Sunday, 1 December 2019

Populismo, punti di partenza di Roberto Fineschi

Il populismo è una degli anelli della catena degenerativa che confondendo la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce il fascismo.


Populismo, punti di partenza
1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -,ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.
Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo.
Si potrebbe, del resto, parlare a lungo del significato stesso della categoria “popolo” e delle sue potenziali ambiguità, o quanto meno dell’uso strumentale che ne è stato fatto nei diversi fronti politici contrapposti nella storia novecentesca e non solo. Da una parte, infatti, il “popolo d’Italia” era un generico accumulo dei - non meglio definiti - italiani, a prescindere dalla classe sociale di provenienza. In questo senso, il popolo diviene una categoria fondamentalmente reazionaria perché privilegia la comune “etnia”, “tradizione”, “religione” (trasfigurato dunque attraverso mitologie le più curiose e variegate, tutt’ora riemergenti) sopra quella di classe (fino ai “pueblos” latino-americani, o al popolo della parrocchia, vale a dire una composizione sociale trasversale). Questo popolo include anche le classi dominanti che però guardano alla sua componente bassa come un animale più o meno docile da domare attraverso gruppi aristocratici o, in casi estremi, una figura leaderistica che ne sappia comprendere ed incarnare le pulsioni; la comune appartenenza non cancella insomma una legittima gerarchia sociale.
Il fronte popolare si richiama a un’eccezione più antica per la quale il popolo non è tutta la società, ma una parte, vale a dire quella componente che si distanzia, distingue e contrappone ai, detto genericamente, ceti dominanti, dove però questi ultimi si caratterizzano per una più spiccata connotazione di classe. Dissipare questa genericità è la chiave della risposta, perché proprio qui si annida il rischio di quel passaggio che ha permesso una confusa indistinzione tra le due accezioni. Il modo in cui viene rappresentato il populus, contro o di fronte al senatus se si vuole richiamare alla memoria il motto – S.P.Q.R., Senatus popolusQue Romanorum -  inciso sulle effigi romane, cambia la prospettiva tra populista e popolare. La parola è quindi la stessa, ma il contenuto è assai diverso, sia culturalmente che politicamente; si tratta in buona sostanza di includere o mascherare il conflitto di classe. Un punto chiave pare quindi comprendere quali elementi fanno di una comunità un popolo e quindi stabilire quali siano le modalità in cui il popolo si organizza.
L’essenza del popolo incentrata sulla sua etnia, religione, “tradizione” e via dicendo è un Leitmotiv del pensiero reazionario moderno, a partire dal romanticismo in poi, da Burke a Heidegger. Su questo si può leggere con profitto la ricostruzione che ne ha fatto Nicolao Merker [1]. I vari nemici sono la riforma protestante, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il liberalismo democratico, il laicismo e via dicendo. Si tratta del classico armamentario reazionario emerso negli ultimi due secoli di cultura europea conservatrice. In questo contesto, saltare le mediazioni tra basso ed alto, cioè eliminare gli organi rappresentativi e i processi sociali e le strutture che mirano a formare i cittadini di modo che essi possano effettivamente farne parte, è uno degli elementi chiave; tale dinamica procede di pari passo con il fastidio, se non l’odio, verso le istituzioni nelle sue varie forme, tutte incapaci di rappresentare i bisogni della massa, o in grado di farlo in maniera inadeguata e strumentale. Questa disillusione e conflittualità verso le strutture ed organizzazioni rappresentative nasce sicuramente dalle dinamiche perverse che nascono in seno ad esse ed alla loro strumentalizzazione di classe. Il leaderismo che ne può conseguire è un’uscita reazionaria da questa difficoltà obiettiva e si caratterizza come un secondo elemento fondamentale del populismo.
2. Siccome tutti gli aspetti positivi della modernità si sono sviluppati insieme agli aspetti negativi, allo stesso tempo contraddittoriamente in seno e grazie al modo di produzione capitalistico stesso, l’anticapitalismo può, essenzialmente, svilupparsi in due direzioni completamente differenti: la rivolta anti-moderna che vuole tornare indietro, quindi respingere in blocco tutto ciò che si è sviluppato grazie al capitalismo perdendo tutte le acquisizioni storiche ottenute grazie a esso, inclusi i diritti sociali e civili, con la nostalgia di un mondo passato o il sogno astratto di un mondo completamente altro; oppure andare in avanti, vale a dire criticare la forma sociale del capitalismo ormai autodistruttiva e salvarne le acquisizioni epocali che sarebbe solo regressivo e conservatore voler perdere.
Se non si comprende la natura contraddittoria del modo di produzione capitalistico che allo stesso tempo produce libertà e sfruttamento, ricchezza e povertà, l’uomo universale e la sua alienazione e via dicendo e si cerca di superarne in maniera progressiva la forma oramai inadeguata di riproduzione sociale, si ricade in un “prima” o “altro” che, per gli standard civili e sociali su cui si basa la nostra vita comune, significa semplicemente barbarie. Confondere la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce, alla fine della catena delle mediazioni, il fascismo. Il populismo è una degli anelli di questa catena degenerativa.
Il populismo corrente si può avvantaggiare di una nuova strumentazione tecnologica. Il canale diretto tra il leader e la massa è, come si fa notare da vari fronti, agevolato dall’emergere di nuovi mezzi di comunicazione che consentono di agire direttamente sul singolo a un livello di personalizzazione inimmaginabile fino a pochi giorni fa, captando, cavalcando ed incanalando le pulsioni più disparate. Ciò, tuttavia, non produce ideologia, vale a dire una visione del mondo in qualche modo coerente, ma meri ideologemi, singoli contenuti ai quali si dice sì o no, per poi lasciarsi convincere da chi un’ideologia vera e propria invece ce l’ha, o meglio da chi ha un preciso programma di classe ma del quale non fa cultura, bensì solo propaganda.
Questa dimensione puramente propagandistica è però probabile segnale di una fase di crisi dell’egemonia, dove pare si rinunci in linea di principio alla dimensione del consenso convinto, della cultura, ma si proceda piuttosto in una dimensione di adesione strumentale immediata di una massa informe, nel tentativo di produrla come neutra (stupida) ed infinitamente plasmabile, come molecole che si combinano a piacere tra le mani dell’ingegnere sociale. L’incapacità di produrre cultura può essere la spia di una crisi di egemonia reale e di un passaggio a una fase dispotica tout court, dove il dominio passa attraverso l’instupidimento di massa e la circonvenzione di incapaci.
A conclusione di una sua interessante voce sull’argomento di qualche tempo fa [2], Bongiovanni notava, seppur al condizionale, che il disfacimento della nozione tradizionale di popolo nel senso migliore del termine, fosse contadino o operaio, finiva per produrre una polverizzazione amorfa di individui, una “folla solitaria”, una moltitudine di uni, un “populismo senza popolo”. A ben vedere è proprio la “people” inglese, la somma generica di singoli legati di volta in volta da elementi sociologici estrinseci e non da un nesso funzionale di sistema, la “gente” insomma; il trionfo dell’ideologia borghese più trita, la società come sommatoria di individui indistinti.
Discorsi di questo tenore, in certi casi anche acuti e precisi, che si sentono ripetere da più parti possono descrivere più o meno genericamente una situazione, ma non permettono di comprenderla, quindi tanto meno di cambiarla. Il primo punto nodale in senso critico che è emerso e continua a emergere nei vari dibattiti che si susseguono sul tema del populismo è spesso la mancanza di un elemento chiave, vale a dire niente meno che spiegare - o almeno tentare di spiegare - come questi processi si tengano insieme con la dinamica odierna del capitalismo. Non semplicemente del modo di produzione capitalistico di cui parlava Marx a un livello di astrazione altissimo, ma del capitalismo nella sua fase tarda, nel contesto più concreto della sua dinamica sistemica che include stati, livelli diversi di sviluppo, temporalità determinate e diversità subsistemiche. Se questo è a dir poco incredibile in pensatori cosiddetti di sinistra, è francamente sorprendente in generale: come si possono affrontare questioni complesse senza considerare la dinamica storico-epocale del modo di produzione capitalistico?
Questo è un limite soprattutto di molti politologi e filosofi che, almeno così pare, danno per scontato il capitalismo, così scontato che neppure lo menzionano. Questo è ovviamente un risultato dei tempi e della crisi del marxismo pratico e teorico, ma è una tendenza che non nasce adesso; essa si è annidata in seno al marxismo stesso: la paura di essere tacciati di determinismo economicistico sempre più ha portato a orientarsi verso un approccio culturalista, “sovrastrutturale” e via dicendo, in cui intenzionalmente si lasciava in secondo piano la questione cruciale del nesso sociale complessivo di produzione di cose e di idee, fino al paradosso che il tema è scomparso. Considerazioni analoghe si potrebbero fare riguardo alla critica del Neoliberismo, talvolta condotta senza neanche nominare monsieur le capital.
Per andare oltre la descrizione o la pur comprensibile condanna morale, si tratta di comprendere come l’ideologia populista sia concettualmente e realmente possibile nella dinamica tarda del modo di produzione capitalistico; quali elementi strutturali la rendano socialmente praticabile. Anche qui la confusione è tanta e forse vale la pena ripartire dalle basi, ricordando che con ideologia non si intende semplicemente il prevalere di questo o quel discorso, ma l’affermarsi di una concezione del mondo già esistente in una prassi sociale effettiva, che riannoda a sua volta a posizioni di classe precise. Quindi, finisce per avere carattere estremamente limitato e scarsamente efficace la critica “morale” dell’inumanità o dell’ingiustizia del plebiscitarismo, del razzismo, della crisi delle istituzioni democratiche che in genere si associano al populismo; esistono processi sociali obiettivi che rendono queste deprecabili idee socialmente appetibili, perché rispondono o danno voce a prassi sociali già obiettivamente in atto.
La comprensione di come il capitalismo “crepuscolare” riconfiguri forme di soggettualità - e quindi di percezione sociale - la cui forma fondamentale è l’atomo individuale irriducibile che si somma come “popolo”, “moltitudine” e via dicendo, è la sfida teorica e pratica che ci sta di fronte. Perché è estremamente facile cadere vittima di questa parvenza e sostenere addirittura che questa moltitudine di atomi sia, come tale, un soggetto potenziale capace di combinarsi trans-individualmente in varie forme; fino a convincersi che tale massa informe sia “popolo”. Ciò significa prendere la parvenza fenomenica del modo di produzione capitalistico non come la necessaria manifestazione di esso, ma come la sostanza stessa del processo. Già capire questo passaggio è un importante passo in avanti, ciò tuttavia non basta, perché si tratta di mostrare le ragioni per cui questa parvenza viene presa per essenza, vale a dire è parvenza oggettiva. Si tratta parallelamente di individuare obiettivamente gli effettivi soggetti storici nella loro configurazione complessa e mediata rispetto al vecchio schematismo binario operai-capitale. Questo però è possibile farlo solo attraverso Marx e una corretta ricostruzione della sua teoria delle classi a un livello di astrazione più basso di quella della teoria astratta del modo di produzione capitalistico [3].
Insomma, se posizioni potenzialmente populiste sono esistite a partire dal romanticismo, la cosa da spiegare non è che il populismo esista, ma come esso possa diventare egemone. Questa è la sfida teorica e pratica [4].

