Marx” da studiare.
Alla luce dei Suoi lavori, la saggistica e la curatela del primo libro del Capitale, riuscirebbe che fino ad oggi, mi passi la disinvoltura, abbiamo letto un Marx se non spurio almeno da rivedere nelle linee essenziali. Può fornirci qualche ragguaglio?
Da una parte è vero, ma bisogna stare attenti a non esagerare e farsi prendere la mano da una sorta di cancel culture marxologa. Molte delle linee essenziali emerse nel dibattito tradizionale non sono affatto sbagliate. La questione fondamentale è che quel dibattito ha raggiunto dei vertici importanti per poi arenarsi su alcuni punti cui non è riuscito a dare risposte soddisfacenti: per es. il tema della trasformazione storica, oppure il cosiddetto valore-lavoro e la trasformazione dei valori in prezzi, giusto per citare due temi emblematici. Il nuovo Marx, filologicamente più corretto, permette di riprendere questi temi con una strumentazione più precisa e di ridefinire alcune delle premesse da cui quei dibattiti avevano preso le mosse. Questa operazione credo permetta di andare oltre l’impasse storica, o quanto meno ci dà delle aperture importanti per un Marx decisamente attuale. Giusto per riprendere l’esempio che citavo e dare la misura delle “incrostazioni” interpretative: Marx non ha mai utilizzato né l’espressione materialismo storico né quella di valore-lavoro; se la prima è stata inventata da Engels, la seconda è farina del sacco addirittura di Böhm-Bawerk, uno dei suoi nemici giurati. Grazie all’edizione storico-critica si può finalmente riprendere il discorso a partire dalle parole di Marx e non da quelle di chi, anche autorevolmente, lo ha interpretato.
Lei ha accennato in particolare a una “revisione” del Capitale, dell’Ideologia tedesca e dei Manoscritti del 1844. Vorrebbe aggiungere qualche dettaglio?
Il capitale è particolarmente toccato dalle novità, perché finalmente sono stati resi disponibili tutti i manoscritti originali per il secondo ed il terzo libro sulla cui base Engels ha dato alle stampe le versioni canonicamente lette. Il loro stato era ben lungi dalla compiutezza e l’editore dovette volente o nolente intervenire in maniera incisiva. Anche le diverse edizioni del I libro curate personalmente da Marx, le modifiche in esse e i manoscritti interlocutori tra un’edizione e l’altra sono di grande importanza per definire le premesse categoriali della teoria del capitale nel suo complesso. Qui la forza delle letture tradizionali, soprattutto tra gli economisti, è tale per cui ci vorranno anni affinché una lettura alternativa trovi ascolto. Da un punto di vista filologico, tuttavia, le premesse per cambiare paradigma rispetto alla canonica teoria del valore-lavoro sono a mio modo di vedere molto solide. Per quanto riguarda le opere cosiddette “giovanili”, quello che emerge è un loro ridimensionamento; se da una parte le nuove edizioni permettono di scorgere in esse le tracce di sviluppi futuri, dall’altra mostrano implacabilmente come le conoscenze marxiane tanto di filosofia che di economia fossero in quel periodo in via di gestazione e di definizione. Un processo che non avrebbe visto scarti decisivi prima del 1857, anno in cui, almeno nelle intenzioni, inizia la formulazione di una vera e propria teoria sistematica del modo di produzione capitalistico. Anche qui bisogna ovviamente procedere cum grano salis, senza esagerare nel sensazionalismo. Resta tuttavia il fatto che tanto i Manoscritti economico-filosofici che L’ideologia tedesca restano “opere” interlocutorie di cui appena ci ricorderemmo se Marx non avesse poi scritto Il capitale. Qui ha involontariamente fatto molti danni la “rottura” althusseriana. Se da una parte infatti era più che giusto mettere in guardia contro il naturalismo antropologico dei Manoscritti economico-filosofici e dell’alienazione concepita in quei termini, dall’altra è stato deleterio (e filologicamente insostenibile) pensare che ciò significasse rompere con Hegel e con la filosofia tout court. La conseguenza è stata da una parte che molti filosofi si sono occupati dell’alienazione e del Marx giovane e solo successivamente del Capitale solo cercandovi in vari modi conferme dell’alienazione giovanile; dall’altra molti economisti si sono disinteressati dei problemi filosofici ed epistemologici di chiara matrice hegeliana che si trovano nella teoria matura del capitale senza intendere i quali non si capisce veramente quell’opera anche a livello di funzionalità delle categorie.
L’utilità teorica dell’operazione è indubbia. Vorrei però capire se, a Suo giudizio, ve ne è una politica.
