Monday 29 July 2024

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate

Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate


Dal significativo titolo “Stranieri ovunque”, la biennale di Venezia riporta nuovamente sotto i riflettori il tema della “decolonizzazione” e dello “Occidente” colonizzatore. Soggetto quanto mai controverso, proprio per la sua stratificata complessità, esso si presta a pericolose semplificazioni da cui, almeno in parte, non è esente la biennale stessa.
Una prima banale osservazione a margine è la seguente: manca il padiglione russo “colonizzato” dalla Bolivia; il padiglione “Corea” ovviamente è di pertinenza della “Corea del sud”; c’è un padiglione di Israele, dell’Arabia Saudita… Insomma l’inquadramento atlantico (la “colonizzazione atlantica”?) costituisce il quadro ge
nerale di un’esposizione che della decolonizzazione vorrebbe fare uno dei suoi temi centrali… Ma veniamo a bomba.
Il padiglione centrale dei giardini, a cura del brasiliano Adriano Pedrosa, è un repertorio sull’astrattismo per lo più pittorico con una carrellata di autori “non occidentali” che dimostrano come dagli anni Trenta in poi anche in altri paesi si seguissero efficacemente tali correnti. L’idea sarebbe dunque di rompere il canone “occidentale” alla luce di queste emergenze: gli outsiders sono bravi quanto gli insiders. Così facendo, tuttavia, questo canone viene piuttosto eretto a Canone con la c maiuscola al quale anche gli “altri” si conformano, “dimostrando” che anche loro erano bravi a seguirlo… Qui l’intenzione anticoloniale nasconde in verità una forte sudditanza culturale. Speculare a questo è l’atteggiamento, di verso opposto ma di direzione uguale, per cui si rifiuta qualunque modello che venga “dal di fuori” per sostenere il proprio nazionale: se per es. un’idea in Brasile è stata proposta da un italiano, questo sarebbe colonialismo. Si sostiene implicitamente che esisterebbe un qualcosa dato in origine prima di qualsiasi “contaminazione”, che andrebbe protetto dall’influenza straniera perché altrimenti sarebbe colonizzato; si finisce dunque per considerare qualunque influenza come una colonizzazione, quando invece normalmente si intende con ciò un’imposizione di modelli e costumi per via costrittiva e violenta. L’astratto identitarismo “originario” può pericolosamente diventare l’alter ego dell’anticolonialismo.


Questi cortocircuiti sono il frutto di malintese definizioni e di riduzionismi concettuali che nel migliore dei casi non portano a niente e nel peggiore a ideologie reazionarie.
La prima semplificazione è lo “Occidente”. Non tematizzato adeguatamente, esso viene fatto linearmente coincidere con colonialismo e imperialismo. Se sicuramente si tratta di due piaghe, è solo questo che ha prodotto l’Occidente? Le esperienze storiche e culturali che ricadono sotto questa etichetta sono le più diverse, anche di segno intrinsecamente opposto e contraddittorio: per es. schiavitù e democrazia, liberalismo, fascismo e comunismo; sono tutti la stessa cosa? Sono tutti negativi? Le idee di uguaglianza, libertà, per es. dove sono nate? Sono concetti occidentali. La decolonizzazione stessa è un concetto che è potuto nascere solo in un contesto “occidentale”.
Fatta l’equazione occidente=male, si procede alla successiva semplificazione non-occidente=bene. Siamo sicuri? Per es. una società basata sulle caste come quella indiana tradizionale, oppure su un feudalesimo brutale come quello tibetano, oppure sul cannibalismo tribale, o sulla superstizione religiosa siamo sicuri che sia migliore di quella occidentale?
Il presupposto non detto alla base del ragionamento di diversi decolonizzatori è che le idee di umanità, uguale dignità degli esseri umani e dei popoli sarebbero “per natura” e l’Occidente cattivo si sarebbe imposto negandole. Invece questi concetti sono nati e si sono sviluppati, in mezzo a mille contraddizioni, in occidente. A dispetto del suo antioccidentalismo, il presupposto del decolonialismo è un caposaldo della cultura occidentale.

È evidente che la storia umana è un processo complesso che si sviluppa per contraddizioni interne (colonialismo e imperialismo non sono una novità dei tempi moderni purtroppo). La metafora del dentro/fuori invece proietta queste contraddizioni su di un piano lineare che procede per sostituzioni complete di alternative autonome. Al contrario, la contraddizione è interna allo sviluppo stesso e si basa sul conflitto di dinamiche potenzialmente regressive o progressive. In esse i processi di inclusione ed esclusione sono organici e si possono affrontare e auspicabilmente risolvere solo considerando la dinamica contraddittoria del processo stesso. Questo processo, nell’epoca presente, ha la forma di moto del modo di produzione capitalistico dalle cui contraddizioni scaturisce l’essere umano in generale con la sua libertà ed eguaglianza e, contemporaneamente, la sua schiavitù salariale e/o coloniale; che produce il potenziale superamento del bisogno per tutti e, allo stesso tempo, la distruzione del pianeta e di popoli interi.

Se invece di essere anticapitalistico il processo di decolonizzazione diventa genericamente antioccidentale, si rischia di inseguire sogni pre-moderni, solo parventemente liberatori, o prospettare fughe in avanti post-occidentali dai contenuti indefiniti (quelle esperite storicamente non sono andate benissimo perché, malgrado il loro definirsi “oltre”, non hanno eliminato il capitalismo; hanno semmai tentato di reintrodurre la schiavitù e legittimare anche idelogicamente la barbarie imperialistica già ipocritamente praticata dal mondo liberale).


Wednesday 17 July 2024

Roberto Fineschi, L’onda lunga della crisi del marxismo (tra prassi e teoria) - Italo Calvino e la crisi del marxismo

Fonte: Dialettica&Filosofia, Nuova Serie, XVIII, 2024



Roberto Fineschi

L’onda lunga della crisi del marxismo 

(tra prassi e teoria)

Italo Calvino e la crisi del marxismo italiano negli anni Sessanta


Abstract

In the 70s we had the first signs of a theoretical and practical crisis of Marxism. In Italy in particular, the Communist Party tried to develop a strategy that took into account two relevant aspects: 1) the transformations of neocapitalism, which started to change the class structure of society, and therefore challenged the centrality of the factory working class, 2) the crisis of Soviet Union as historical model, which with difficulties could be proposed as alternative to capitalism in Western society. A Marxist that first understood some of these trends and their consequences was the famous writer Italo Calvino, who outlined already in the 60s some of the main issues that would emerge in the following decades.

Keywords

Marxismo, Italo Calvino, PCI, Berlinguer, Capitalismo crepuscolare

Premessa

La prima difficoltà nell’affrontare il tema proposto nasce dalla articolata definizione della stessa categoria di marxismo. Nel dibattito corrente si tende a distinguere tra (i) Marx come fondatore di una teoria della storia che nasce dall’esperienza pratica e che è capace di conseguenze pratiche, (ii) il marxismo, in generale, come tentativo di applicarla alla realtà con intenti trasformativi e (iii) i marxismi, al plurale, come diversificate modalità attraverso le quali quel tentativo viene concretizzato[1]. Si discute anche di quanto i vari marxismi siano stati coerenti con l’impianto generale della teoria di Marx, oggi in particolare alla luce delle novità emerse con la pubblicazione della nuova edizione storico-critica[2]. In via preliminare mi atterrò a questa articolazione, declinando quindi il tema a partire da una possibile individuazione di quale fosse il peculiare marxismo che entrò in crisi negli anni Settanta; poiché tuttavia caposaldo di questa impostazione è la mediata dialettica di teoria e prassi, di movimento reale e sua trasposizione politica, ritengo necessaria una premessa storico-reale e non meramente teorica. Le riflessioni qui proposte sono di carattere preliminare e da verificare in studi più approfonditi.

§1. Il marxismo-leninismo del PCI e la sua evoluzione negli anni Settanta

Credo si debba partire dall'individuazione dei tratti caratterizzanti il marxismo-leninismo del PCI, forma egemone di organizzazione pratica e politica in Italia, adattamento togliattiano di ispirazione gramsciana della tradizione sovietica sul modello del Partito nuovo[3]. Procedendo in maniera estremamente schematica e approssimativa, ritengo si possano individuare alcuni punti chiave:


1) la classe operaia come soggetto antagonista. L’idea della tendenziale polarizzazione sociale in operai contro capitalisti;

2) l’alleanza con i contadini per la formazione del blocco storico;

3) il partito come soggetto organizzativo con una sua struttura centrale forte e una sua capillare diffusione nella produzione e nella società civile;

4) proprietà e gestione statale della produzione come obiettivo di lungo termine in cui consisteva la realizzazione del socialismo, più o meno sulla falsariga del modello sovietico; il concetto di egemonia per la progressiva formazione di un senso comune comunista che andasse di pari passo con le modifiche di struttura;

5) l’idea che la questione strutturale fosse risolta, nel senso che, come sostiene Gramsci nei Quaderni, le premesse materiali fossero già poste. Da questo punto di vista la questione della rivoluzione diventava squisitamente – o esclusivamente – sovrastrutturale.