Note:
[1]  Nicolao Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[2] Bruno Bongiovanni, voce “Populismo” sulla  Enciclopedia delle scienze sociali Treccani (1996).
[3] Tentativi in questo senso sono quelli di Alessandro Mazzone su “Proteo” di alcuni anni fa: 1. Le classi nel mondo moderno, 2) Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte), 3) Le classi nel mondo moderno (parte terza) Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento. Mi permetto di rimandare anche alla mia distinzione tra “forme” e “figure” sviluppata nella terza parte di Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008 (una introduzione sintetica al tema la si può trovare in: Epoca, fasi storiche, Capitalismi).
[4] Ho cercato di iniziare a rispondere a questa domanda in Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino (in uscita).
30/11/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Saturday, 26 October 2019

Roberto Fineschi. Un nuovo Marx, conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018




Roberto Fineschi 
Un nuovo Marx



[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]




OFFICINA MARX - primo incontro 

1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati.

In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.

Sicuramente questo è in parte il destino che l’opera di Marx ha subito in Unione Sovietica o nell’est Europa dove era una dottrina ufficiale di una istituzione e non poteva che essere vera, immodificabile, sicura in secula seculorum. Il diamat ne è l'esempio per antonomasia. Tra gli elementi cardine di queste varie formulazioni avevamo ovviamente che il socialismo reale costituiva l’inveramento delle teorie di Marx: il socialismo reale realizzandosi verificava le previsioni di Marx, l’esistenza di una intrinseca necessità storica per cui alla fine lì si doveva arrivare. Il presunto esito della evoluzione storica era quello che si era verificato.

Questa ideologia ebbe grande forza e direi quasi anche legittimità a suo tempo, perché dava coraggio e speranza ai militanti. Come dire: se il risultato della nostra lotta è quello verso cui tende il corso storico e ciò inevitabilmente accadrà, noi siamo forti perché cavalchiamo l’onda della storia; tutto ciò ci legittima nella nostra azione politica. Questa ideologia che pareva positivamente legittimare il movimento storico-politico nel momento dell’espansione, nel momento del collasso, della fine del socialismo reale (già nel periodo della sua difficile vita almeno dal secondo dopoguerra) suonava come una controevidenza: se Marx prima aveva ragione perché avrebbe sostenuto che il cosiddetto socialismo reale era la verifica delle sue previsioni, il suo crollo schiacciava sotto le macerie del muro non solo quell’esperienza, ma Marx stesso, anche Marx finiva nella spazzatura della storia insieme al socialismo reale. Quindi, il convitato di pietra a queste discussioni su Marx è spesso proprio il socialismo reale.

Gran parte di questi nuovi studi che anche io sto portando avanti e anche altri, come punto di partenza mirano a mostrare che il socialismo reale nel bene e nel male, perché anche di cose positive ne sono successe, non è tutt’uno con Marx.

Ovviamente non è vero che il socialismo reale non c’entra niente con Marx, semplicemente non sono la stessa cosa. Se si parte da questa premessa, la sua teoria, probabilmente, ha ancora qualcosa da dire al presente. Questo è un po’ lo sforzo. Anche perché a ben vedere Marx parla pochissimo del socialismo reale o, meglio, della società futura. Se si vanno a leggere le molte opere di Marx, la società futura è accennata, indicata con poche frasi, non è teorizzata nella sua complessità. Ci sono alcuni spunti come la gestione razionale, però tra l’enunciare il bisogno di una gestione razionale dell’economia e poi mostrare come questa funzioni, sia strutturabile, ce ne corre, e Marx non lo fa. In realtà, Marx sostanzialmente studia il modo di produzione capitalistico, questo è l’oggetto della sua ricerca, studia come funziona il capitalismo. Questa distinzione è importante perché non si può imputare a lui tutto quello che è avvenuto dopo. E’ un discorso aperto che si presta a più interpretazioni. Questa in genere è l’inizio della risposta alla prima obiezione che viene fatta, cioè la presunta identità tra socialismo reale e Marx.

La seconda obiezione che viene sollevata è che Marx parlava sostanzialmente della classe operaia, vedeva nella classe operaia il soggetto storico antagonista al capitale, la classe operaia soprattutto individuata nell’operaio di fabbrica, nell’operaio massa, e che, venendo meno o ridimensionandosi questa figura, verrebbe a mancare la terra sotto ai piedi a uno degli assunti fondamentali e, quindi, di nuovo Marx si sarebbe sbagliato oppure avrebbe avuto ragione entro certi limiti. Alcuni oggi vanno quindi a teorizzare la società post-moderna, post-industriale, post-operaista; cercare i soggetti che non siano gli operai-massa sarebbe andare oltre Marx, cioè utilizzare Marx ma per superarlo, per far vedere come la sua teoria fosse limitata e come ci sia bisogno di andare oltre. Io credo che la questione vada invece affrontato avendo presente i diversi livelli di “astrazione” a cui la teoria è sviluppata.

Prima di entrare nel merito vorrei però fare una breve parentesi relativa alla pubblicazione della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels, la Marx-Engels-Gesamtausgabe. Alcune delle loro opere tradizionali sono state profondamente interessate dalle novità editoriali.



2. Per quanto riguarda L’ideologia tedesca, è stata pubblicata la nuova edizione qualche mese fa e ci sono significative novità, soprattutto per quanto riguarda il famoso primo capitolo su Feuerbach in cui, secondo alcune interpretazioni tradizionali, ci sarebbe addirittura la fondazione della dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, i cardini del materialismo storico. Questo primo capitolo proprio non esiste come stesura indipendente, è un collage di vari materiali preparatori; addirittura alcuni titoli erano in un angolo e sono stati messi in testa. Più che di un libro, si trattava di bozze a stampa di articoli scritti per un trimestrale poi mai realizzato. Era rimasto tutto lì e negli anni ’20 Riazanov, allora editore della prima MEGA (il primo tentativo di realizzare un’edizione storico-critico poi naufragato), felice di aver trovato il famoso libro lasciato alla critica “rodente” dei topi in cui si fa menzione nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, lo strutturò non sempre in maniera filologicamente accettabile. L’intervento di Adoratsky, nuovo editore della MEGA dopo la purga di Rjazanov, peggiorò ulteriormente la situazione, ristrutturando il capitolo su Feuerbach in maniera assolutamente arbitraria. Sono stati testi forieri di molte interpretazioni; il libri del resto hanno il loro destino, quindi anche queste interpretazioni filologicamente non perfette hanno prodotto teorie, interpretazioni ecc., ecc., che di per sé hanno una loro dignità; il punto attuale è tuttavia che è possibile tornare a Marx, cioè si possono finalmente leggere i testi per come lui li ha scritti. Questo vale in particolar modo per Il capitale, l’opera matura di Marx, incompiuta, al quale ha praticamente dedicato tutta la sua vita, almeno a partire dal ’57 in poi, scrivendo tre giganteschi manoscritti in cui ha buttato giù tre volte tutta la teoria; a grandi linee ovviamente, poi pubblicando il primo libro in più edizioni con moltissime varianti e poi cercando di pubblicare il secondo e il terzo senza riuscirvi. E’ noto che, dopo la sua morte, Engels ha pubblicato il secondo e il terzo libro. Nelle introduzioni spiega che tipo di lavoro editoriale ha fatto, non raccontando tuttavia tutta la storia. Adesso finalmente sono stati pubblicati tutti i manoscritti originali su cui Engels ha lavorato e quello che emerge in maniera evidente è che i libri non erano finiti, erano ben lungi dall’avere una forma pubblicabile. In particolare nel terzo libro abbiamo il manoscritto principale su cui Engels lavorò è del 1864/65; Marx morì nel 1883 e il libro uscirà curato da Engels nel 1894. In realtà, questo terzo libro è quindi quello meno elaborato, perché il primo libro Marx l’ha pubblicato nel 1867 poi l’ha ripubblicato altre tre volte; il manoscritto per il terzo libro è quindi un manoscritto vecchio, largamente incompiuto, c’è tutta una sezione che si intitola “La confusione”. Lui stesso parlando del suo lavoro pensa che questa parta sia confusa; è una lista di citazioni sul credito, sul capitale fittizio, evidentemente mostra che ci stava ancora ragionando, non aveva le idee chiare. Per dare un esempio di come Engels abbia alterato questa parte, non perché avesse cattive intenzioni, ma semplicemente perché per essere pubblicato un libro deve essere finito ed il manoscritto non lo era, quindi bisognava lo finisse lui. Da tutta questa parte che si intitola “la confusione” Engels ha tirato fuori 11 capitoli che hanno un titolo, una struttura e che in genere sono costituiti da delle citazioni raccordate da un paragrafetto scritto da Engels, un cappello di Engels, la citazione, poi un raccordo di Engels. Con questo non si intende dire che Engels è un mistificatore, un traditore, ci mancherebbe altro, Engels ha cercato di fare nella maniera più onesta possibile il suo lavoro; il punto è che il libro non era finito e che l’ha finito lui. L’ha finito nel senso che l’ha pubblicato come opera compiuta, in realtà un materiale magmatico in cui c’erano tantissime porte aperte. Per citare alcuni dei problemi classici dell’interpretazione marxiana, la trasformazione del valore in prezzi era tutt’altro che finita, era un’esposizione composita. Anche la caduta tendenziale del saggio del profitto era tutt’altro che compiuta. Per non parlare del capitale fittizio dove c’è tutta questa parte che si chiama confusione. Se un libro del genere viene pubblicato come un libro finito, è un libro aporetico dove ci sono delle parti che fanno a cazzotti con altre parti. Per esempio tutto il dibattito sulla trasformazione del valore in prezzi, che è uno dei temi classici dell’esegesi marxiana, nasce dal presentare come finito uno sviluppo che aveva direzioni contrastanti e in sviluppo. Ritornare ai testi di Marx permette di utilizzare queste porte che erano aperte per andare avanti, per approfondire ulteriormente il discorso di Marx al di là dell’empasse storica in cui è finito perché senza queste novità , se stiamo ai testi tradizionali, si è veramente già detto tutto, probabilmente anche più di tutto. Il Marx tradizionale è stato letto, discusso e ridiscusso, è veramente difficile aggiungere qualcosa.

Il nuovo Marx non è nuovo solo nell’interpretazione ma lo è nella base testuale, cioè proprio un nuovo Marx da leggere, nuovi testi o testi rinnovati. Tra l’altro, nell’edizione critica hanno trovato anche nuovi manoscritti che non si conoscevano e sono in corso di pubblicazione trentadue volumi di annotazioni sia di Marx che di Engels. Questi quando studiavano un libro copiavano dei passaggi salienti e poi li commentavano o meno; di questo materiale ci sono trentadue volumi! Quindi veramente ora è possibile andare rigo per rigo a ricercare e ripensare anche criticamente vecchie nozioni alla luce di queste nuove evidenze testuali.



3. Alcuni esempi per dirvi perché è così importante tornare al testo. Chi si è mai occupato di Marx in vita sua sa che Marx è quello della teoria del Materialismo storico. Secondo voi Marx in tutta la sua opera quante volta usa l’espressione materialismo storico? Mai, neanche una volta. Oppure, Marx è il filosofo della Filosofia della prassi. Quante volte Marx in tutta la sua opera usa l’espressione filosofia della prassi? Mai. Per chi ha studiato economia Marx è il filosofo di valore-lavoro. Quante volte Marx ha utilizzato nella sua opera l’espressione valore-lavoro? Mai, neanche una volta. La cosa paradossale è che tutti i capitoli del manuale di filosofia o di economia usano espressioni per definire Marx che lui non ha mai utilizzato. Quindi è cruciale tornare al testo di Marx per vedere cosa Marx ha detto veramente.