Se sono utili ce lo dirà la storia, come si suol dire. Scherzi a parte, credo che il paradigma teorico marxiano, per quanto incompleto e parzialmente da aggiornare, costituisca a oggi il modello di riferimento migliore che abbiamo a disposizione per interpretare non solo la “società contemporanea”, ma anche la sua dinamica a 360° (economica, sociale, ideologica, addirittura militare). È altrettanto certo che, così com’è, esso non può bastare, ma da esso si può ripartire proficuamente come valida alternativa all’individualismo metodologico imperante e all’antropologismo naturalistico altrettanto diffuso. Qui l’utilità è scientifico-cognitiva. Questa conoscenza può essere molto utile a chi ha finalità politiche e sociali, ovvero a chi “vuole cambiare il mondo”. Qualunque movimento politico che voglia incidere a livello storico non può non avere un apparato teorico di livello; qui ancora molti faticano a distinguere, causa anche alcune varianti del marxismo stesso, tra conoscenza scientifica e suo uso ideologico. È questa una perversione della dialettica di teoria e prassi che ha portato a un appiattimento della teoria sulla prassi per cui la teoria finiva volenti o nolenti a ridursi a propaganda o al massimo a strategia/tattica. Da questo, a mio parere, si deve e si può uscire con una teoria affinata e più capace di concepire le linee di tendenza del presente, al di là delle contingenze politiche.
Quali sono i punti dell’opera di Marx su cui studiosi e militanti dovrebbero ritornare? E perché?
Il discorso sarebbe molto lungo, credo tuttavia che gli aspetti salienti siano in prima battuta due. Il primo è la dinamica storica del modo di produzione capitalistico, le sue fasi interne, i processi autocontraddittori che portano alla modifica delle sue stesse leggi. Questo permette di teorizzare fasi e sottofasi della formazione economico-sociale capitalistica. Politicamente si agisce a un livello più concreto, quindi, per una politica razionale ed efficace, non si può che avere contezza della questione cruciale dei livelli di astrazione per non fare errori prospettici che condannano all’inefficacia. I soggetti politici non agiscono nel capitalismo in generale, ma in configurazioni specifiche determinate geograficamente, storicamente, legate a contingenze senza includere le quali l’azione politica diventa puro massimalismo.D’altra parte, a partire dalla teoria di Marx, si può proporre un più articolato concetto di classe che vada oltre la vecchia contrapposizione tra capitalisti e classe operaia e che includa nella conflittualità soggetti esclusi da quella riduzione. Anche qui il discorso sarebbe molto lungo, ma distinguendo tra figure storiche e forme teoriche di determinati soggetti economici e politici si riescono a fornire delle coordinate di riferimento per individuare possibili forme di aggregazione che funzionano al di là della figura storica della classe operaia che pur ha avuto – e ha tuttora – la sua grande rilevanza.
Entriamo nel dominio politico. A Suo giudizio, nonostante il biennio 1989-1991 e l’infiacchimento artatamente ordito dalla classe dominante della classe lavoratrice, la speranza in una rivoluzione quale Marx e i comunisti la intendono è ancora ben riposta o possiamo andare al mare anche noi?
Le questioni sono complesse ed è difficile rispondere in poche righe. Il tema teorico è quello delle linee di tendenza storiche e della dialettica evolutiva del modo di produzione capitalistico. Anche qui, cum grano salis, credo che le profezie marxiane sulla società futura fossero più legate allo slancio politico che a un’effettiva base teorica. Bisogna notare che l’ambizioso progetto della concezione materialistica della storia, vale a dire l’individuazione delle leggi di trasformazione storica che includessero tutta la storia umana, è rimasto un abbozzo e che Marx alla fine ha individuato le leggi di movimento del solo modo di produzione capitalistico. Ciò non significa che questo progetto sia naufragato, ma semplicemente che va ripreso e portato avanti. La comprensione delle leggi del passato ci serve per contestualizzare quelle del presente e per farci un’idea di quelle di un possibile futuro. In questo senso più che di passaggio necessario dal capitalismo al comunismo, credo che più assennatamente, da un punto di vista teorico, si possa ipotizzare la posizione delle premesse indispensabili da parte del modo di produzione capitalistico affinché una società di stampo socialista sia storicamente possibile. Queste premesse riguardano la produttività del lavoro, l’integrazione dei processi gestionali, lo sviluppo delle conoscenze adeguate alla gestione di siffatti processi, ecc. Se una società socialista senza queste premesse è impensabile, e queste premesse vengono poste in essere dal modo di produzione capitalistico, non è automatico che esse di per sé diano vita al socialismo. Le variabili in gioco sono superiori a quelle che la teoria riesce a determinare e questo dà una spazio di libertà all’azione politica e all’individuazione degli ulteriori passaggi necessari affinché il socialismo oltre che possibile diventi reale.
La fine dell’esperienza sovietica, che sarebbe non ingiusto ma semplicemente insensato liquidare nel bene nel male con l’oblio, non significa che le contraddizioni in cui si avvolge il modo di produzione capitalistico siano finite e tanto meno che le premesse per una società più razionale e giusta siano venute meno. Direi anzi che è esattamente il contrario: dopo il ’91, quelle contraddizioni sono diventate sempre più acute e la necessità di una via di uscita progressiva è ormai condizione di sopravvivenza del pianeta e del genere umano su di esso. Marx ci aiuta a cercare la strada giusta da percorrere.
Quali sono i soggetti politici attualmente operativi, in Italia e in Europa, che potrebbero non dirò guidare una rivoluzione, ma almeno intercettare le istanze rivoluzionarie in senso marxiano?