Se questa sommaria schematizzazione può costituire un primo punto di partenza, che cosa ne resta dopo i cambiamenti avvenuti nella dinamica del modo di produzione capitalistico dalla prima fase del dopoguerra ad oggi?[4]

A partire dagli anni Cinquanta i contadini progressivamente scompaiono. Con gli anni Settanta, con l’inizio dell’automatizzazione, delocalizzazione, ecc. anche gli operai tendono a diminuire. La società, ben lungi dal polarizzarsi in operai e capitalisti, tende piuttosto a moltiplicare gli attori che sembrano sempre più differenziarsi per tipologia lavorativa. Con questo gli assunti 1 e 2 sono entrati in profonda crisi. A chi rivolgersi allora? Quali i soggetti storici del cambiamento? Soprattutto per diventare maggioranza?

La progressiva proprietà e gestione statale dell’economia all’occidentale pareva il modello più efficace; questo però entrava in crisi con l’idea di “andare fino in fondo”, vale a dire con la statalizzazione universale, ovvero il modello sovietico che, in maniera sempre più evidente, sembrava funzionare male da qualsiasi punto di vista: produttivo, sociale, giuridico. Venendo meno l’alternativa epocale, la via praticabile appariva quella proposta dall’Occidente socialmente più avanzato, vale a dire la socialdemocrazia. Se da una parte questa scelta si prestava a critiche in quanto moderata, dall’altra era evidentemente dettata dalla mancanza di una via terza da proporre (a parte i salti nel buio per realizzare non si sa bene che cosa).

Il gettarsi nelle braccia dell’Occidente per quanto riguarda la teoria delle questioni strutturali era conseguenza del quinto punto: se infatti si considerava la questione della struttura come sostanzialmente risolta e si trattava solo di gestire il passaggio, si rinunciava a sviluppare un’autonoma teoria economica, non si riusciva a pensare il nesso struttura/sovrastruttura e, quindi, come esso co-determinasse i soggetti e le prospettive di trasformazione storica.

Con i cambiamenti storici epocali a partire dagli anni Cinquanta e poi ancora più drasticamente con gli anni Settanta (nell’arco di vent’anni l’Italia passa da paese agricolo a paese post-industriale) veniva, dunque, progressivamente meno tutto quel mondo reale su cui insisteva l’apparato teorico descritto. Restava solo il partito come struttura gestionale centrale e territorialmente organizzata. La strategia possibile non poteva allora che essere il “governismo” per fare la socialdemocrazia in maniera più efficiente e onesta dei corrotti e maldestri democristiani. Questa prospettiva, del resto sempre meramente teorica fin quando ha continuato a esistere l’Unione Sovietica, in quanto sul PCI al governo continuava a pesare il veto atlantico, significava diverse cose:

- accettare la socialdemocrazia, basata su una massiccia partecipazione statale nell’economia nazionale in cui però si manteneva il capitalismo, come struttura;

- rivolgersi genericamente a un popolo eterogeneo senza connotazione di classe come elettorato di riferimento;

- l’esito tendenzialmente consociativo di questa pratica portava ad andare sempre più incontro alle esigenze imprenditoriali; questo anche perché, non avendo un’idea specifica di sviluppo economico, si finiva per inseguire idee e proposte di chi aveva qualcosa da dire, cioè del capitale;

- ridisegnare una prospettiva “di sinistra” come promozione di diritti civili (quelli così sacrificati in Unione Sovietica, serviva anche per rifarsi la faccia) e il mantenimento (ma sempre un po’ meno) dei diritti sociali conseguiti in decenni di lotte di un tempo (quelle di classe); ma senza un’idea degli andamenti storici e una teoria economica alternativa, alla fine non restava che accettare le proposte del capitale che invece aveva le idee chiarissime e sempre più si muoveva in una direzione neoliberista;

- il partito organizzato veniva quindi utilizzato proprio come canale di diffusione della controrivoluzione liberale imponendo lui quelle scelte contro cui aveva scioperato in massa fino a due giorni prima; una volta ottenuto questo risultato non restava che smantellarlo come soggetto politico e territoriale organizzato e riconfigurarlo come il vecchio comitato d’affari la cui unica connotazione di sinistra restava la difesa liberal dei diritti civili e di un qualche stato sociale.

Le trasformazioni storico-sociali del capitalismo crepuscolare[5] avevano in sostanza fatto emergere una nuova fase del capitalismo che non si lasciava intendere sulla base dei vecchi schemi; la vecchia strumentazione non aveva categorie per comprendere e agire in questa nuova realtà. I nodi cui la teoria non pareva in grado di rispondere erano fondamentalmente due: 1) la questione dei soggetti storici, 2) le forme della transizione e quelle di una eventuale società futura, ma non per come potesse apparire idealmente nella mente rivoluzionaria, piuttosto per come veniva sviluppandosi attraverso i processi reali.

§2. Problemi teorici, pratici e tentativi di soluzione

Il risvolto politico della crisi reale di quel modello teorico si rifletté dalla politica del PCI berlingueriano[6]. Gli anni Settanta sono segnati dalla strategia del “compromesso storico” che, nella mente dei suoi promotori, si reggeva su due fondamentali premesse teoriche, strategiche e di fatto:

1) la crisi del comunismo sovietico come modello di socialismo praticabile in occidente (in realtà iniziava a delinearsi l’idea della sua impraticabilità in generale): esso non funzionava in quanto autoritario (i freschi fatti ungheresi prima e cecoslovacchi poi lo avevano dimostrato) e in quanto non-europeo (impossibile realizzarlo nell’Europa occidentale con la sua complessa stratificazione sociale e le sue diffuse libertà formali);

2) il colpo di stato in Cile: una via parlamentare al socialismo non era possibile perché, anche in caso di vittoria elettorale, le forze dell’imperialismo mondiale avrebbero messo fine in forma violenta a tale esperienza.

Dati questi due assunti, il governismo socialdemocratico si configurava come unica strada percorribile; ma la strategia di avvicinamento alla gestione del potere e alla trasformazione della società italiana si poteva concretizzare solo attraverso due passaggi fondamentali:

1) rendersi accettabili ai padroni militari dell’Occidente (gli Stati Uniti), il che implicava prendere atto di trovarsi in territorio nemico e di conseguenza sottomettersi alle sue regole per quanto concerne l’uso estremo della violenza. Ne conseguiva la permanenza sotto l’ombrello protettivo della NATO e ciò andava in parallelo alla presa di distanza dall’Unione Sovietica (percorso autonomo);

2) l’allargamento della base di supporto, adesso democratica (non più operai e contadini) e non più solo socialista fino a includere le forze progressiste borghesi. In caso di vittoria elettorale di questo fronte, anche se avessero cercato per via autoritaria di sopprimere il governo, l’opposizione nella società civile sarebbe stata troppo forte in quanto avrebbe incluso una parte delle stesse forze borghesi. L’ampio blocco storico di sinistra già messo in campo era fino ad allora stato sufficiente a resistere ai tentativi di colpo di stato, ma non sarebbe bastato in caso di vittoria elettorale di un fronte della sola sinistra (vedi Cile). D’altra parte, era valorizzato l’elemento democratico all’interno dello schieramento cristiano, sia fuori che dentro l’istituzione partitica della Democrazia Cristiana.

Le premesse reali di questa politica sono le due messe prima in evidenza: 1) la ridefinizione del soggetto storico (non più gli operai come antitesi fondamentale), 2) il venir meno della prospettiva storico-trasformativa per mancanza di un punto di riferimento realistico da proporre. Questa strategia si trasponeva come questione della legittimazione democratica, ma giocata tutta nei termini imposti della guerra fredda. La realtà era infatti che quel poco di democratico che esisteva nella Repubblica italiana era frutto dell’azione del Partito comunista e di altre forze popolari e poco o niente aveva a che vedere col mondo liberale occidentale. La logica della guerra fredda e le drammatiche carenze relativamente a diritti personali nell’est europeo imponevano però che il discorso si ponesse nei termini individualistici di carattere liberale. Di qui il fondamentale errore di ridurre la questione della democrazia alle libertà borghesi formali, ovvero di accettare la discussione nei termini posti dall’avversario. Ciò includeva anche una posizione sul leninismo che oscillava tra superamento e conservazione, sempre con una serie di distinguo e precisazioni che tradivano il bisogno di mollare quell’eredità considerata praticamente inutile ma allo stesso tempo parte costituente e necessaria di una forte identità politica che andava mantenuta. La soluzione proposta era quella della validità date determinate circostanze e del superamento una volta che se ne davano altre.