Considerata a un alto livello di astrazione, la sua teoria dimostra di avere capacità di previsione di lungo periodo sorprendenti, in quanto teorizza tutta una serie di fenomeni che sono più attuali ora di quanto non fossero quando scrisse. Questa è la cosa veramente impressionante. Per esempio, prendiamo la globalizzazione; Marx non usa il termine globalizzazione, più hegelianamente dice “universalizzazione del lavoro individuale e viceversa”; la concatenazione della produzione e riproduzione del genere umano a livello mondiale, secondo Marx è una delle tendenze di lungo corso del modo di produzione capitalistico e lo dice anche nel Manifesto ma lo teorizza nel 1857/58 in un momento in cui di strada ce n’era ancora da fare prima che si raggiungesse l’ampiezza pervasiva odierna. La sua teoria ha previsto, cento anni prima, delle tendenze di lungo periodo che si sarebbero sviluppate e si sono sviluppate. Secondo lui, il modo di produzione capitalistico tende a fare altre cose, per esempio aumentare in maniera esponenziale la produttività del lavoro. Il lavoro diventerà sempre più produttivo. Anche qui difficile dire che non sia così, perché la produttività del lavoro è spaventosamente aumentata. Marx è un teorico non solo della dimensione cooperativa del lavorare ma del processo di determinazione della scienza e dell’automazione del lavoro ma come una tendenza di lungo corso del modo di produzione capitalistico, e di nuovo anche qui mi pare aver avuto ragione, proprio sviluppando la teoria del plusvalore relativo e dimostrando come il modo di produzione capitalistico, contraddittoriamente, da una parte si basi sullo sfruttamento del lavoro vivo ma dall’altra tenda ad espellere il lavoro vivo dal processo produttivo, per cui si tende sempre più a ridurre la parte del lavoro necessario. Questa contraddizione di fondo fa sì che l’apporto lavorativo del singolo lavoratore diventi sempre più specializzato, sempre più parziale, fino al punto in cui sia così formalistico da poter essere sostituito da una macchina. E’ il presupposto teorico per pensare l’automazione a livello di massa. Paradossalmente, le provocazioni della fine del lavoro non sono così incoerenti con quello che diceva Marx, non perché il lavoro finisca effettivamente ma perché la tendenza intrinseca del modo di produzione capitalistico di basarsi sul lavoro e espellere il lavoro è in atto, e determina nel lungo periodo questo processo di espulsione generalizzata e, quindi, come conseguenza la disoccupazione di massa. Una gigantesca disoccupazione di massa che da un certo punto in poi non è neppure elastica, ma rigida, non riassorbibile dall’ulteriore espansione della produzione. Insomma, anche qua secondo me le dinamiche correnti sono in linea con quanto Marx ipotizzava.



4. La crisi. Anche questo è un tema per cui in realtà Marx è stato sulla bocca di tutti dato che le teorie ortodosse non hanno una spiegazione della crisi. Se voi studiate nei manuali di macroeconomia leggete di crisi frizionali, crisi di riassestamento, rigidità che possono essere fluidificate con interventi esterni che però non implicano ciclicità strutturali per cui la crisi è un elemento costante, ricorrente della riproduzione sociale; quindi quando ci si trova di fronte a crisi come quella del 2007, 2008, in parte ancora in atto, i nostri economisti ufficiali non sanno che dire. Cito spesso che su Rai due Giuliano Amato spiegava la crisi con la teoria della sovrapproduzione di Marx, su Rai due alle 14,30! Non aveva un teorico ortodosso che gli dicesse perché potesse esserci una crisi così clamorosa e deflagrante che spezzava in maniera così dirompente le dinamiche della riproduzione. E Giuliano Amato spiega con eleganza, su Rai due, che c’è la crisi, perché Marx ha ragione, perché c’è la sovrapproduzione, perché il modo di produzione capitalistico tende a produrre a prescindere dal bisogno solvente, cioè a prescindere da chi può pagare, quindi alla fine ingolfa il mercato con una quantità di merci non vendibili, crolla il prezzo, la speculazione finanziaria non può rispondere a questa dinamica oggettiva.

Tant’è che si torna a parlare Karl Marx, Keynes, Schumpeter, tutti quegli autori che alla fine hanno messo in dubbio che un’armonia prestabilita riportasse tutte le cose al suo posto. Nella teoria di Marx la crisi è strutturale, il modo di produzione capitalistico necessariamente, ciclicamente produrrà crisi, niente di più normale: certo che c’è la crisi perché il modo di produzione capitalistico funziona così.

L’ultima parte de Il Capitale è dedicata al credito e al capitale fittizio, insomma alla finanza, e questo di nuovo in un periodo in cui sì certo c’era la finanza ma non era sviluppata al livello in cui è sviluppata adesso; Marx vede chiaramente quali sono le tendenze. Il modo di produzione capitalistico nel suo processo di accumulazione ad un certo punto tende a scindere e a presentare come due fenomeni apparentemente indipendenti l’accumulazione reale da una parte e l’accumulazione fittizia dall’altra. Tutta l’ultima parte della teoria del Capitale è incentrata sull’analisi del rapporto tra questi due tipi di accumulazione, come l’accumulazione fittizia ha effetti su quella reale e viceversa e quindi ha chiaramente in mente il problema che le due non coincidono immediatamente, cioè che ci sono dei livelli di distanziamento che implicano anche una moltiplicazione degli elementi fittizi circolanti, non c’è solo il denaro, ci sono le azioni, c’è il credito, le cedole di credito, le valute. Insomma la complessità di tutta questa materia Marx non l’analizza fino in fondo anche perché quando la teorizza lui ancora non si era sviluppata al livello in cui si è sviluppata adesso. Però non è vero, come tanti dicono, che Marx non pensi alla finanza, al contrario mette il tema della finanza proprio come punto finale della sua teoria del Capitale; è lì che tutta la complessità del sistema va a complicarsi ulteriormente. Questo è tutto un settore in cui si può lavorare. Però in Marx c’è una base da cui partire.



5. Verrei adesso, per tornare a quanto dicevo all’inizio, alla questione del lavoratore perché alcuni sostengono che sulla questione dell’operaio Marx si è sbagliato, perché l’operaio doveva essere il soggetto ecc., ecc., Con la rivoluzione si è sbagliato perché doveva essere in Inghilterra, nei paesi avanzati, ecc., ecc., quindi bisogna dar conto di questi aspetti,

Secondo me qui è possibile trovare una spiegazione e il punto di partenza sostanzialmente è : di cosa sta parlando Marx? Sta parlando del capitalismo della rivoluzione industriale? Sta parlando del capitalismo in generale? Cioè è una specie di teorizzazione di quello che stava accadendo nel 1800 in Inghilterra oppure è una teoria più generale del capitalismo che va ad individuare dei meccanismi di fondo che non necessariamente si riducono a quella fase storica? Secondo me la risposta è la seconda e anche qui la filologia aiuta. In primo luogo Marx quante volta usa la parola capitalismo in tutta la sua teoria? Una. Una volta sola. Quello di cui Marx parla sempre è il modo di produzione capitalistico e lo dice lui che userà l’Inghilterra come esempio in quanto paese più sviluppato e quindi paese in cui il modo di produzione capitalistico è più apparente, si manifesta nella sua pienezza. Ma in realtà quello di cui parla sono le leggi fondamentali di questo sistema e se noi, avendo questa cosa in mente, andiamo a vedere la sua teoria del soggetto, questo permette di pensarlo in maniera diversa.

L’operaio massa, questa interpretazione tradizionale che viene fuori dalla sezione che nel primo libro del Capitale si intitola Produzione del plusvalore relativo in cui Marx fa vedere quali trasformazioni materiali e organizzative il modo di lavorare subisce una volta che è sussunto sotto al capitale, cioè una volta che viene inquadrato nel processo di valorizzazione del capitale. Le figure che menziona sono tre e sono celeberrime: 1) la cooperazione, il carattere cooperativo del lavoro che aumenta la sua produttività, 2) la manifattura in cui il singolo lavoratore diventa un lavoratore parziale cioè non è più in grado di realizzare tutto il processo da solo ma riesce a farlo in quanto collabora con altri, e infine 3) la grande industria in cui addirittura il singolo lavoratore diventa un’appendice di un processo oggettivo del quale lui esegue mansioni accessorie; addirittura, tendenzialmente potrà scomparire con l’automazione. Su questa falsariga, si è tradizionalmente individuato nell’operaio di fabbrica il culmine di questo processo e quindi nell’operaio il principale soggetto antagonista al capitale, perché appunto il lavoro andava organizzandosi in tale modalità. Questa interpretazione chiaramente legittima, anche in certe fasi storicamente vera, in quanto quando Marx scriveva quello sembrava l’effettivo corso della storia. Successivamente l’espansione della grande industria anche dopo la seconda guerra mondiale, anche in Italia, questo processo di generalizzazione dell’operaio di fabbrica come principale forma del lavorare sembrava confermarlo; poi, come sapete, almeno nei paesi più avanzati si è riscontrato un momento di arresto, la diminuzione del settore industriale, la terziarizzazione, la delocalizzazione insomma, e attraverso la meccanizzazione un processo di apparente riduzione della presenza dell’operaio di fabbrica e quindi la verifica fattuale della non correttezza di questa teoria.

Qui in realtà si può vedere come Marx affronti la tematica su due registri, uno più teorico formale e uno più storico-descrittivo. Quello storico–descrittivo è quello più menzionato, una specie di fenomenologia delle trasformazioni del lavoro nella società industriale. Invece, se noi guardiamo gli aspetti formali, in realtà individuiamo delle trasformazioni del modo di lavorare che non necessariamente funzionano solo con la manifattura o con la grande industria. Cerco di spiegarmi meglio.

Con la manifattura abbiamo la parzializzazione del lavoro: il lavoratore non è più in grado di fare tutto il processo ma solo un pezzetto, con la grande industria abbiamo la appendicizzazione. Questi passaggi però sono interpretabili come “figure” in cui storicamente nuove modalità di lavorare sono emerse. Queste modalità del lavorare, che sono emerse grazie al modo di produzione capitalistico in forma di manifattura e grande industria e quindi la parzializzazione, la subordinazione fra l’altro ad una finalità posta dal capitalista ecc. ecc., sono venute meno con il venir meno della grande industria o della manifattura? Credo di no. Perché anche nella più informatizzata delle catene lavorative, anche il freelance che sta a casa sua e riempie l’articoletto nel software preformato che gli viene presentato magari dall’India, lavora nelle stesse modalità formali: questo è un processo di parzializzazione e subordinazione che risponde esattamente a queste modalità di lavoro. Il lavoratore è parziale, subordinato e trasformato in appendice. Quindi sono modalità che è possibile incasellare in quella teoria, non sono altro da quella teoria. Anche la forma non necessariamente salariata del contratto di lavoro, il freelance per esempio, non è un lavoratore subordinato in termini contrattuali ma, di fatto nella sua pratica operativa, lo è, anzi è peggio ancora perché ha su di sé il peso dei tempi morti. Facciamo un esempio di uno che effettivamente lavora al giorno in un ufficio per cinque ore su otto per cui è pagato; se il suo datore di lavoro non riesce a farlo lavorare otto ore, il suo tempo morto è un costo, perché lo paga otto ore ma lui ne lavora cinque. Se invece questo è un freelance, abbiamo una specie di cottimo, le cinque ore in cui lui non è produttivo sono a carico del lavoratore, quindi tutto ciò rientra perfettamente nel sistema di riduzione dei costi che è la dinamica di produzione del plusvalore relativo. Se consideriamo le trasformazioni formali del modo di lavorare, dunque, quelle categorie nate per parlare di manifattura e di grande industria funzionano ancora. Sono processi complessivi con finalità eterodiretta che subordinano e parcellizzano l’attività dei singoli che lavorano per la valorizzazione del capitale esattamente come facevano prima.