Direi che non ce ne sono, almeno organizzati a livello ampio (illusorio parlare di massa). La sconfitta dell’89-91 è stata di dimensione epocale e il processo di riaggregazione sarà lungo e difficile. In questa fase vedo con estrema difficoltà istanze rivoluzionarie, parlerei piuttosto di inevitabile ritirata strategica, per quanto possibile organizzata. Del resto, pare necessario un articolato e profondo processo di ripensamento delle forme alternative al capitalismo che da una parte non ricadano nel primitivismo o nell’anticapitalismo romantico, ma che dall’altra tengano adeguatamente conto delle problematiche reali legate alla gestione razionale e democratica di un’economia complessa ed integrata come quella attuale al di fuori di una logica di valorizzazione del capitale.
Che cosa risponde a chi ancora oggi seguita a mettere in dubbio la consonanza teorico-pratica tra Marx ed Engels?
Il problema, oltre che storiografico, è stato di carattere politico. La linea interpretativa che univa in simbiosi Marx ed Engels poi vedeva sfociare questo connubio in Lenin e Stalin, insomma l’emblema del marxismo sovietico. Chi vi si è contrapposto ha cercato di sganciare Marx da Engels, attribuire a quest’ultimo la colpa di aver tradito Marx ed aver dato il via alle derive sovietiche, salvando invece un Marx puro il cui pensiero sarebbe stato traviato dal marxismo. Bisogna affermare senza dubbio alcuno che separare Marx da Engels o parlare addirittura di tradimento è un’operazione storiograficamente insostenibile e possibile solo a costo di forzature estreme. In realtà, alcuni hanno frainteso la presenza di questioni filologiche ed editoriali nell’operato di Engels come un avallo delle vecchie critiche antisovietiche; questo è un malinteso da lasciarsi subito alle spalle. Ciò premesso, non ha senso neppure affermare l’identità dei due; la questione attuale consiste piuttosto in un’analisi dettagliata delle potenzialità del lavoro di Marx e di come Engels abbia risolto questioni aperte nella sua teoresi prendendo talvolta direzioni errate. Se l’idea di una contrapposizione va decisamente rifiutata, resta la questione di come Engels abbia cercato di sciogliere nodi lasciati in sospeso da Marx, come l’analisi di modelli sociali non capitalistici o addirittura questioni come quella della dialettica della natura. Si tratta di questioni cruciali, quanto mai aperte. Sicuramente le soluzioni engelsiane, col senno del poi, non appaiono adeguate alla complessità degli argomenti.
È notizia stravecchia che nel corso del Novecento Marx abbia subito diversi marxismi, a principiare dal revisionismo di Bernstein, sino a certe manifestazioni recentissime di marxismo resuscitato. Su cosa si fondano in linea generale le diverse letture? O meglio: quali sono a suo giudizio le motivazioni sottese ai tentativi di riletture genericamente revisionisitiche di Marx? So che è una domanda che implicherebbe un intero libro: ma so altrettanto che lei saprà essere sintetico ed esaustivo al contempo.
Be’, una valutazione del marxismo mondiale in chiusura non è la più semplice delle questioni. Sarò brevissimo e inevitabilmente inadeguato. Il problema nasceva dall’incapacità operativa e teorica, alla luce delle conoscenze del tempo, di risolvere i problemi che la prassi poneva. In realtà il complesso rapporto tra Marx ed il marxismo nasce nella distanza inevitabile e necessaria tra il livello di astrazione dell’elaborazione teorica e quello dell’operatività politica, anche a lungo termine. Da una teoria astratta del modo di produzione capitalistico non si può dedurre la prassi politica di qualsivoglia partito, anche se molti si sono illusi che fosse possibile. I processi di mediazione necessari per scendere dal rarefatto mondo dell’astrazione a quello concretissimo della lotta sono complessi e vanno svolti; essi implicano salti che, come tali, si muovono anche in contingenze che come tali non sono teorizzabili in linea di principio. La possibilità di continuazioni o applicazioni diverse sono dunque nella teoria stessa, in particolare per lo stato incompleto cui l’ha lasciata Marx. Il marxismo è lo spazio di concretizzazione della teoria nel tentativo di applicarla alla trasformazione del mondo, in questo senso lo stesso Marx si può dire che sia stato il primo marxista proprio nella sua volontà di utilizzare politicamente una teoria astratta a situazioni concrete. Con questo non si vogliono giustificare tutti i marxismi; si può mostrare secondo me la loro maggiore o minore vicinanza alla formulazione dei principi astratti marxiani; tuttavia la possibilità di marxismo al plurale è insita nella teoresi di Marx.
Il revisionismo nasceva dunque dal duro scoglio della realtà che poneva istanze che Marx non aveva potuto prevedere, data la distanza tra teoresi astratta e utilizzo politico, ma sulle quali aveva voluto comunque dire la sua, spesso sbagliando. Un marxismo rinnovato deve prendere molto sul serio questi limiti e rendersi conto del gap da colmare come compito tanto teoretico quanto politico.