L’altro aspetto fondamentale, in qualche modo ricondotto a Gramsci, era la presa di coscienza che in Occidente la società era più complessa, che erano inevitabili posizioni plurali, insopprimibili, soprattutto la realtà cattolica in Italia. Come si accennava, dunque, queste forze non potevano né essere cancellate né escluse da un progetto praticabile di governo; ecco quindi l’altra gamba della prospettiva democratica e non unicamente socialista. Questa era del resto presentata come una riedizione del compromesso raggiunto nella scrittura ed approvazione della Costituzione, una ripresa del progetto di Togliatti e la rivendicazione di una via indipendente, originale ed autonoma al socialismo.

Intraprendere questa via democratica, almeno negli auspici, non significava abbandonare il cammino verso una società futura diversa e comunista, che però non poteva essere il socialismo finora realizzato. Questa via indipendente fu battezzata “eurocomunismo”, “terza via” ed alla fine “terza fase”. Quale fosse però il contenuto concreto di questo progetto e come esso si distinguesse tanto dal Socialismo reale quanto dalla socialdemocrazia restava nella sostanza di difficile definizione. La presenza di iniziativa privata, proprietà privata, mercato a lato di una sostanziale partecipazione statale alla gestione dell’economia parevano in realtà delineare una classica prospettiva socialdemocratica e semplicemente rispecchiare la realtà di fatto della gestione delle maggior parte delle economie occidentali europee avanzate. Difficile scorgere elementi più peculiari che permettessero quanto meno di indicare i caratteri concreti di una terza via, soprattutto mostrare quegli elementi di discontinuità qualitativa che permettessero di configurare un vero e proprio diverso modo di produzione socialista (o comunista che dir si voglia).

Pur mettendo da parte le oggettive difficoltà nel delineare concretamente un’alternativa di lungo periodo, si riscontravano altri due problemi fondamentali legati alla strategia che si voleva intraprendere:

1) la sopravvalutazione della sponda democristiana al progetto del compromesso storico, anche forse nella figura di Moro, la più attenta a questa strategia;

2) l’idea, rivelatasi assolutamente utopistica, che si potesse uscire dalla logica bipolare di Yalta e che bastasse prendere le distanze dall’URSS perché gli Stati Uniti accettassero un Partito comunista al governo. La “provvidenziale” morte di Moro rimise tutte le cose al loro posto in questo senso.


Come è noto il progetto era decisamente inviso anche ad est e lo stesso Berlinguer ritenne di esser stato vittima di un attentato del KGB in Bulgaria al quale sopravvisse per miracolo.

La scomparsa di Moro, unica sponda possibile e credibile sul versante DC per proseguire in questo percorso, sancì la fine del compromesso storico, l’avvento del pentapartito, l’isolamento e la progressiva atrofia del PCI. Ebbe inizio qui quella involuzione (controrivoluzione) conservatrice poi giunta fino alla svolta neoliberale degli anni ottanta-novanta che portò gli stessi eredi del PCI ad essere attuatori di una politica di smantellamento di moltissime delle conquiste sociali ottenute in decenni di lotte. Anche qui però non si può sottovalutare il peso della crisi del modello sovietico. La successiva crisi polacca, la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’Unione sovietica; non si può negare che questi ultimi eventi furono salutati come una vera e propria liberazione da larghe fasce di militanti. Anche rivedendo documentari del tempo, le testimonianze tradiscono imbarazzo o addirittura vergogna da parte di tanti nell’essere accostati ai paesi del Socialismo reale. Il passaggio al PDS è il culmine di questo processo di vero e proprio smarrimento, di malessere che era ovviamente esacerbato da un decennio di marginalizzazione e sconfitte vissute durante il periodo del pentapartito.

La crisi del PCI sembra dunque delinearsi in un contesto più generale di forte rallentamento del progetto di una società comunista come alternativa al capitalismo ed è dovuto a problemi storici e teorici effettivi che non si inventò la dirigenza del partito. Se quindi, da una parte, credo che si prendesse atto di una criticità storica reale, dall’altra mi pare che le soluzioni alternative che furono proposte non si siano rivelate efficaci. Ciò inevitabilmente implicava l’incapacità di formulare un’alternativa di struttura sociale una volta che quella sovietica veniva ritenuta fallace (o di formulare un’analisi adeguata delle sue criticità e un piano di correzione). A me pare che la mancanza di analisi e prospettiva strutturale spinse la dirigenza a proporre strategie basate su di una “riforma morale” e una “austerità” che rischiavano di rivelarsi illusorie nel senso che rinunciavano a comprendere che determinati processi degenerativi della morale pubblica erano/sono legati a dinamiche di fondo del modo di produzione capitalistico. La coppia morale/austerità poteva forse essere una mossa tattica efficace per coinvolgere quella fascia di cristiani e democratici estremamente sensibili a queste tematiche, anche in contrapposizione ad altri settori della Democrazia cristiana che potevano essere stigmatizzati come corrotti e degeneri. Etica dell’onestà e del lavoro potevano rappresentare un collante per il fronte democratico di sinistra e cattolico onesto. In mancanza tuttavia di una strategia concreta di trasformazione del nesso struttura/sovrastruttura, il rischio era di agire meramente a livello sovrastrutturale e quindi di venire in qualche modo legittimamente accusati di moralismo, o peggio ancora, da parte di alcuni, di consociativismo per il basso livello di conflittualità e le concessioni fatte in nome di quei principi.

Il cosiddetto secondo Berlinguer, nonostante la presa di coscienza dei limiti di fondo della strategia del compromesso storico, ancor meno del primo mi pare aver avuto risposte alla fase di passaggio storica o al cambiamento strutturale e ha finito per dialogare poco costruttivamente con movimenti, femminismo, ecologia, rendendosi conto dell’inadeguatezza della strumentazione tradizionale, ma al tempo stesso non avendo un’analisi obiettiva dei processi e quindi finendo forse per navigare a vista. Dopo di lui, con minori capacità e sensibilità, si è solo andati peggiorando fino al disastro finale neoliberale in nome di un governismo fine a se stesso. La proclamazione di valori borghesi, pur importanti, come assoluti nasconde se non altro implicitamente l’incapacità di pensare il presente sovrastrutturale come momento della dinamica complessiva di struttura e sovrastruttura, quindi di avere un’idea dei processi obiettivi e di inserirvisi, invece di inseguirli una volta che sono manifesti. L’irrigidimento e l’ossificazione del marxismo tradizionale avevano certo contribuito al malinteso di considerare quella teoria completamente inadeguata alla comprensione del presente. In quella forma effettivamente lo era. Quell’ortodossia però non è stata sostituita da un’alternativa teorica all’altezza dei problemi da affrontare. Anzi, più che una critica vi è stato un abbandono acritico. Questo è stato secondo me un limite teorico di questa intrapresa.

Notoriamente le scelte riformiste del PCI furono criticate da sinistra come consociative e come un tradimento della prospettiva rivoluzionaria della classe operaia, almeno a partire dagli anni Sessanta e poi sempre di più negli anni Settanta, da diversi gruppi e fazioni alcuni dei quali optarono per la lotta armata. La scelta del PCI di ridimensionare il peso del fattore “operaio” e le titubanze rivoluzionarie nascevano dal processo storico in atto; se il cambiamento fu colto, il limite fu di non trovare alternative coerenti e strutturate. La nuova sinistra, l’operaismo invece ritennero questa tattica una sorta di tradimento e radicalizzarono la posizione operaia, cogliendo forse ancor meno dove stesse andando il neocapitalismo. L’incapacità di coinvolgere le masse nei loro piani mi pare indicare come la questione dei soggetti fosse anche da loro inadeguatamente intesa; anche le prospettive trasformative apparivano tutt’altro che ben definite. Al di là della questione delle diverse modalità di lotta e della loro legittimità, mi sembra che bene o male tutti avvertissero che stavano avvenendo trasformazioni epocali, ma che, alla prova dei fatti, nessuno sia stato in grado di trovare una risposta adeguata su come agire in esse.