In questo contesto è interessante vedere come si è tradizionalmente tradotta il termine “operaio”. Nelle edizioni tradizionali non solo italiane ma nelle lingue neolatine, se voi leggete il testo trovate che a volte abbiamo operaio a volte abbiamo lavoratore. In realtà se voi guardate il testo tedesco c’è sempre la stessa parola: “Arbeiter”. Questa scelta di tradurre in un modo o in un altro è sempre stata una scelta del traduttore che per suoi buoni motivi ha pensato che in certe circostanze era meglio mettere “operaio” rispetto a “lavoratore”, ma il testo tedesco ha sempre “Arbeiter”. E “Arbeiter” deriva da “arbeiten” e significa “lavorare”; la “-er” finale è come il nostro “-tore” in italiano, è il suffisso che si utilizza per creare un sostantivo da un verbo,. Marx parla del lavoratore come l’altro del capitale è il Lohn-Arbeiter, è il lavoro salariato; il concetto di lavoro salariato è ampio, molto più ampio non solo dell’operaio ma anche più ampio del “lavoratore produttivo”, che è meramente impiegato nel processo di produzione. “Lohn-Arbeiter” è quel soggetto che partecipa in maniera subordinata, parcellizzata o addirittura in forma di semiautoma al processo di valorizzazione del capitale.

Il processo di valorizzazione del capitale non è, infatti, solo il processo di produzione del capitale, cioè il primo libro de Il capitale, ma è anche il processo di circolazione del capitale, sono le configurazioni complessive del sistema che sono i tre libri del Capitale. Il capitolo che Marx intitola “Classi” è l’ultimo del terzo libro, non è nel primo libro; quindi il problema per chi cercasse da questi presupposti di sviluppare una teoria dei soggetti politici, dell’azione politica è da una parte un problema di definizioni fondamentali, cioè qual è “l’altro del capitale”, qual è il soggetto antagonista del capitale? Marx parla di lavoro salariato. Il lavoro salariato, mettendo molta enfasi sul lavoratore di fabbrica perché funzionava bene in quelle precise circostanze storiche, però più generalmente il lavoro salariato. Questa configurazione del lavoro salariato come parcellizzato, subordinato, un anello della grande catena della riproduzione capitalistica di per sé non individua nessun soggetto particolare, è il presupposto di fondo per pensare configurazioni più concrete. Una cosa è parlare del capitalismo italiano all’interno della Comunità europea nel 2018, un’altra del modo di produzione capitalistico in generale: nel mezzo ci sono tanti livelli intermedi, c’è per esempio una teoria dello Stato, del commercio internazionale, del mercato mondiale, di come questo si configura e crea delle soggettività più articolate.

Anche la disoccupazione di massa è perfettamente funzionale al lavoro salariato, è semplicemente l’altra faccia della medaglia, è quella parte dei lavoratori che il modo di produzione capitalistico rende inutilizzabile. Non è che è inutilizzabile in astratto, ma è inutilizzabile perché non valorizza il capitale. Come dire: anche questa disoccupazione di massa sta dentro il gioco. Chiaramente, se io ho dei progetti politici non posso parlare a queste persone come se fossero lavoratori salariati, devo spiegare e articolare il mio discorso in modo che loro capiscano che il loro non essere lavoratori salariati fa parte del sistema salariale, che sono funzionalmente non salariati perché non valorizzano il capitale e quindi stanno dentro allo stesso sistema dei salariati. Questo non è possibile senza teorie cuscinetto, senza teorie non del solo modo di produzione capitalistico, ma anche dei capitalismi più determinati e poi delle analisi fattuali, appunto del capitalismo italiano del 2018 nel contesto dell’Unione Europea ecc., ecc.



6. Perché Marx sbaglia nelle previsioni politiche? Perché neanche lui ha elaborato questi livelli intermedi, tutta questa teorizzazione intermedia non riesce a compierla prima della morte, addirittura lui muore prima di finire la teoria del modo di produzione capitalistico in generale che resta incompiuta; però, d’altro lato, lui Il capitale lo ha scritto per dare alla classe lavoratrice il più grande proiettile da scagliare contro la borghesia, per citare un suo famoso passaggio. E allora cosa fa: lui per primo fa il primo marxista della storia, cerca di utilizzare la sua teoria astratta con finalità politiche concrete, avendo però il problema di questa grande distanza tra livelli generali e livelli particolari. E infatti le sbaglia tutte: la rivoluzione in Inghilterra non c’è, la classe operaia inglese come avanguardia neppure, addirittura la rivoluzione si verifica in un angolo del mondo dove il capitalismo era presente in maniera sporadica. Però secondo me questo tentativo di ricostruzione che sto proponendo permette di rendere conto anche di questi fallimenti di Marx stesso; quindi, quando Marx parla della inevitabile rivoluzione fa politica, cerca di dire agli operai cui si rivolge che sono legittimati nella loro lotta, anche se scientificamente non glielo potrebbe ancora dire, perché scientificamente non ha completato la sua opera.

Nel piano originario di Marx c’erano sei libri: Il capitale, il lavoro salariato, la rendita, lo stato, il commercio internazionale e il mercato mondiale, sei libri di cui lui ha scritto a stento il primo, infilandoci dentro un pezzetto del secondo e un pezzetto del terzo, quindi è un progetto largamente incompiuto. Pur nella sua incompletezza, la sua è comunque una delle poche teorie che ci spiega molto del presente e quindi ecco il perché di questo sforzo di risalire alle fonti, per riappropriarci, per quanto possibile, di una autentica formulazione su cui lavorare. Perché le basi sono buone, nelle linee di fondo è stata capace di spiegare le linee tendenza di lungo periodo. Quella che secondo me è la sfida per noi contemporanei che in qualche modo ci rifacciamo a questa teoria è andare avanti e cercare di continuare il lavoro che Marx ha iniziato anche, chiaramente, vedendone tutti i limiti, anche quelli che ho esposto.

In realtà i limiti ci sono, la mancata teorizzazione dei livelli intermedi e quindi la ricerca di scorciatoie per intervenire immediatamente, cioè di risposte alla problematica politica quotidiana in base alla teoria astratta non è possibile immediatamente. In quella formulazioni lì a questo non non ci può essere risposta.

Non sono entrato nei dettagli di questioni teoriche più da specialisti relativamente a punti aporetici della teoria, per esempio la teoria della trasformazione. Non so che tipo di familiarità abbiate con questo tema, ma si tratta di una delle grandissime questioni nel dibattito tradizionale tra economisti: Marx nel terzo libro de Il capitale non riuscirebbe a trasformare i valori in prezzi, cioè a dimostrare come dalla teoria del valore si sviluppi una teoria dei prezzi di produzione. Voi direte, perché è una questione così importante? E’ così importante perché non è un assunto meramente teorico, ma prettamente politico: anche a chi muoveva questa critica non importava particolarmente della trasformazione, perché se voi prendete le teorie ortodosse che si insegnano a macroeconomia, alcune hanno delle premesse che fanno veramente ridere, con assunti assolutamente arbitrari. Anche tantissimi teorici “ortodossi” riconoscono tali, ma si fa finta di niente per portare avanti la teoria, per svilupparla. Non sono così fiscali. Perché invece sono così fiscali con il povero Karl? Perché la contraddizione tra il primo e il terzo libro distruggerebbe la coerenza della teoria e se la teoria non sta in piedi cos’è che pure non sta in piedi? Non sta in piedi lo sfruttamento, non sta in piedi l’antagonismo di classe, cadono insieme tutte le conseguenze politiche della teoria. Per questo hanno dato addosso quanto hanno potuto a quest’aspetto. Esso è in effetti aporetico, è veramente un punto difficile del testo; alcune delle critiche tradizionali effettivamente sollevano questioni legittime. Secondo me, la ricostruzione filologica deve dare delle risposte a questi legittimi dubbi e allo stesso tempo essere capace di rispondere positivamente, salvando insieme alla trasformazione lo sfruttamento e tutto quanto.



Quindi, se queste cose possono sembrare bizantinismi filologici, in realtà il punto è risolvere i nodi teorici concreti la cui soluzione da anche legittimazione a possibili teorie e movimenti politici che su questa teoria di basano. E’ questo la prospettiva pratica di questo tipo di ricerca.

Il punto chiave è: Marx è un autore veramente” nuovo”, che ha una base testuale rinnovata che permette di cercare di uscire dalle secche del dibattito tradizionale. Non si tratta di proporre in astratto nuove interpretazioni più o meno fantasiose, più o meno legittime, più o meno discusse e ridiscusse perché su questo si è veramente già detto tutto; il punto è che Marx è diverso nei testi e dato che è una teoria che nel lungo periodo ha già dimostrato di avere grandi capacità di previsione, vale proprio la pena di vedere se riusciamo a cavarne qualcosa, perché è veramente l’unica teoria che spiega crisi, mondializzazione, conflitto, finanziarizzazione, ci sta tutto dentro, quindi... grazie Marx e lavoriamoci!

Grazie a tutti voi per l’attenzione.

Friday, 6 September 2019

Ascanio Bernardeschi. Recensione di Saggi sull’(in)attualità di Marx, Consecutio Rerum, n. 5 /2018, Marx Inattuale, a cura di Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani, Edizioni Efesto, Roma, pp.541, € 20,00. Visibile anche su (http://www.consecutio.org)

Ascanio Bernardeschi. Recensione di Saggi sull’(in)attualità di Marx, Consecutio Rerum, n. 5 /2018, Marx Inattuale, a cura di Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani, Edizioni Efesto, Roma, pp.541, € 20,00. Visibile anche su (http://www.consecutio.org)
La penosa sorte in Italia degli sparsi movimenti politici che ancora si dichiarano anticapitalisti fa il paio con la fiacca ricezione di Marx e degli studi su Marx nell’editoria, nell’accademia e perfino nella politica. Probabilmente le due cose – le disfatte pratiche e l’ignoranza teorica – si alimentano a vicenda in una spirale perversa, quando invece gli insuccessi politici dovrebbero consigliare di dedicarsi un po’ di più allo studio e alla meditazione.
Per esempio la pregevole edizione del primo libro del Capitale ad opera di Roberto Fineschi non ha suscitato particolare interesse e discussione, tanto da determinare l’interruzione del progetto che prevedeva la pubblicazione anche degli gli altri libri. La stessa cosa si può dire degli studi connessi alle importanti acquisizioni derivanti dalla ripresa su nuove basi dell’edizione completa delle opere di Marx (MEGA2).
Neppure l’ultima, gravissima crisi del capitalismo, che pure all’estero ha determinato un importante risveglio dell’interesse e riconoscimenti sull’importanza delle opere del Moro, ha prodotto analoghi risultati nel Belpaese. Eppure, a mio modo di vedere, questa crisi non è
possibile decifrarla senza utilizzare la “cassetta degli attrezzi” di Marx.
Il 2018, bicentenario della sua nascita, è stato l’occasione per far tornare ad essere un business – in senso lato, cioè anche dal punto di vista politico, di audience, carrieristico etc. – il grande teorico del comunismo. Personalmente non amo la moda di saltare addosso ai centenari, ai bicentenari e così via, per affrontare gli argomenti che la ricorrenza pone al centro dell’attenzione. Mi sembrerebbe più razionale che l’oggetto delle diverse analisi, approfondimenti etc. fosse scelto in base alle necessità e alle urgenze teoriche e pratiche del momento, non alle occasioni commemorative.
Tuttavia, nel penoso quadro italiano, ben venga che l’occasione del bicentenario abbia stimolato la fioritura di iniziative editoriali, convegnistiche etc. Sennonché nella maggior parte dei casi ha prevalso il business sull’approfondimento, il civettare con le mode culturali sulla
serietà della ricerca, gli aspetti secondari del lascito marxiano su quelli principali.
Fra le eccezioni è da segnalare il numero 5 dell’anno 2018 della rivista Consecutio Rerum che tende a misurarsi molto seriamente con la questione centrale, con il capolavoro di Marx: la critica dell’economia politica. Nella quarta di copertina viene precisato il senso del titolo del poderoso volume, Marx Inattuale, riportando un motto ietzscheiano: inattuale perché si pone “contro il tempo” per superarlo “a favore di un tempo a venire”. E contro il tempo attuale
è anche la coraggiosa scelta dei curatori, Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani, di mettere in sequenza 26 saggi, talvolta di non facile lettura e alcuni dei quali in lingua inglese, seguendo tuttavia un filo conduttore che, sull’onda della Neue Marx-Lektüre, ma progredendo oltre, va dal metodo (prima parte della rivista) alla rilettura del primo libro del Capitale (seconda parte) e ad alcune “letture” (terza parte) incentrate sulla teoria marxiana del valore e le riflessioni sull’argomento di Suzanne de Brunhoff, Lucio Colletti, Christopher Arthur, Moishe
Pistone, Michael Heinrich, Augusto Graziani, Claudio Napoleoni, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Helmut Reichelt, Hans Georg Backaus e Bellofiore stesso.
È impossibile in una recensione, entrare nel merito, neppure per cenni, degli argomenti affrontati in numerosi articoli, tutti assai interessanti e che nel loro insieme, pur fra la pluralità di opinioni su alcuni nodi, ci mettono in condizione di rileggere Marx alla luce di una corretta comprensione del suo metodo. A questo proposito di grande valore è la puntuale ricostruzione filologica di Roberto Fineschi. Sullo stesso tema, nonché sulle recenti
interpretazioni del lascito marxiano, e talvolta sulle ricostruzioni intente a colmare le lacune di un capolavoro incompiuto, si sofferma Heinrich.
Altro lavoro che mi è parso particolarmente interessante è quello di Elena Louise Lange, che riguarda ancora il metodo di Marx da valutare, secondo l’autrice, alla luce dei suoi risultati (“the proof is in eating the pudding”. Sempre sul metodo è da segnalare un interessante contributo di Redolfi Riva. Altri argomenti trattati sono il lavoro astratto (Bonefeld, Bellofiore, Pozzoni, Arthur), il denaro e la moneta, spesso in connessione con l’astrazione del lavoro, cosa condivisibile visto che il denaro è la misura fenomenica del valore e che quest’ultimo viene effettivamente realizzato attraverso lo scambio della merce con il denaro (Engster, Carson, Balibar, Bellofiore), il
processo di valorizzazione basato sulla ricchezza esclusivamente quantitativa, astratta e non sui valori d’uso (Tomba), la giornata lavorativa (Meriggi), il plusvalore relativo e il sistema delle macchine (Turchetto e Micaloni), la legge dell’accumulazione capitalistica e le recenti
trasformazioni del mercato del lavoro (Forges Davanzati), l’accumulazione originaria (Taccola), la fenomenologia dello stato moderno capitalistico e la sussunzione dello stato al capitale (Fabiani), la teoria della colonizzazione (Masi), il contributo di Suzanne de Brunhoff (Carson e Balibar), la parabola di Lucio Colletti (Pozzoni), la lettura di Moishe Postone (O’Kane), la teoria macromonetaria della produzione capitalistica (Bellofiore).
Dopo questa sorta di sommario e l’espressione del massimo apprezzamento per questa iniziativa editoriale, mi rimane di soffermarmi sui soli, pochissimi, elementi che,
inevitabilmente in quanto siamo di fronte a una pluralità di opinioni, mi sono parsi meno convincenti.
Comincio con la pregevole introduzione di Bellofiore secondo il quale non ha senso cercare con sotterfugi di salvare Marx dai fallimenti dei marxismi reali, come – a suo modo di vedere – fa anche la Mega2, mentre invece ritengo che la restituzione dei testi veri di Marx non solo ci
consenta di replicare a una serie di critiche infondate, effettuate per secoli alla sua teoria, ma anche di avere maggiori strumenti per superare i limiti dei marxismi reali. Forse c’è un rapporto fra quel giudizio di Bellofiore e le sue affermazioni sulla crisi e sulla caduta del saggio del profitto in termini di “profit squeeze” e non come effetto della crescente composizione organica del capitale. Viene così buttato a mare un elemento non secondario dell’analisi marxiana che è confermato dall’evidenza empirica: è stata rilevata infatti una stretta correlazione fra l’innegabile andamento declinante del saggio del profitto nel lungo
periodo e la crescente composizione del capitale.
Su questa “legge” si sofferma anche il pur prezioso contributo di Heinrich. Egli parte da una osservazione a margine di Marx apposta nella sua personale copia del primo libro del Capitale e che Engels riporta in nota alla terza edizione. Scrive Marx che se l’ampliamento del capitale è qualitativo, “salirà allo stesso tempo il saggio del profitto per il capitale maggiore” (cioè, si intuisce, con una maggiore composizione organica del capitale). Heinrich vi vede una contraddizione fra questa osservazione e la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto illustrata nel terzo libro. Se così fosse si tratterebbe di un ripensamento di Marx, visto che l’annotazione è successiva alla stesura dei manoscritti poi pubblicati da Engels come terzo libro. Mi sembra che Heinrich cada in un fraintendimento che ha dell’incredibile per uno studioso del suo valore. Il capitale avente una maggiore composizione organica per effetto dell’introduzione di una innovazione, in effetti ricava un maggiore saggio profitto individuale perché si appropria di un extraprofitto ai danni dei concorrenti, potendo vendere a un prezzo maggiore del valore individuale del suo prodotto. Ma la medesima innovazione diminuire il saggio medio allorquando l’innovazione si generalizza e con essa la maggiore composizione organica. Viene confuso cioè il confronto fra saggi individuali in un dato momento con il confronto fra i saggi medi del profitto in due successivi momenti, prima e dopo l’introduzione generalizzata delle innovazioni che risparmiano lavoro. Per Marx il fattore tempo e le ripercussioni nel tempo di un investimento iniziale giocano un ruolo fondamentale.
Nel corposo saggio finale, Bellofiore, dopo un’analisi critica utile e puntuale dei contributi di molti autori, ribadisce la sua già nota teoria macromonetaria della produzione capitalistica, compresa l’enfatizzazione del ruolo dell’ante-validazione monetaria da parte del credito per la generazione del valore. A mio modo di vedere invece l’ante-validazione non gioca un ruolo così rilevante nella teoria del valore.
L’ultima annotazione è sulla scelta dei saggi pubblicati che evidentemente è conseguente agli argomenti messi a tema. È quindi comprensibile che manchino nella rassegna altri contributi contemporanei quali quelli per esempio della scuola della Temporal Single System Interpretation (a proposito dell’importanza del tempo) che avrebbero determinato un interessante confronto con le tesi di Bellofiore, oppure quelli di Giovanni Mazzetti sull’orario
di lavoro o di Gianfranco Pala sul salario. Ma un solo numero di una rivista non poteva certo rimediare a tutte le vistose lacune dell’editoria nostrana e l’iniziativa di Consecutio Rerum è senz’altro da salutare con compiacimento e gratitudine.
Ascanio Bernardeschi