Per riprendere il filo teorico, il nodo fondamentale non era più, a mio modo di vedere, se il marxismo-leninismo fosse giusto o sbagliato; si trattava di comprendere invece che si era passati a una nuova fase del modo di produzione capitalistico; quella teoria, o meglio la sua inevitabile semplificazione a uso politico, non era in grado di adeguarsi a questo passaggio e quindi di incidere su di esso. I nodi centrali erano (e restano): 1) come nel capitalismo crepuscolare si riconfiguri la nozione tradizionale di classe operaia come soggetto antagonista privilegiato (questione dei soggetti storici); 2) come si lasci pensare l’autogoverno razionale di una società non capitalistica; ciò include una ricostruzione critica e non una mera damnatio memoriae dell’esperienza tentata in Unione sovietica (questione della transizione e della società futura). Senza soggetto e senza prospettiva trasformativa di lungo termine qualsiasi progetto politico finisce per avere le gambe corte.

A questa dinamica reale, negli anni Settanta corrispose naturalmente un dibattito teorico di rilievo e una prassi politica complessa. Senza potersi pronunciare sulla seconda, credo si possa mostrare come il primo tuttavia fosse stato anticipato sia nelle sue possibili linee di sviluppo sia nei suoi esiti da un marxista spesso neppure considerato tale, che proprio in seguito ai convincimenti teorici che maturò in quella fase smise di essere marxista nella maniera in cui lo era stato: Italo Calvino. Se da una parte mise il dito sulla piaga degli sviluppi del capitalismo e del modo in cui ciò ridefiniva i soggetti storici, dall’altra vide l’esito allora potenzialmente riformista della politica del PCI e quello, a suo modo di vedere, inconcludente della futura “nuova sinistra” che in quegli anni muoveva i primi passi. L’articolo in cui dette forma più compiuta a queste idee e che poi, anche attraverso la sua ricezione, lo portò a una sospensione di giudizio dalla quale non sarebbe più tornato indietro, è L’antitesi operaia. Vediamone brevemente i tratti salienti.

§3. Calvino e l’antitesi operaia

Nelle sue riflessioni fino alla metà degli anni Sessanta[7], Calvino non aveva una risposta generica a chi fosse il soggetto dell’emancipazione sociale: non l’essere umano in generale, ma la dialettica storica che si muove in forza di contrasti al dato (la tesi) nella forma conflittuale di un’antitesi. Anche questa opposizione però non si riduceva a uno schematismo astratto; si trattava piuttosto di un mondo reale di dinamiche storiche e di rapporti di forza ben determinati il cui protagonista era l’operaio, il frutto del cambiamento epocale apportato dalla rivoluzione industriale:

«L’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi; cioè come estremo oggettivo della disumanizzazione del sistema industriale e al tempo stesso - in potenza o già in atto - estremo soggetto della liberazione o della riumanizzazione del sistema»[8].


Questa premessa era declinabile secondo due prospettive diverse:

«1) come forza motrice d’una rivoluzione totale, anche o soprattutto interiore all’individuo… 2) come inglobatrice e inveratrice di tutti i valori positivi (conoscitivi, morali, estetici, ecc.) espressi e lasciati cadere dalle classi dominanti precedenti, e particolarmente dalla borghesia, cioè erede e depositaria di tutto ciò può esser salvato dal deperimento storico»[9].

In questo rapporto, le tendenze della cultura degli anni Sessanta parevano dividersi tra gli analizzatori scientifici di questo processo (non necessariamente interessati alla sua trasformazione) e le posizioni di rottura (che non necessariamente riconoscevano nella situazione corrente le tracce di un progresso rispetto al passato). In questa dicotomia, di cui Calvino considerava le conseguenze nella produzione letteraria, la funzione dell’antitesi operaia pareva perdere il suo rilievo storico, come in genere pareva perdere di significato l’idea di un senso della storia. Ciò era il frutto non di generici atteggiamenti culturali, ma risultato di dinamiche oggettive di cui Calvino cerca di fare un quadro, della “struttura” di quello che nel dibattito del tempo si designava col termine “neocapitalismo”, il vero contenuto teorico e sociale della sua metafora del “labirinto” che proprio in quegli anni emergeva nella sua riflessione (elaborata in un dialogo diretto o indiretto con Cases, Solmi, Fortini, Panzieri, Agazzi, Eco, Bobbio, Rossanda e molti altri insigni intellettuali del tempo). Le sue caratteristiche fondamentali erano:

«a) La subordinazione dell’uomo alla macchina… la classe operaia è ridotta sempre più a semplice ingranaggio del sistema e la sua possibilità di costituire un’antitesi si allontana sempre più… [Anche capovolto il sistema] la vita dell’operaio in quanto operaio non può cambiare di molto … Ad essa si può appaiare, come correlativo ottimista, l’utopia tecnologica dell’automazione totale, secondo la quale la classe operaia è destinata all’estinzione, o almeno a diventare un’entità trascurabile come peso numerico e come incidenza storica.

b) … fuori della fabbrica sull’operaio in quanto consumatore, costretto a soddisfare bisogni artificiali che lo allontanano sempre di più dalla realizzazione di se stesso… La “cultura di massa” è un’uniforme marmellata gelatinosa che il sistema emette per inglobare le classi antagoniste senza più distinzione tra dominatori e dominati…

c) Nella affluent society l’avvenire della classe operaia sembra caratterizzato - come in America - da una forza sindacale efficacissima in quanto a potere rivendicativo economico, ma aliena dal proporsi cambiamenti strutturali sia pur minimi… la classe operaia si trova a partecipare pienamente del sistema, la sua antitesi diventa un’antitesi interna, la sua pressione rivendicativa un elemento necessario della dinamica produttiva…

d) … la vera vittima e la sola antitesi possibile resta il mondo preindustriale dei contadini poveri e dei popoli arretrati… lo squilibrio mondiale anziché diminuire tende ad accentuarsi… Questo squilibrio … sta diventando il problema mondiale per eccellenza…

e) … l’avvento dell’era atomica, con il conseguente rischio di distruzione generale … segna invece un cambiamento sostanziale. Se la disumanizzazione del sistema culmina con la prospettiva atomica, le ragioni d’antitesi dell’operaio impallidiscono e si confondono con quelle generali dell’essere umano… solo una rivoluzione generale, una palingenesi umana … può essere all’altezza di una tale alternativa»[10].

Tutto ciò non metteva in causa solo il ruolo della classe operaia come antitesi, ma la stessa idea di progresso, sia nella concezione lineare illuministico-positivistica che in quella più complessa e articolata dello storicismo dialettico:

Ciò che è messo in discussione è l’idea di una storia che attraverso tutte le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegna chiaro di progresso (non solo quello lineare di tipo illuminista o positivista, ma pur quello più accidentato e spinoso che lo storicismo dialettico ha proposto di saper sempre rintracciare), nel quale l’antitesi operaia s’inserisca come catalizzatore delle potenzialità positive[11].

Dopo un approfondimento sulla situazione specifica italiana, che verrà omesso per volontà di Calvino nella versione raccolta in Una pietra sopra per il suo carattere troppo sociologico e superficiale, Calvino riprende il tema del rapporto tra soggettualità e processo storico, individuando due possibili atteggiamenti di fronte alla situazione per come l’aveva ricostruita; da una parte la classe operaia si presenta come il solo assertore di un’esigenza di razionalità assoluta:

«per l’operaio vittoria totale della scienza e vittoria totale dell’industrializzazione coincidono con la vittoria di classe. Una linea … intesa a costringere questo processo verso l’utilizzazione a fini umani di tutte le forze umane e naturali»[12].

La seconda opzione è la negazione pura e semplice. Qualunque forma di collaborazione allo sviluppo razionale delle forze produttive in forma capitalistica prende l’operaio nella trappola; le conquiste operaie non sono altro che concessioni organiche al sistema da tempo programmate, previste e concesse ad hoc.