Monday, 15 July 2019

“Marx y Hegel. Contribuciones a una relectura”: Roberto Fineschi


Fuente


“Marx y Hegel. Contribuciones a una relectura”: Roberto Fineschi

Reproducimos la traducción del libro de Roberto Fineschi “Marx e Hegel: Contributi a una rilettura” editado por Carocci.
Introducción
  1. Premisa
El estudio que presento es la continuación orgánica de una investigación iniciada hace algunos años que ha dado sus primeros frutos en el volumen aparecido bajo el título Ripartire da Marx. Processo storico de economia politica nella teoria del “capitale”. Teniendo en cuenta este vínculo explícito, nos valdremos aquí de las mismas tres premisas de carácter general introducidas entonces.
En la entrada Karl Marx para el diccionario enciclopédico Granat, Lenin escribía: “El Marxismo es el sistema de las concepciones y de la doctrina de Marx” [Lenin (1914): 9], prosiguiendo con una exposición de los principios generales y concluyendo con un capítulo sobre la táctica del proletariado. Ciertamente, no pretendo pronunciarme aquí sobre Lenin como personaje histórico, político o como pensador; limitándonos a esta afirmación, creo que se puede sostener que él opera una interpretación que después se hizo propia de toda una tradición, a la que incluso pertenecían los opositores de Lenin. Definiré el marxismo más propiamente como “una praxis política inspirada en la concepción y la doctrina de Marx”. Pero la teoría del modo de producción capitalista elaborada por Marx no es – ni pudo ser – inmediatamente una teoría política; se trata más bien de la reconstrucción, a un altísimo nivel de abstracción, del funcionamiento de la sociedad burguesa de la época, que implica líneas de tendencia, formas de movimiento, pero no una política inmediata. Esto no niega la explícita toma de partido de Marx, ni que se pueda utilizar su teoría con finalidades políticas, pero es necesario establecer: (i) que la política, colocándose a un nivel de abstracción muy bajo, para ser alcanzable necesita de una serie de teorías que el Moro no desarrolló, (ii) que, por tanto, la política no tiene que ver tan solo con las formas – que representan el objeto esencial de las teorizaciones de Marx – sino con las “figuras”, que son aquellos sujetos que en las subperiodizaciones de cada época encarnan las formas del movimiento. De este modo, por poner un ejemplo, el “obrero masa” fue legítimamente considerado una figura de movimiento de la sociedad capitalista, pero la forma de tal movimiento funciona en otras fases con otras figuras, precisamente porque no hay identidad entre forma y figura. Así, aunque en política Marx se dirigiese a los obreros de las fábricas, esto no agota el espectro de aplicabilidad de su teoría. Si, por una parte, se gana en amplitud, por otra se pierde en precisión. [1] Más en general, si sostenemos que a nivel político se actúa inevitablemente con las figuras, una cosa es la táctica y otra la teoría del modo de producción como fase de época.
De este modo, Marx y el marxismo no pueden ser la misma cosa, y además resulta inevitable hablar de “marxismos” en plural. [2] Estos tienen su dignidad histórica y, para bien o para mal, representan momentos importantes –sino imprescindibles en ciertos casos– de la historia reciente, pero debemos prestar atención para no caer en equiparaciones engañosas. Los objetos de investigación son, de hecho, dos. No se debe, por otra parte, cometer el error opuesto, es decir, creer que no sea lícito establecer cómo los diversos marxismos fueron fieles o no a las indicaciones dadas por Marx: que no exista identidad entre forma y figura no significa que cualquier tentativa de aplicación política sea correcta. Como siempre, es necesario mostrar las mediaciones (o eventualmente la ausencia de estas).
Además de la distinción entre la teoría del Moro y el marxismo, el segundo acontecimiento que permite cambiar la perspectiva interpretativa es la nueva edición histórico-crítica de las obras completas de Marx y Engels, la Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA²). La publicación se inició en 1975 a cargo del Instituto de Marxismo-Leninismo de Berlín y Moscú. Con el colapso del llamado “socialismo real” y la desaparición de estas instituciones, con tal de garantizar la continuación se creó, en 1990, la Fundación Internacional Marx-Engels (Internationale Marx-Engels-Stiftung – IMES – con sede en Ámsterdam y secretaría en la Academia de las Ciencias de Berlín y de Brandeburgo, donde la MEGA-Abteilung tiene la responsabilidad principal en la realización del proyecto). En su interior aparecieron una serie de textos inéditos – o editados anteriormente de forma filológicamente dudosa – fundamentales para una correcta comprensión del pensamiento de Marx, sobre todo por lo que respecta a la teoría del “capital”. [3]
Finalmente, de forma paralela a la publicación de la edición, se ha desarrollado un intenso debate entre los editores y diversos estudiosos, principalmente en lengua alemana, que ha dado interesantes frutos; esto coloca la base de un nuevo contexto interpretativo, filológicamente más crítico con la obra de Marx y Engels [para un informe cfr. Fineschi (2002b)].
2. Por una periodización del pensamiento marxiano
Establecer una periodización en el pensamiento de Karl Marx significa, inevitablemente, hablar de la elaboración y de la génesis de su obra más importante, gracias a la cual ha pasado a la historia del pensamiento, no solo filosófico: El Capital. [4] Esta afirmación no pretende menospreciar otros aspectos de su trabajo, sino tan solo confirmar que estos son teóricamente relevantes porque hallan soporte (si no lo hallan, caen) en la obra teórica fundamental de su autor. Sin El CapitalMarx hubiese tenido el mismo fin que muchos otros autores de la Izquierda hegeliana: ser mencionado en la historia de las ideas principalmente con relación a la obra de otros autores. [5]
A finales de 1843, entre Bruselas y París, Marx inició su propio estudio “económico”. Para evaluar el grado de madurez de su reflexión en aquel periodo, además de los Manuscritos económico-filosóficos del ’44 (republicados en MEGA² sección I, vol. 2), son de notable interés los cuadernos de extractos y notas que datan de ese periodo (aparecidos por primera vez en la sección IV de MEGA²). De la confrontación de esta amplia serie de textos resulta que los célebresManuscritos económico-filosóficos del ’44 no pueden ser considerados como una obra “planificada”: si no se los contextualiza y se los pone al mismo nivel que el trabajo de estudio y anotaciones que Marx desarrolló paralelamente en sus cuadernos de apuntes no se comprende su naturaleza. Rojahn ha comentado eficazmente:
Los Manuscritos del ’44 no deben ser considerados una entidad distinta, aislada, de los cuadernos de apuntes de aquel periodo. Las diversas partes de estos manuscritos no constituyen una “obra” verdadera y, basada en estudios precedentes, reflejan más bien diversos niveles de un proceso, el desarrollo de su pensamiento que, procediendo en aquel periodo repentinamente, era alimentado por continuas lecturas. Mientras Marx hacía sus extractos de citas (Exzerpte) más o menos naturalmente volcaba allí sus pensamientos. Esto sucedía alternativamente en los manuscritos y en los cuadernos. Solo el conjunto de estas notas, visto como una secuencia de extractos, comentarios, sumarios, reflexiones, e incluso extractos acompañados de ulteriores reflexiones, nos da una idea adecuada de cómo se desarrollaron sus concepciones [Rojahn (2002): 31 (trad. RF)].
La importancia de este texto, que tanto ha pesado sobre la exégesis marxiana del siglo XX, resulta por lo tanto redimensionada; un límite de fondo – no solo editorial, sino científico tout court de quienes lo publicaron – es haber considerado “obra” un texto en el que la distinción entre extractos y borrador no parece una cosa tan firme. Por otro lado también Rolf Hecker, importante filólogo y durante mucho tiempo miembro del equipo editorial de la MEGA, mostró cómo los escritos de aquel periodo acreditan inequívocamente que los conocimientos económicos de Marx eran mediocres: sólo estaba “aprendiendo” de los clásicos, lejos todavía de su crítica y superación [Hecker, (2002): 51].
A la espera de los resultados editoriales que se obtendrán tras la publicación de las otras obras de juventud, podemos referirnos a los estudios preparatorios realizados en su momento en la Unión Soviética y la Alemania Democrática. En referencia a La ideología alemana, sabemos por motivos diversos que funciona del mismo modo que los Manuscritos del ’44, es decir, que no se puede hablar de una “obra concebida”. De las cartas aparecidas en el 1º y 2º vol. de la III sección de la MEGA² emerge que el texto publicado con este título sería en realidad un conjunto de artículos periodísticos de Marx y Engels escritos para una futura revista cuatrimestral jamás realizada. Además de los artículos propios, también había otros materiales que habían sido recolectados para la revista, justo antes de renunciar al proyecto vista la imposibilidad de hallar editor. Los textos fueron devueltos a los autores (pero no todos; algunos de ellos, de Hess para ser más precisos, terminaron en La ideología alemana) y solo entonces Marx y Engels pensaron en asumir una publicación autónoma. [6]
Por otras vías, diversos filólogos han sostenido que con La ideología alemana Marx llegó a desarrollar el concepto clave de “modo de producción” y la noción elemental de la dialéctica de fuerzas productivas y relaciones de producción. Walter Tuchscheerer sostiene:
A diferencia de los Manuscritos económico-filosóficos y de los cuadernos de extractos de 1844 en los que no se distinguía todavía entre los diversos modos de producción…en La ideología alemana Marx y Engels han llegado ya al concepto de modo de producción. Muestran que los diversos modos de producción están caracterizados por la “forma de la propiedad” o relaciones de producción históricamente diversas que corresponden cada vez a un determinado grado de desarrollo de las fuerzas productivas de la sociedad. Marx y Engels demostraron también que a cierto punto de desarrollo de las fuerzas productivas las relaciones de producción devienen un obstáculo para su desarrollo ulterior y entran en contradicción con las fuerzas productivas de la sociedad. Esto lleva a colisiones en la historia, todas con “origen en la contradicción entre las fuerzas productivas y la forma de relaciones”. [7]
Este mismo autor sostenía, por otra parte, que la elaboración de la teoría marxiana de la mercancía y del capital no alcanza una forma estructurada antes de 1857. [8] Siendo así las cosas, parece más apropiado hablar de “intuiciones” de esta categoría, en cuanto que su efectiva explicación no se pudo hallar más que con la teoría desarrollada del modo de producción capitalista. De lo contrario, existe el riesgo de caer en abstracciones históricas meramente conceptuales – pensando en las interpretaciones de algunas partes familiares del Prefacio de Para la crítica de la economía política o las Tesis sobre Feuerbach – tan perspicaces cuanto esquemáticas y reductivas. [9]
Según los filólogos más acreditados, en la Miseria de la filosofía Marx no superó determinados límites de la teoría ricardiana [cfr. Tuchscheerer (1968): 222 ss.; Vygodski (1967): 10 ss.; Jahn/Nietzold (1978): 145 ss.]. Una importante nueva fuente para evaluar el progreso de sus conocimientos son también los 24 cuadernos londinenses de extractos y anotaciones escritos entre agosto de 1850 y enero de 1853. Marx se dedicó en ese periodo al estudio de dos teorías distintas y contrapuestas del dinero: el Currency Principle y la Banking School. Utilizó distintos argumentos de la segunda, aunque de modo crítico, para superar la posición de la primera, atacando sobre todo la teoría cuantitativa del dinero. [10]
Al final de una larga pausa ocurrida entre 1853 y 1857 en la que no se ocupó directamente de teoría económica, Marx inició la redacción del primer gran manuscrito total de la teoría del capital, llamada Grundrisse. Por primera vez, entre 1857 y 1858, Marx esbozó casi en su totalidad la teoría del modo de producción capitalista. Escrita esta obra, decidió presentar una primera parte de los resultados bajo el título Para la crítica de la economía política, publicado en 1859. Hay un interesante manuscrito preparatorio conocido como Urtext. La publicación, que contenía la exposición de argumentos que después serían recuperados en los primeros tres capítulos de El Capital, debería haber sido seguida por la exposición del “Capital en general”. En 1861, Marx inició la redacción pero, junto con la exposición histórica de la teoría de la plusvalía, comenzó una “digresión” de miles de páginas – las Teorías de la plusvalía -, seguida de otras reflexiones solo de reciente publicación. En este gran manuscrito (1861/63), Marx redacta por segunda vez la completa teoría del modo de producción capitalista, llegando a concebir el proyecto definitivo de los tres libros en base al cual escribiría, entre 1863 y 1865, todo por tercera vez. [11]
En 1867 apareció la primera edición alemana de El Capital, de la que el autor se mostró inmediatamente insatisfecho, de modo particular por la doble exposición de la forma de valor, una en el texto y otra en el apéndice para “no dialécticos”. Así comenzó una nueva y problemática historia, interna al libro I, única parte de la teoría efectivamente publicada por Marx. Para la segunda edición alemana, aparecida en 1872, fue redactado un manuscrito donde se elaboraron varias mejoras de gran importancia publicadas por primera vez en la MEGA², sección II, vol. 6, bajo el título editorial de Ergänzungen und Veränderungen zum ersten Band des Kapitals; [12] sirvió separadamente de soporte para las correcciones aportadas a la segunda edición alemana y a la edición francesa aparecida entre 1872 y 1875. Dado que la traducción francesa de Roy, aprobada por Marx, fue considerada por los modernos exégetas como absolutamente inadecuada, emergen ulteriores dificultades: Marx murió antes de dar a la imprenta la tercera edición alemana de 1883, que salió a cargo de Engels y cuya intervención fue parcialmente selectiva. La última versión enteramente marxiana es, por tanto, una traducción francesa muy imperfecta. [14] El mismo primer libro, al haber sido publicado en vida por su autor en varias versiones, no es “del todo definitivo”. [15]
Si una relativa incompletitud existe respecto del libro I, el discurso se vuelve todavía más complejo para el II y sobre todo el III, que se hallaban en un estado de elaboración muy deficitario. El Capital se quedó en un busto. [16] Para llevar a la imprenta una obra completa, Engels debió inevitablemente añadir algo de su parte y, entre limaduras, añadiduras y resistematizaciones, fue inevitablemente alterada. [17] Es fundamentalmente incorrecta la idea de que exista una obra finalizada en tres volúmenes titulada El Capital. Para el libro II, el “segundo violín” disponía de ocho manuscritos, para el III, además del de 1863/65, tenía solo exposiciones parciales, pero nunca una recuperación orgánica de la cuestión. Por supuesto, Marx había delineado la estructura general a partir de 1863/65 y tenía mucho material preparatorio. Trabajó a intervalos en el libro II en los periodos 1867/68, 1868/70 y 1877/81. Para el III tenía un manuscrito principal redactado en 1864/65 y una posterior serie de reposiciones parciales escritas hasta 1878. Faltaba algo más que algunos “acabados”. Así, según los materiales recibidos, el orden de publicación de los tres libros “históricos” del Capital es inverso al orden de elaboración.
Mirando hacia atrás podríamos individuar dos periodos del trabajo marxiano sobre El Capital. El primer periodo es aquel que precede a 1857, en el que Marx se deja la piel estudiando a los clásicos de la economía política, elaborando una noción embrionaria de la dialéctica de fuerzas productivas y relaciones de producción, criticando la falsa crítica (Proudhon) y tratando de explicar la realidad razonando sobre aquello que se manifiesta en la superficie: la tempestad monetaria. El segundo periodo se inicia en 1857 y es el de la construcción del modelo teórico del “capital”, que se articula, a su vez, en cuatro fases cronológicamente sucesivas: los manuscritos de 1857/58, los manuscritos de 1861/63, los manuscritos de 1863/65, y el periodo que inicia en 1867. Esta última fase se desarrolla en tres direcciones entretejidas: publicación y reelaboración del libro I de El Capital (manuscrito Ergänzungen…, II ed. alemana, ed. francesa, materiales para la III edición alemana y para la estadounidense nunca realizada); manuscritos para el libro II; manuscritos para el libro III.
3. El capital, la dialéctica y Hegel
En la Introducción a Ripartire da Marx, como premisa general pero más específica, buscaba aclarar el contexto en el que se coloca el análisis de la relación Marx/Hegel. Sobre el contenido de la teoría del capital, a la luz del estudio filológico, se puede sostener que consiste en un modelo lógico, a un alto nivel de abstracción, del funcionamiento “histórico/natural” del modo de producción capitalista. No se trata de una descripción del capitalismo del siglo XIX o simplemente de una teoría económica en el sentido corriente; no es, tampoco, una filosofía de la historia en el peor sentido del término, con el cual se designaría un curso “natural” de los eventos que culminarían en una especie de paraíso terrestre. Marx busca, más bien, identificar las leyes de movimiento de la formación económico-social capitalista en su conjunto, un modelo unitario en el que se defina a la vez lo que significa sociedad, hombre, historia, naturaleza, y así sucesivamente. Si tenemos fe en la constantemente repetida afirmación del mismo Marx, el método adoptado en su teoría es el dialéctico. Y, por otra parte, siempre a su modo de ver, Hegel es el autor que ha mostrado más adecuadamente las leyes generales de la dialéctica, aunque las rodease de un envoltorio místico. Así se presenta el problema de la lógica dialéctica de la teoría marxiana del capital, del método.
Mucho se ha discutido sobre el argumento; vivo el mismo autor, se le elogiaba o atacaba afirmando el mayor o menor rigor dialéctico. Tiempo después se debatió largamente, y desde diversos puntos de vista, sobre la tentativa, de una parte, de construir una filosofía materialista (materialismo dialéctico y materialismo histórico), y, de la otra, de dilucidar la relación con Hegel, así como de mostrar el desarrollo interno de la teoría de Marx y de su estructura (es célebre el problema de la contradicción, verdadera o presunta, entre el I y el III libro de El Capital). Debido a que la cuestión del método dialéctico no es divisible de aquella que hace referencia a la relación con Hegel – por la forma misma en la que fue establecida por el autor –, resulta comprensible la constante mención al filósofo de Stoccarda, en positivo y en negativo, y la separación de diversas “escuelas” sobre este punto. Podemos afirmar que no hemos llegado a conclusiones consensuadas, aunque sí se han desarrollado posiciones antitéticas en las que el método marxiano ha sido a veces dialéctico/hegeliano, dialéctico/anti-hegeliano, antidialéctico-antihegeliano/empirista, y se podría continuar. Además de insatisfacción, tanta diversidad ha provocado una comprensible confusión. Desde este punto muerto, en mi opinión, tan solo busco aclarar los términos del discurso, evitando así toda la serie de malentendidos que, sin duda, han contribuido a la proliferación de posiciones tan distantes.
A mi modo de ver, el punto crucial es que la ambigüedad no emerge tan solo del modo en que se lee a Marx, sino que se origina en la manera en la que el mismo Marx se relaciona con el problema del método (y con Hegel como autor de referencia). Las perspectivas interpretativas surgidas gracias a la publicación de la nueva edición histórico-crítica (MEGA²) abren nuevos horizontes (como mínimo por cuanto respecta a la periodización, tal y como se ha visto). La existencia de una estratificación interna ha sido definitivamente reconocida por lo que respecta a Hegel: se han identificado sustancialmente dos lecturas, la primera, juvenil, directamente influenciada por la izquierda hegeliana y el clima cultural de Vormäz; la segunda, aparecida en 1857, periodo en el que Marx escribe el primer bosquejo general de la teoría del modo de producción capitalista; Marx afirma que releer la Ciencia de la lógica le fue de gran ayuda por cuanto respecta al método [cfr. Carta a Engels del 16 de enero 1857].
La primera lectura ha sido, a su vez, fuente de diversos enfoques. Quien ha preferido subrayar la ruptura y la toma de distancia respecto de la filosofía idealista se ha basado principalmente en laCrítica de la filosofía del estado de Hegel del ’43; Marx ajustaría aquí definitivamente cuentas con Hegel y sucesivamente no cambiaría de opinión (posición oficial en los países soviéticos, della Volpe y su escuela). [18] Según otros, en realidad en este periodo (sobre todo en losManuscritos económico-filosóficos del ’44) Marx desarrollaría de modo innovador algunos elementos “idealistas” de Hegel, transfigurándolos de forma nueva y progresiva sobre la base de la centralidad del original concepto de “trabajo”. [19] Según otros, a su vez, este mismo posicionamiento, a pesar de las correcciones, socavaría los fundamentos teóricos del periodo juvenil de Marx, que seguiría siendo esencialmente idealista; fundamentos que serían afortunadamente abandonados sucesivamente, tras la ruptura de La ideología alemana con la antropología de Feuerbach; tras esta experiencia, Marx se alejaría de un enfoque hegeliano para siempre. [20]
Sobre la base de los escritos juveniles se sostiene (i) la divergencia substancial entre las dos filosofías (materialismo contra idealismo, inversión de sujeto y objeto), (ii) la continuidad en positivo (Hegel corregido, es decir, dialéctica de extrañación/alienación como momento de la teoría del trabajo), (iii) la continuidad en negativo (este Hegel todavía permanece como “mal” idealista, posición superada con la crítica de Feuerbach y abandono sucesivo del idealismo). Mucho ha pesado en la discusión el juicio de Althusser, en base al cual el Marx joven sería filósofo (dialéctico y hegeliano), mientras que el maduro sería científico porque abandona la filosofía (es decir, a Hegel y a la dialéctica).
Quienes quisieron privilegiar la segunda lectura de 1857 quisieron subrayar la continuidad principalmente en relación a la cuestión del método dialéctico, mostrando en concreto como Marx, mayoritariamente en los Grundrisse, lo habría efectivamente aplicado. Por supuesto, queda por explicar en estos enfoques la cuestión de la diferenciación “materialista”, de la célebre “inversión”: incluso si en la teoría marxiana fuese vigente el Übersichhinausgehen, queda por demostrar en qué se diferencia del hegeliano. La llamada escuela logicista, vinculada a los nombres de Backhaus y Reichelt, no me parece haber superado este punto, aunque aportó contribuciones indispensables para la reconstrucción de la dialéctica del concepto de capital y de la forma de valor. [21]
A la luz de tales premisas y con la especificación de estas, mi mencionado estudio sobre el plano del trabajo se articulaba del modo siguiente: en primer lugar, reconstruir la dialéctica del concepto de capital para comprender la estructura de la teoría del modo de producción capitalista como premisa necesaria al análisis de la relación Marx/Hegel o a cualquier discurso sobre el método dialéctico. Hecho esto, queda, en primer lugar, evaluar la comprensión que Marx tenía de la filosofía hegeliana, considerando particularmente la mediación operada en este sentido por las distintas corrientes de la llamada izquierda hegeliana. En segundo lugar, se trata de ver en qué medida esta comprensión efectivamente corresponda o no a la teoría hegeliana. En tercer lugar, se puede evaluar que la relación exista entre las categorías dialécticas usadas por Marx y aquellas hegelianas.
Cumplí, en el estudio mencionado, el paso preliminar, es decir, el estudio de la “lógica peculiar del objeto peculiar” [22] capital, mostrando cómo la dialéctica interna al concepto de mercancía es la que determina el desarrollo completo de la teoría, en plena conformidad con el principio hegeliano de la Auslegung der Sache selbst: no es una aplicación extrínseca de las categorías hegelianas, sino el desarrollo del contenido y, por lo tanto, la consistencia de los principios de su enseñanza metódica. En este sentido, me he dedicado a las otras dos cuestiones, profundizando en diversos aspectos del detalle. Veamos ahora las partes y el tema.
4. Tesis y estructura del libro
En el análisis tradicional del método marxiano (definido por contraposición al de Hegel), el límite de fondo creo que ha consistido en no ir más allá de la óptica interpretativa de Marx. Intento decir que muchos de los exégetas que han lidiado con la compleja cuestión no han avanzado más allá del punto de vista del Moro, no han creído que debiesen discutir críticamente la comprensión que él tenía del problema. Así, su interpretación de Hegel ha sido vinculante, se tomó por buena para siempre, sin sentir la necesidad de probar su consistencia. Dado que Marx definió entonces su propio método en contraposición al de Hegel, tal deficiencia ha pesado mucho sobre la reconstrucción del método propiamente marxiano. En substancia, se puede por ello trazar como hipótesis que la comprensión marxiana de Hegel, y los comentarios sobre su propio método, se pierden en una mala interpretación de la filosofía de este último que derivaba en Marx de su formación en la izquierda hegeliana. Para aclarar qué es el “método materialista” de Marx son necesarios una serie de pasos que en el debate tradicional se han resuelto solo parcialmente, nunca de modo orgánico ni satisfactorio (o incluso explícito). Me esforzaré, en el primer capítulo, por reconstruir la comprensión marxiana de Hegel en el desarrollo de su pensamiento y de valorar su consistencia. Primeramente, resulta necesario:
  1. Aclarar qué pretende Marx cuando habla de Hegel y del método dialéctico. Se procederá a un análisis profundo que aclare qué cambia en su análisis de madurez (tras 1857) respecto del juvenil;
  2. Ver dónde se origina la interpretación marxiana de Hegel, sobre todo por cuando respecta a las categorías centrales a las que de joven atribuía gran valor (es decir Entäußerung y Entfremdung). Se indicará cómo el ambiente de la izquierda hegeliana fue decisivo para filtrar estos conceptos y el modo de enfocar a Hegel en general;
  3. Mostrar cómo esta interpretación del joven Marx no encuentra confirmación en los textos de Hegel, es decir que representa una distorsión substancial que, por ciertos aspectos, pesará siempre en la comprensión marxiana del “maestro” y del problema del método.
Esclarecidos los términos de la relación Marx/Hegel, en el segundo capítulo será posible retomar una cuestión clásica – la teoría de la Alienación – y dar un juicio más circunstancial: por una parte, reconstruir el papel categorial que esta opera en la obra marxiana a lo largo de su desarrollo, por otra, tendré en cuenta algunos aspectos del debate en torno a esta que se han desarrollado.
A la luz de estos resultados se podrá desarrollar alguna reflexión sobre la presencia de la dialéctica en Marx y sobre la relación entre esta dialéctica y la hegeliana, más allá de la impostación marxiana del problema.
Traducción para Marxismo Crítico de Cristina García
Notas:
[1] He analizado más profundamente la cuestión en Fineschi (2003), al cual me remito.
[2] Cfr. Haupt (1978): 292 ss. Ver también Favili (1996), Corradi (2005).
[3] Para información detallada sobre la MEGA, ver Mazzone (2002a); esta es la publicación en la que la edición y los temas relacionados con la MEGA se tratan más profundamente. Para una panorámica de la situación internacional después del “colapso” ver Hecker (1999), para otras actualizaciones ver Fineschi, Sylvers (2003). Sobre la historia de la MEGA y de la edición de la obra de Marx y Engels están apareciendo en alemán interesantes publicaciones, en la redacción de las cuales se ha podido tener en cuenta también los nuevos materiales emergidos de los archivos hasta ahora inaccesibles. Ver, en particular, los Sonderbände de los “Beiträge zur Marx-Engels-Forschung. Neue Folge”. Por el momento, en Argument, Berlín-Hamburgo, han aparecido 4 títulos: David Borjsovic Rjazanov und die erste MEGA (1997), Erfolgreiche Kooperation: Das Frankfurt Institut für Sozialforschung und das Moskauer Marx-Engels-Institut (1924-1928) (2000), Stalinismus und das Ende der ersten Marx-Engels-Gesamtausgabe (1931-1941) (2001) y Die Marx-Engels-Werkausgaben in der UsDDR und DDR (1945-1968) (2006).
[4] Los estudios sobre el tema son numerosos, sistemáticos y de buen nivel; entre ellos, mencionamos a Rosdolsky (1968), Vygodski (1967), Mandel (1967), Tuchscheerer (1968), Müller (1978), W. Schwarz (1978).
[5] Con lo afirmado no pretendo tomar posición a favor de la célebre “ruptura epistemológica” de Althusser, del cual me separan diversos elementos, ya sea en el modo de leer Hegel o en el de interpretar la continuidad/discontinuidad entre obras juveniles y de madurez. Lo que me parece indudablemente justo es definir como “obras de la madurez” aquellas posteriores a 1857 [cfr. Althusser (1967): 14 ss.].
[6] Golovina (1979): 260 ss. Recientemente ha aparecido el primer número de la nueva revista oficial de la MEGA – el “Marx-Engels-Jahrbuch” 2004, Berlín 2005, que sustituirá la cerrada “MEGA-Studien” – dedicada completamente a la labor preparatoria del MEGA-Band que contendrá La ideología alemana. Estos temas serán retomados.
[7] Tuchscheerer (1968): 194 s.; citación interna de La ideología alemana. Sobre esta posición convienen otros estudiosos: Jahn, Nietzold (1978): 149 ss. E Jahn, Noske (1979): 21 s.
[8] Ver el mismo Tuchscheerer (1968): 222 ss., 283 ss., y otras fundamentales contribuciones de Vygodski (1967), (1976), así como toda la discusión sobre los cuadernos londinenses del periodo 1850-3: Müller (1978), Antonowa (1986) y Jahn, Noske (1979), Id. (1983).
[9] Sobre los límites de tales interpretaciones y sobre La ideología alemana en particular, ver Cazzaniga (1981): 33 ss., 51 ss. Considerado de poca importancia por los filólogos, Trabajo asalariado y capital; sobre este punto ver al detalle Vygodski (1983). Por lo que respecta alManifiesto comunista, creo que la importancia filosófica y científica de este texto está sobrevalorada, porque a menudo se olvida que esto es un manifiesto político. Comparto en substancia el juicio que dio A. Labriola en esta nota: “Pero el escrito que fue el Manifiesto…fue un sedimento de pensamientos varios reducidos por primera vez a la unidad intuitiva de un sistema…pero no fue, ni pretendió ser, ni el códice del socialismo, ni el catecismo del comunismo crítico, ni el vademecum de la revolución proletaria…El comunismo crítico, en realidad, comenzó apenas con el Manifiesto; debía desarrollarse, y de hecho se ha desarrollado…La totalidad de la doctrina que ahora es sólida y se llama Marxismo no llegó a la madurez sino en los años ’60 y ‘70” [Labriola (1977): 31 s.].
[10] No son muchos los estudios dedicados al tema. Podemos consultar el n. 8 y 9 de “Arbeitsblätter zur Marx-Engels-Forschung” (Halle, 1979) y las contribuciones de B. Arhold, H. Christ, R. Heliborn, K. Stude, M. Zimmermann. Los temas son retomados posteriormente en estudios de carácter general, entre los que se hallan W. Jahn y D. Noske en “Marx-Engels-Jahrbuch” (vieja serie) n. 6.
[11] Sobre la desaparición de la categoría de “capital en general” en los siguientes borradores se ha discutido mucho. Además del citado Vygodski, véanse las importantes reflexiones de M. Müller (1978) y W. Scwharz (1978). Véase también Fineschi (2001): 187 ss.
[12] En breves aparecerá una traducción italiana en la Ciudad del Sol de Nápoles, en anexo a una nueva edición del libro I de El Capital. En esta edición, con el apoyo del Instituto Italiano para los Estudios Filosóficos y el consenso de los Editori Riuniti, será retomada la publicación de las Obras Completas de Marx y Engels de las cuales dicho volumen formará parte.
[13] Sobre la mala calidad de la traducción francesa existe ahora una cierta convergencia entre varios estudiosos. Véanse los comentarios de D’Hondt, (1978): 50 (trad. RF): “Este libro ha sido traducido, en vida de Marx, por Joseph Roy; esta traducción es palpablemente con lagunas, arbitraria, constantemente y profundamente errónea…Si se compara la traducción de Joseph Roy y la segunda edición alemana del Capital…se ve que sería grotesco tomar en serio la satisfacción de Marx…”; además de la introducción de Jean-Pierre Lefebvre a la nueva traducción francesa del Capital [Lefebvre (1993): VII-LI]. Considerándola mejor en relación al tratamiento de la acumulación, sobre todo, Marx y Engels la consideraron una óptima edición como traducción. Esto es lo que surgió del debate entre los editores de las diversas ediciones del libro I del Capital en la MEGA durante los años ochenta; ver en particular Hecker, Hues, Kopf (1989). A modo de ejemplo de tal insuficiencia, basado en el compendio del Capital de Cafiero que se basaba en la edición francesa, ver Fineschi, Hecker (2002): 121 ss.
[14] Engels editó después la edición inglesa (republicada en MEGA² sección II, vol. 9) y la cuarta alemana (MEGA² sección II, vol. 10). Sobre la historia interna de las diversas ediciones del libro I, ver, entre muchos, los sabios Hecker (1987): 147 ss. Y Jungnickel (1988).
[15] Esto sigue causando incongruencias un poco ridículas, por lo que los lectores de lengua francesa e inglesa tienen un índice distinto de los alemanes (y de todos aquellos que tienen traducciones del alemán, donde el texto estándar es la cuarta edición alemana engelsiana de 1890). Hablando del “V capítulo”, por ejemplo, no se entienden las mismas cosas. La última edición francesa, a cargo de Lefevre, basada en la cuarta edición alemana y no en la de Roy, al menos en este aspecto ha resuelto el problema.
[16] Según R. Hecker “de una detallada comparación textual de la versión impresa con el manuscrito marxiano emerge un entero catálogo de intervenciones de Engels, entre las cuales: intervenciones en el orden del texto, reconsideración del “peso” de algunos pasajes, por ejemplo, conversión de notas al pie en texto normal, adjuntos, historizaciones, omisiones, cancelaciones y limaduras, como por ejemplo la creación de párrafos, expresiones retóricas, adjuntos relativos y, en fin, correcciones de contenido, terminológico y estilístico. Este examen también ha mostrado la existencia de una amplia serie de modificaciones textuales, resultando ser mucho mayores que aquellas que ya se conocían en precedentes publicaciones” [Hecker (2002): 65].
[17] Con esto no se pretende, de ningún modo, cargar a Engels con una cruz, como el fantasmático inventor del marxismo vs el Marx “puro”. Se afirma simplemente que cualquiera que pretendiese meter sus manos en aquellos manuscritos para publicarlos hubiese debido “terminarlos” de algún modo. Hoy, podemos leer los originales y valorar, de una parte, la labor de Marx y, de otra, la de Engels.
[18] Cfr. Della Volpe (1969); ver también el debate reconstruido en Fineschi (2002b): 93 ss.
[19] Ver Mészáros (1970). Para una interpretación de corte existencialista, ver Hyppolite (1963). El concepto de trabajo conectado con el de Alienación es central también en la interpretación de Lukács (1975).
[20] Es la conocida tesis de Althusser (1967).
[21] Cfr. Reichelt (1970) y Backhaus (1997). Para una reconstrucción un poco más profunda, desde otras posiciones, ver Heinrich (1999): 163 ss. En varios juicios formulados por Heinrich en respuesta a las (presuntas, a mi parecer) aporías marxianas, sobre todo relativas al valor y al trabajo abstracto, discrepo más o menos radicalmente. Estas posiciones, sin embargo, obtuvieron cierto seguimiento, incluyendo al mismo Reichelt, que ha terminado aceptando algunas de las más substanciales; él trató de superar algunas aporías con una teoría de la “Geltung” de la que se discute todavía en Alemania. Cfr. Reichelt (2002).
[22] Es esta la célebre expresión usada por Marx en el manuscrito sobre la crítica de la filosofía hegeliana del derecho de 1843, sobre la que se volverá enseguida. Prefiero equiparar “eigentümlich” a “peculiar” que a “específico” porque, en primer lugar, es mejor como traducción (“específico” por lo general se traduce como “spezifisch”), pero también porque el término retorna a menudo en Marx, por ejemplo en el célebre pasaje del I capítulo de El Capital a propósito de la “peculiaridad” de la forma de equivalente.
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“Marx y Hegel. Contribuciones a una relectura”: Roberto Fineschi