Ricapitolando, Calvino sostiene che nel sistema della produzione riconfigurato in forma neocapitalistica esistono spinte contrastanti: la prima è razionalizzatrice, la seconda è catastrofica potenzialmente auto-distruttrice. Perché la prima non degeneri nella seconda, è necessaria la spinta razionalizzatrice della classe operaia. Solo così essa produrrà storia. È il modo che egli individua per salvare lo storicismo dialettico di fronte alla sfida della realtà che pare spuntargli le armi, o almeno parte di esse, una realtà fatta di cose/umano-sociali (reificazione), cose prodotte storicamente dall’uomo che però fanno da sé, in cui l’azione umana deve scavarsi un posto tra l’azione autonoma di esse (il famoso labirintico “mare dell’oggettività”). In questa maniera egli pensava di riuscire a mantenere una funzione progressista del soggetto rivoluzionario operaio fuori però da un astratto velleitarismo del cambiamento totale, ma come momento di un processo i cui tratti caratterizzanti erano oggettivi, epocali e non modificabili ad arbitrio. Si delinea dunque un forte determinismo anti-prassistico, con margini di azione limitati all’azione umana organizzata (la filosofia della prassi era stata invece la sua convinta fede politico-filosofica del primo dopoguerra).

Calvino lamentò in varie occasioni come il suo testo fosse stato snobbato da amici e nemici. Chi gli fornì dei riscontri, soprattutto Rossanda e Bobbio, lo fecero vedendo nella sua posizione i prodromi di un atteggiamento riformista, alla fine collaborativo più che conflittuale nei confronti del capitalismo. Calvino non negò una possibile deriva a “destra” della sua proposta, al punto che in una lettera di risposta a Bobbio, probabilmente un po’ stizzito non tanto dalle critiche quanto dalla loro effettiva pertinenza, provocatoriamente dichiarò di esserlo[13] . Anche nella replica a Rossanda argomentava che il suo non era riformismo perché il capitalismo non era razionale di per sé senza la spinta decisiva della classe operaia e la sua razionalità[14].

Queste difese tremolanti paiono l’anticamera di un’abdicazione e di un silenzio che si stava sviluppando nei fatti: da una parte la nuova sinistra si faceva forte proprio di quegli elementi che per Calvino conducevano in dei vicoli ciechi se non addirittura reazionari: l’antilluminismo, il rifiuto di vedere un’oggettiva razionalità nelle cose com’erano, per quanto contraddittoria, e soprattutto l’assoluta centralità della classe operaia di cui invece presagiva, a malincuore, l’eclissi. Dall’altro il partito comunista e la sua tradizione che, proprio di fronte al declino operaio, progressivamente si allontanava da quel soggetto per un dirigismo politico consociativo che addomesticava, invece di valorizzare, le potenzialità antagonistiche della classe operaia. Al di là delle contingenze, tuttavia, il ragionamento di Calvino era filosofico e teorizzava, nella sostanza, la scomparsa del soggetto e l’automazione totale dei processi sociali.

L’incapacità di trovare una nuova sintesi efficace di fronte alle novità presentate dal neocapitalismo, porterà Calvino a non pronunciarsi più esplicitamente sulla propria filosofia della storia; da scritti, opere narrative e lettere se ne può tuttavia individuare una struttura e mostrare tratti di discontinuità con la fase precedente il 1964, ma anche importanti elementi continuità, tema sul quale non è qui possibile entrare.

§4. Conclusioni

La lungimiranza delle previsioni calviniane è magra consolazione di fronte alla tuttora corrente incapacità di sciogliere i due nodi gordiani che da allora bloccano disegni più organici di prospettive emancipative: i soggetti storici, le forme dell’emancipazione. I nodi critici allora emersi e non risolti dai vari marxismi che pur tentarono di trovare delle risposte hanno portato alla completa abdicazione del PCI alla sua funzione di partito di classe (fino addirittura a diventare portabandiera delle oligarchie finanziarie internazionali) o a posizioni completamente estranee a una prospettiva antagonistica ancorata nella teoria generale del materialismo storico, come negli esiti del post-operaismo. Chi volesse riprendere il filo del discorso, credo debba ripartire proprio dal tentativo di sciogliere quei nodi, con una più adeguata concezione dei soggetti storici – che non si riducano alla classe operaia ma che neppure rifiutino il concetto funzionale di classe come viene definito da Marx[15] – e della trasformazione storica; dalla comprensione delle tendenze epocali dello sviluppo del modo di produzione capitalistico come premessa di un passaggio possibile a una società più razionale. Perdere una siffatta concezione dei soggetti storici e l’idea della dinamica strutturale del modo di produzione capitalistico come momenti inevitabilmente necessari della transizione, credo collochi al di fuori di qualunque impostazione che si voglia in qualche modo definire marxista.


1 Per quanto riguarda la storia del marxismo, l’edizione tuttora ineguagliata per qualità e profondità di analisi e ricostruzione è quella Einaudi, in 5 volumi a cura di E. Hobsbawm (1978-82). Gli altri due studi classici sono il volume Feltrinelli a cura di Zanardo (1974) e quello a cura di Vranicki (1971) per Editori Riuniti. Più recentemente, per quanto concerne il marxismo italiano nello specifico, sono apparsi il volume di Favilli (1996), Corradi (2005) e Bellofiore (2007) e un nuovo tentativo di Storia del marxismo a cura di Petrucciani (2015).

2 Cfr. Fineschi (2008), Introduzione.

3 Questa prima parte riprende, modificandolo, un articolo apparso l’8 gennaio 2021 su «La città futura» in occasione del centenario del PCI con il titolo 100 anni di PCI. Riflessioni aperte.

4 Per una panoramica di queste trasformazioni pare a me ancora di rilievo, e suggestivo per il momento in cui uscì, il quadro offerto dal volume 3 della Storia Repubblicana Einaudi, in particolare i contributi di De Felice (1996), Giannola (1996), Paci (1996), Pizzorno (1997) e Tranfaglia (1997).

5 Sulla nozione di “capitalismo crepuscolare” rimando a Fineschi (2020) e (2022).

6 Si vedano Pons (2006 )e Liguori (2014). Liguori, insieme a Ciofi, ha curato una bella antologia di scritti di Berlinguer (2014). Quanto segue ovviamente diverge in diversi punti dalla loro interpretazione. Questo secondo paragrafo riprende, modificandolo, un articolo apparso su «Cumpanis» nel dicembre 2020 dal titolo Abbozzo di riflessione sul PCI e sulla sua crisi.

7 Questo terzo paragrafo anticipa alcune delle tesi di una mia monografia su «Calvino filosofo» di prossima pubblicazione.

8 Calvino (1964, 128).

9 Ivi, 128-129.

10 Ivi, 132-135.

11 Calvino (1964, 135).

12 Ivi, 137.

13 Cfr. lettera a Bobbio del 28 aprile del 1964: «Caro Bobbio, ebbene sì, sono riformista. O più precisamente: credo che oggi (e forse soltanto oggi) si possa cominciare a considerare un riformismo che non cada nella trappola tanta volte denunciata dalla polemica rivoluzionaria, cioè l’assorbimento nel sistema della classe dominante. Perché si salvi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale, quella forza cioè che potrebbe anche in qualsiasi momento essere gettata nel gioco “catastrofico”, pressione rivoluzionaria delle masse e strategia degli Stati a direzione rivoluzionaria. Cioè, in altre parole, il riformismo riuscirà solo se saranno i comunisti a guidarlo. Ancora non ne sono capaci: costretti a muoversi in quella direzione, lo fanno goffamente; e d’altra parte il problema non è solo la scelta d’una linea ma far sì che la scelta d’una linea non implichi la perdita di tutto il resto». Calvino (2000, 807).

14 Cfr. la lettera a Rossanda del 6 luglio del 1964: «Finalismo socialista oggettivo, connesso alla naturalità d’uno sviluppo economico ad altissimo livello: il pericolo di prender per buona questa prospettiva nel mio scritto è – credo – continuamente corretta dall’elemento direttivo volontario dell’“antitesi operaia” …, ma probabilmente è questo il mio pericolo (sono o non sono un “deviazionista di destra”?) e non sarà mai ricordato abbastanza, e in questo senso forse hai ragione: non è detto da me abbastanza che quella del sistema è solo una apparente, mistificata razionalità e bisogna farlo esplodere al suo punto più alto. Comunque non si può far esplodere nulla se non si ha chiara un’immagine del dopo-esplosione, a meno di ipostatizzare l’esplosione come un fine». (Calvino 2000, 833).

15 Ho tentato delle riflessioni in questo senso in Fineschi (2008, cap. 3).


BIBLIOGRAFIA

Bellofiore R. (a cura di) (2007), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Manifestolibri: Roma.

Berlinguer E. (2014), Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Roma: Editori Riuniti.

Calvino I. (1964), L’antitesi operaia, ora in Saggi, vol. I, a cura di M. Barenghi, Milano: Mondadori.

Calvino I. (2000), Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano: Mondadori.

Corradi C. (2005), Storia dei marxismi in Italia, Roma: Manifestolibri.

De Felice F. (1996), L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3*, Torino: Einaudi: 7-127.

Favilli P. (1996), Storia del marxismo italiano dalle origini alla grande guerra, Milano: Franco Angeli.

Fineschi R. (2008a), Un nuovo Marx, Roma: Carocci.

— (2008b), Il marxismo italiano e Il capitale: alcuni esempi, in Fineschi (2008a): 159-206.

— (2020), Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna: il Mulino: 157-173.

— (2022), Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni, Siena.

Giannola A. (1996), L’evoluzione della politica economica e industriale, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3*, Torino: Einaudi: 403-495.

Hobsbawm E. (a cura di) (1978-1982), Storia del marxismo, Torino: Einaudi.

Liguori G. (2014), Berlinguer rivoluzionario, Roma: Carocci.

Paci M. (1996), I mutamenti della stratificazione sociale, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3*, Torino: Einaudi: 699-776.

Petrucciani S. (a cura di) (2015), Storia del marxismo, Roma: Carocci.

Pizzorno A. (1997), Le trasformazioni del sistema politico italiano, 1976-92, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3**, Torino: Einaudi: 303-344.

Pons S. (2006), Berlinguer e la fine del comunismo, Torino: Einaudi.

— (2021), I comunisti italiani e gli altri, Torino: Einaudi.

Tranfaglia N. (1997), Un capitolo del “doppio stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-84, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3**, Torino: Einaudi: 5-80.

Vranicki P. (1971), Storia del marxismo, Roma: Editori Riuniti.

Zanardo A. (a cura di) (1974), Storia del marxismo contemporaneo, Milano: Feltrinelli.

La città "visibili"



Le città “visibili”



"A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggiato alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche.
Passa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo..."

 

Sono stato a Cloe? Se essa è una metafora del bazar umano nel mondo della mercificazione universale, ci viviamo tutti ogni giorno. Si potrebbe forse ipotizzare che, nient’affatto invisibile, è una città ben visibile nei grandi magazzini, nei mall, dove non si vive ma si compra, o meglio si vive comprando. Sono questi però luoghi della città, non la città stessa. Il passo in più è farne una “città”.
Ce ne saranno probabilmente varie nel mondo, ma io l’ho scoperta a mezz’ora da Firenze, all’outlet di Barberino (mi dicono che ce ne sono di simili e che sono io che vivo in un altro pianeta). Un villaggio, con tanto di torrente che l’attraversa, con ponti, piazze, simil-chiese, basato su modelli stilizzati di architettura toscano-rinascimentale. Quasi duecento negozi (quasi esclusivamente abbigliamento) “ambientati” in palazzi nobili, loggiati brunelleschiani, casolari di campagna con piccionaia, fortezze con torri e bastioni e via dicendo. I visitatori, i più vari, vi camminano come farebbero in via Tornabuoni o Montenapoleone o Condotti… guardano le vetrine, entrano, comprano, prendono il gelato con la sensazione di essere in un luogo genericamente “storico”, “bello” (parole probabilmente prive di un senso specifico). Non so se sono felici, ma sono soddisfatti. La combo funziona. Leggo statistiche online che circa il 30% dei visitatori è straniero.



L’idea pare sia venuta nei primi anni del nuovo millennio all’allora sindaco di Barberino (due mandati, primo lista civica poi centrosinistra) che ha recentemente scritto un libro sull’ideazione e realizzazione dell’impresa; laureato in storia rinascimentale, in concerto con varie istituzioni ha commissionato il progetto allo studio Spadolini. Non è venuto male: il luogo è carino, piacevole, ben curato. Anche l’idea è geniale: Barberino è un’uscita sull’A1 tra Firenze e Bologna; ci passa praticamente chiunque da nord si sposti a sud e viceversa. Fermarsi è quasi più facile che non farlo. L’uovo di Colombo.
Io credo che l’idea si possa sviluppare con generale vantaggio, in particolare in relazione al turismo di massa che attanaglia varie città d’arte con conseguenze nefaste di cui ho già scritto altrove (https://www.sinistrainrete.info/.../26086-roberto...). La premessa è che il turista generico non va a Venezia, Firenze, Roma, Napoli, ma in un luogo immaginario che egli sa essere bello, storico, interessante, ecc. In che senso propriamente sia queste cose è spesso piuttosto vago: sono destinazioni cult che prima o poi vanno visitate, punti ideali di una mappa in cui va messa la bandierina del “visto”.

Parte della progettazione del viaggio è poi naturalmente fare shopping, mangiare cibo locale, ecc. I centri storici delle città d’arte sono già diventati questa cosa: negozi di vestiti, ristoranti, bar, alberghi, in una cornice “bella”, “storica”, “famosa”. La cornice è solo il mito che fa da sfondo alle altre cose.
Posto ciò, mi chiedo: ma perché invece di fare l’outlet simil-rinascimentale non si costruisce, in scala ridotta ovviamente, un centro storico-outlet fuori dalle città? Invece della simil-chiesa, il Duomo di Firenze (facciata e cupola in scala, ma realistici), Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria, ecc., una mini-galleria degli Uffizi con belle riproduzioni di tutti i dipinti più noti, ecc., poi il David e via dicendo. Una sorta di “Italia in miniatura” dove ci sono i negozi.

Tutte le riproduzioni sia degli edifici che delle opere dovrebbero essere “ufficiali”, vale a dire certificate formalmente da comune, sovrintendenza, cosicché il mito dell’ “autentico” resta garantito. Se i centri storici sono diventati delle disneyland turistiche, perché non costruirle davvero?

Tuesday 18 June 2024

Competenza imprenditoriale

Competenza imprenditoriale


L’Unione Europea, nel suo tentativo di diffondere l’ideologia “liberal” all’ “americana” (che ci si è decisi a importare quando è alla frutta anche nel suo paese di origine), ha formulato otto competenze chiave di cittadinanza. Il testo di riferimento che le cristallizza e definisce è la Raccomandazione relativa alle competenze chiave per l'apprendimento permanente (con il suo Allegato Quadro di riferimento europeo), approvata dal Parlamento Europeo il 22 maggio del 2018.
Ovviamente lo stesso concetto di competenza è molto controverso. Sarebbe la capacità di affrontare e risolvere una situazione sulla base di abilità pratiche guidate da conoscenze astratte, legate ad attitudini e atteggiamenti individuali. Le competenze base di cittadinanza sono «quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, l'occupabilità, l'inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una vita fruttuosa in società pacifiche, una gestione della vita attenta alla salute e la cittadinanza attiva. Esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia a tutta la vita adulta, mediante l'apprendimento formale, non formale e informale in tutti i contesti, compresi la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, il vicinato e altre comunità»
L’Unione Europea ce ne raccomanda otto, ora recepite anche in ambito scolastico; gli studenti sono soggetti a essere valutati in base a queste otto voci in sede di scrutinio. Eccole:
1. competenza alfabetica funzionale;
2. competenza multilinguistica;
3. competenza matematica e competenza di base in scienze e tecnologie;
4. competenza digitale;
5. competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare;
6. competenza sociale e civica in materia di cittadinanza;
7. competenza imprenditoriale;
8. competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali.
Chi avesse voglia di cimentarsi con la letteratura relativa potrebbe rapidamente stufarsi di fronte a un latinorum che spesso sfocia in un’astratta impalpabilità (ma qui probabilmente subentrano limiti soggettivi del lettore di fronte a un sapere sofisticato). Comunque sia, la competenza più difficile da valutare è spesso la 7, quella “imprenditoriale”.
Che cosa è?
“La competenza imprenditoriale si riferisce alla capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri. Si fonda sulla creatività, sul pensiero critico e sulla risoluzione di problemi, sull’iniziativa e sulla perseveranza, nonché sulla capacità di lavorare in modalità collaborativa al fine di programmare e gestire progetti che hanno un valore culturale, sociale o finanziario“.
Da questa evanescente definizione, se non ci fosse la chiosa finale, non si capirebbe perché si dovrebbe chiamare imprenditoriale; se le parole hanno un senso infatti, stando per es. alla definizione Treccani, un imprenditore è: “Chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata, di carattere industriale, agricolo o commerciale, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizî; in senso più ampio, chi, persona fisica o società, gestisce un’impresa.”
Invece qui si mischia l’idea di essere creativi, critici, con spirito di iniziativa in genere con l’essere un imprenditore. Si può avere l’idea che si vuole sulla figura dell’imprenditore, ma già si apre la strada a pensare ciascuno come imprenditore di se stesso, quindi il passaggio a concepirsi come “capitale umano” che si autovalorizza il passo è breve. Dunque, “tutti siamo imprenditori”, mentre imprenditore è il capitalista che avvia o gestisce un'impresa per fare profitto. Chi è impiegato nell’impresa invece è un salariato che lavora per l’imprenditore (non ha mezzi per “imprendere” lui stesso). Si può avere l’opinione che si preferisce su questo stato di cose, ma confondere le categorie maschera la realtà.
Tornando alla scuola, i poveri docenti hanno il problema di dover dare una valutazione delle competenze imprenditoriali già dal biennio. Ovviamente di “imprese” i ragazzi ne fanno molte, ma “economiche” in senso proprio non ne possono materialmente fare. Quindi, che cosa si valuta? L’amletico dubbio viene spesso sciolto nella direzione dello spirito di iniziativa, capacità pratica di risolvere i problemi, ecc.; tuttavia, anche in questo caso, spesso ci si trova a vaghe considerazioni perché mancano i contesti per valutazioni di questo tipo. Ho io un suggerimento.
A ben vedere c’è un competenza in cui un’ampia fetta di studenti mostra grande abilità operativa, atteggiamento spregiudicato e talvolta anche conoscenza: copiare alle verifiche (e non solo ovviamente, ma nella verifiche è più complesso).
Le strategie messe in campo mostrano uno spirito d’iniziativa non indifferente: tradizionali bigliettini, scrittura sul banco, doppio o triplo cellulare, smartwatch, quaderno sotto di “altra” materia, ecc., non farsi vedere (abilità). Anche le singole strategie sono differenziate (creatività): fotocopie miniaturizzate, collocazioni impensabili. scritture in codice, e via dicendo. Inoltre coraggio e faccia tosta di fronte al professore che passa tra i banchi o scruta dalla cattedra (atteggiamento).
Se come abilità e atteggiamento ci siamo, spesso manca però la conoscenza (come è difficile essere davvero competenti): molti studenti copiano pedissequamente talvolta gli stessi appunti forniti dal professore, oppure da internet pari pari la prima definizione che trovano, dove non di rado sintassi e terminologia mostrano immediatamente l’esistenza di una fonte altra.
Quindi, i nostri piccoli imprenditori in erba, pur già abili e ben atteggiati, devono lavorare sulla conoscenza al fine di maturare pienamente quelle competenze indispensabili per essere qualcuno nel mondo che li aspetta.