Índice
Introducción
  1. Premisa. 1
  2. Por una periodización del pensamiento marxiano. 4
  3. El capital, la dialéctica y Hegel. 12
  4. Tesis y estructura del libro. 17

Primer capítulo
Hegel según Marx
    1. Las dos lecturas. 21
      1. La primera lectura. 21
        1. La interpretación marxiana de Hegel entre el ’43 y el ’44. 23
        2. La “corrección” de Hegel entre el ’43 y el ’44. 30
        3. El avance (a medias) de la Ideología alemana. 34
        4. Entre la Ideología alemana y la segunda lectura. 39
      2. La segunda lectura. 42
        1. La Introducción a los Grundrisse. 43
        2. El Epílogo a la segunda edición alemana del libro primero de El Capital. 49
        3. Otros pasajes relevantes: una comparación entre antes y después del ’53. 53
      3. Resumen. 59
    2. Algunas fuentes de la interpretación marxiana de Hegel. 65
      1. Bruno Bauer. 66
      2. Feuerbach. 70
      3. Algunas consideraciones. 75
    3. Hegel según Hegel. 79
      1. Autoconsciencia y objeto. “Anstoß”. 80
      2. Alienación (Entäußerung) y Extrañación (Entfremdung). 87
      3. Inversión (Verkehrung). 98
Conclusión. 106
Segundo capítulo
Trabajo / trabajo alienado / alienación
Niveles lógicos y Entstehungsgeschichte del concepto de “trabajo” entre Marx y el marxismo
2.1 Los textos marxianos. 117
2.1.1 Marx crítico de la antropología. 117
2.1.2 Marx teórico de la Alienación. 123
2.1.3 Dos teorías irreconciliables de la historia. 131
2.1.4 Aporías. 137
2.2 Divagaciones sobre el debate y las aporías de la Alienación. 149
2.2.1 El “trabajo” y sus niveles lógicos. Lukács. 150
2.2.2 Alienación y fetichismo. 154
2.2.3 ¿Inversión o inversiones? Colletti. 156
2.2.4 ¿Qué Hegel? Althusser. 161
2.2.5 Sobre la reflexión metodológica de Galvano della Volpe. 164

Tercer capítulo 
Por la relación Marx/Hegel más allá de la comprensión de Marx
Introducción. 167
3.1 Reflexiones sobre el método. 175
3.1.1 Comprensión racional e intelectual. 175
3.1.2 Sobre el modo de investigación. 184
3.1.3 La conclusión de El Capital. 187
3.1.3.1 El fin y el comienzo. Círculo de círculos. 188
3.1.3.2 Por qué Marx no terminó El Capital. 191
3.1.4 Los límites del método. 193
3.2 Estructuras conceptuales específicas y analogías. 200
3.2.1  Mercancía, oposición y contradicción. 200
3.2.2 Procesión del capital y del concepto. 212
3.2.3 “Lógico” e “histórico”. 215
3.2.4  “Presupuesto” y “presupuesto-puesto”. 221
3.2.5 “Capital devenido” y “capital que deviene”. 225
3.2.6 Esencia, fenómeno, apariencia. 228
3.3 Lógica particular y lógica general. 231

Nota marginal. 238
Inversión de Hegel y Praxis. 238
Conclusión. 245
Bibliografía.
Artículo Completo en pdf: Marx y Hegel – Fineschi
El libro se puede adquirir en: http://www.carocci.it/

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate Dal significativo titolo “Stranieri ovunque”, la biennale di Venezia riporta nuovamen...