Friday 24 May 2024

Osservazioni in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, "occidente globale", "giardini e giungle"

 Osservazioni in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, "occidente globale", "giardini e giungle" (riprendendo alcuni passaggi da un articolo su Orientamenti politici e materialismo storico).




Eurocentrismo? Anticapitalismo?

1. Nel gran parlare che si fa sul cosiddetto eurocentrismo regna a mio parere una discreta confusione nelle definizioni. In particolare quando, poi, si riferisce la questione a Marx.
Se con tale termine si intende considerare la storia del mondo universo in funzione delle prospettive ed esigenze europee, va da sé che si tratta di un pregiudizio da estirpare. Se però si entra più nel dettaglio, la questione diventa molto più scivolosa e in certi casi decisamente reazionaria.
La storia del mondo è diventata eurocentrica con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, nel senso che esso ha imposto dominio, regole, forme di sviluppo a una dinamica che prima aveva più elementi indipendenti non uniti a sistema se non per contatti marginali, mentre il capitalismo è diventata la variabile dominante che ha funzionalizzato a sé l’intero mondo. In questo senso eurocentrismo non è un mero pregiudizio intellettuale, è un processo reale di dominio e sfruttamento legato al modo di produzione capitalistico.
Tuttavia, il modo di produzione capitalistico è stato sin dall’inizio un processo contraddittorio che ha prodotto allo stesso tempo contenuti potenzialmente positivi pervertiti in forma reazionaria per la sua stessa interna dialettica. Quindi, insieme allo sfruttamento, produce anche la libertà potenziale che include produttività del lavoro, sapere razionale e scientifico, dignità universale dell’essere umano, ecc. Essere contro questi aspetti non è semplicemente insensato, è reazionario.
Ora, nel generico anti-eurocentrismo (e lo stesso nel generico anti-capitalismo) questo fondamentale distinguo tra contenuto materiale e forma sociale spesso non viene fatto e quindi si finisce per voler gettare il bambino con l’acqua sporca, ovvero non solo gli aspetti perversi della forma capitalistica, ma anche le potenzialità emancipative che il suo contenuto rende possibili. Si ricade, in breve, nel rozzo anticapitalismo romantico che pervade tante posizioni anche a sinistra in cui si invoca o il primitivismo, o un “altro” che non abbia niente a che fare con il capitalismo tout court (come se mai potesse esistere).
Lo stesso genericismo si applica a diversi discorsi su Marx che non sarebbe eurocentrico. Dipende da che cosa si intende. Se si intende per es. che la cultura nata con l’illuminismo e fiorita con l’idealismo tedesco, ecc. è superiore alle altre culture esistite al momento nella geografia e nella storia umana (c’è quindi una scala di merito e di giudizio), non c’è alcun dubbio sull’eurocentrismo di Marx (in quanto favorevole a emancipazione e progresso). Se si intende che il mondo debba essere piegato alla valorizzazione del capitale occidentale, certo Marx non era eurocentrico. Se non si specifica che cosa si intende si fa un gran pasticcio sia con Marx che con la realtà.

2. Questo è fondamentale nella prassi politica e nella sua interpretazione. Per es. valorizzare l’universalismo occidentale e le istituzioni rappresentative - che includono per es. la parità di diritti uomo-donna, le elezioni e le libertà borghesi in genere - in maniera strumentale per imporre in realtà il capitalismo, o meglio ancora il controllo imperiale è evidentemente un uso ideologico del progressismo illuminista che, ovviamente, non ha niente a che vedere con l’effettiva generalizzazione di quei diritti, ma viene semplicemente usato come scusa per imporre in maniera violenta la dipendenza da quel sistema economico che in occidente quei diritti ha prodotto; oppure il razzismo a livello locale facendo leva sulla “inciviltà” dei migranti.
Qui però bisogna stare molto attenti a non far scattare il cortocircuito per cui non ci si oppone all’uso strumentale di quei valori, ma ai valori stessi. Ci si trova quindi a difendere comportamenti sociali tradizionalisti, in certi casi barbarici, che mai sarebbero tollerati qui in Europa se praticati da europei, in quanto immediatamente identificati con le forze più reazionarie; essi sarebbero tuttavia da accettare se compiuti da non europei perché considerati propri di altre culture. Guardando al concreto senza farsi abbagliare dalle fraseologie astratte, purtroppo i begli ideali della “tolleranza”, una volta che si arriva a confrontarsi su scelte precise, non possono che lasciare il posto a decisioni autoescludentesi, come per es. essere favorevoli o meno ai pari diritti fra uomini e donne. Come si è lottato in passato per la fine del patriarcato maschilista di matrice cattolica e si è considerato un successo il suo (parziale ahimè) superamento, non si capisce perché si dovrebbe accettare ad es. quello di matrice islamica o di qualunque altra matrice. L’eguaglianza di diritti tra uomo e donne è un principio che nasce contraddittoriamente in seno al capitalismo con l’illuminismo, come la dignità universale dell’essere umano. Vogliamo essere contro? Nazisti e fascisti ci hanno già provato, ma non so se sono prospettive auspicabili.
Insomma, questo tipo di multiculturalismo astratto rischia di diventare il cavallo di Troia di un regresso culturale che si accetta perché, di nuovo, lo si ritiene anticapitalista in quanto contrario allo “occidente imperialista”; si mescola nello stesso calderone - e quindi si fraintende - la giusta lotta contro lo sfruttamento capitalistico e quella assurda contro la cultura progressista che lo stesso capitalismo, contraddittoriamente, ha prodotto. Esso finisce per fare il paio con l’identitarismo locale che, di fronte alle tradizioni altrui, difende spada alla mano le proprie. Questo comune atteggiamento anti-universalista porta acqua al fascismo.

3. Quello menzionato è uno dei tanti temi propri del multiculturalismo astratto, del relativismo assoluto di valori e via dicendo; questo atteggiamento, presentandosi apparentemente come progressista, o “di sinistra”, diventa in realtà un’ideologia reazionaria tutte le volte che *esclude a priori* la possibilità di cambiare tradizioni e orientamenti una volta che si portino buone e ragionevoli argomentazioni per farlo. Se, insomma, il multiculturalismo, che di per sé è ovviamente una cosa positiva, diventa la scusa per non cambiare in virtù della semplice appartenenza a una certa tradizione di un certo comportamento, perché “intrinsecamente” legato a un certo contesto culturale e storico, si cade nell’identitarismo a prescindere, che è di nuovo l’anticamera del fascismo.
Le varie “identità” infatti, se si ritengono legittimate a pretendere di non cambiare in virtù di se stesse, non possono dialogare per trovare alcuna sintesi e il prevalere dell’una o dell’altra viene delegato, in ultima istanza, alla forza. In antitesi a ciò, contro il “relativismo etico” si genera consenso alla promozione della “nostra” tradizione che non avrebbe altra legittimità se non quella di essere storicamente vincente da questa parte del mondo. Il tentativo di far prevalere questa tradizione contro lo “attacco straniero” ovviamente è legittimato meramente in virtù della sua esistenza qui per molto tempo, non su argomentazioni razionali o convincimenti dimostrativi. È insomma l’imposizione di una di queste posizioni tradizionali in forza della sua, per adesso, posizione di dominio. Va da sé che il contenuto di questa tradizione “nostrana” rifiuta, guarda caso, l’universalismo razionalista e si rivolge in realtà a una “nostra” tradizione che è quella pre-borghese, vale a dire indirizzata contro gli aspetti sovrastrutturali progressisti del modo di produzione capitalistico, ma non contro il capitalismo stesso. È, di nuovo, il retroterra del fascismo.

4. Per concludere, metafore di lotta come “occidente globale”, oppure il “giardino”, ecc. rischiano di prestare involontariamente il fianco proprio a questo sbagliatissimo modo di pensare. Spostando la contraddizione su di una dinamica interno/esterno c’è il rischio da una parte che si occulti il carattere della contraddizione anche all’interno dell’occidente e del giardino stessi; dall’altra, di conseguenza, di considerare questo “occidente” e questo “giardino” come un monolite coeso e individuarlo come il soggetto contro cui si deve lottare, mentre all’interno di esso ci sono non solo le suddette contraddizioni ma anche potenzialità trasformative positive cui non ha senso rinunciare. Insomma, c’è il rischio di farsi egemonizzare inconsapevolmente dall’ideologia del capitale.
Il soggetto della devastazione mondiale non è l’occidente né il giardino, ma la dinamica di riproduzione in forma capitalistica; l’obiettivo è la trasformazione di quel sistema di riproduzione sociale e l’avversario di classe è chi gestisce quel processo e chi si oppone al suo cambiamento.

PS. Il giardino e la giungla è il titolo degli atti del Forum della Rete dei comunisti. Proprio il volume, al quale io stesso ho partecipato, mostra in maniera chiara come la metafora non regga e come le contraddizioni siano fortissime all'interno del giardino stesso.
Pure gli amici di OttolinaTv, che utilizzano spesso l'espressione "Occidente globale", secondo me mostrano ogni giorno con chiarezza che questo Occidente in realtà ha drammatiche contraddizioni al suo interno.
Dal mio punto di vista, proprio perché in entrambi i casi la sostanza è ottima, varrebbe la pena trovare uno slogan meno ambiguo. Perché tante volte lo slogan ha più efficacia della sostanza

Saturday 27 April 2024

Nihil sub sole novum, ovvero poveri content creator

Nihil sub sole novum, ovvero poveri content creator


Il content creator che tipo di lavoro è? È un lavoro?

Bisogna forse iniziare a interrogarsi soprattutto se sia una nuova tipologia di lavoro e se sia una variante di qualcosa di molto vecchio.

È ovviamente nuovo nel senso delle tecnologie che utilizza, delle modalità in cui si presenta e in cui viene fruito, ecc. Tutto ciò prima di internet, della tecnologia diffusa e a buon mercato e via dicendo non sarebbe certo stato possibile. Posto tuttavia tutto ciò, nelle forme astratte di realizzazione, è nuovo? Su questo ho i miei dubbi e credo che nella sostanza, a parte per i pochissimi fortunati nella percentuale globale di chi vi si cimenta, sia un lavoro assai sfruttato.

Innanzitutto, ovviamente, costa del tempo: bisogna imbastire delle sceneggiature, girare, editare, postare, promuovere, ecc. L’ingenuo senso comune è che lo si faccia nel “tempo libero”... Se tuttavia questa diventa l’attività che permette di portare la pagnotta a casa, l’illusione si dissipa immediatamente. Quanto “costa” questo tempo di lavoro? Per rispondere bisogna chiedersi: quanto e come si guadagna? 

Si guadagna dalla percentuale che le varie piattaforme concedono, dalle eventuali sottoscrizioni, dalle sponsorizzazioni. C’è un guadagno minimo garantito? Ovviamente no, tutto il rischio d’impresa è a carico del content creator. Questo guadagno copre di per sé spese previdenziali, sanitarie, ecc.? Ovviamente no, si tratta di microimprenditoria individuale. 

Se si vanno a fare questi conti, temo che in sostanza sia un lavoro a bassa remunerazione, senza oneri per il vero datore di lavoro, con tutti i rischi a carico del creator.

Sempre esclusi i pochissimi fortunati dal grandissimo successo, chi si arricchisce veramente? Chi è il vero datore di lavoro? Ovviamente le piattaforme. Eccoci arrivati al dunque.


Se le piattaforme dovessero pagare loro i content creator per riempire capillarmente tutti gli spazi con l’oceanica offerta di contenuti esistente, dovrebbero assumere milioni (o forse miliardi) di persone. Esiste una soluzione molto più profittevole. Trasformare in propri “dipendenti” milioni di privati senza pagarli, anzi facendo pure pensar loro di essere liberi imprenditori. È un po’ lo stesso meccanismo delle partite iva ma più sofisticato.

Milioni di persone che pensano di lavorare per sé, lavorano per la piattaforma che dà loro le briciole per un’attività che se esse gestissero in proprio costerebbe milioni di volte di più. Oltre al costo effettivo, le piattaforme non hanno così alcun vincolo contrattuale di qualsiasi natura e addirittura scaricano la responsabilità penale e civile dei contenuti sui “liberi” creatori. 

Il costo di produzione del contenuto è tutto sulle spalle del creator, il rischio di fallimento pure. Potrebbe quasi sembrare una riedizione dell’industria a domicilio, ma in realtà è ancora peggio, perché in quel caso c’è la commessa; qui invece si va a offrire il prodotto già realizzato sperando che piaccia. E il giudizio non
è dell’impresa stessa, ma del consenso che il contenuto riesce ad avere sul web. Così essa scarica anche la responsabilità editoriale, il quality check e chi più ne ha più ne metta.

Ma questa è imprenditoria e libero mercato, qualche ingenuo potrebbe commentare. Ovviamente no, perché il “mercato” è la piattaforma, vale a dire un’impresa che si arricchisce solo grazie a quei contenuti che dovrebbe altrimenti produrre in proprio e il cui costo e rischio scarica invece totalmente sui creators. Insomma, questi presunti “imprenditori” lavorano per la piattaforme, non sono affatto liberi. L’infrastruttura della loro “libertà” è di qualcuno, è un’impresa che li sfrutta nella maniera più bieca.

Quindi i sindacati dovrebbero iniziare a fare un po’ di contabilità a questi creators e cercare di far capir loro che sono salariati di fatto; e che sono salariati, nella maggioranza dei casi, a condizioni di merda.

I pochi che hanno successo servono ovviamente come specchietto per le allodole per i milioni che invece successo non ce l’hanno. È un po’ lo stesso meccanismo dei giochi a quiz per concorrenti di cultura medio-bassa o dei talent, dove il contenuto del programma lo fanno dei felici dipendenti non pagati col miraggio di vincere o diventare famosi. 


Se il meccanismo con cui nasce e in cui molti ancora lo percepiscono è quello dello “arrotondare” lo stipendio, la realtà è che è un lavoro sfruttato e sottopagato.

L’accesso è apparentemente gratis: basta un cellulare e una connessione, cose che ormai ha anche il più miserabile dei miserabili. Si va a pescare nell’amplissima sacca della disoccupazione incapace di trovare qualsiasi impiego; dunque ci si autoimpiega nella maniera più semplice e immediata. Si riesce a guadagnare qualcosa.

Se già così è un lavoro sfruttato, non appena diventa il proprio lavoro, siamo in tutto e per tutto nel classico meccanismo di sfruttamento capitalistico, mascherato di tecnologia e libertà


Thursday 18 April 2024

 

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