Tuesday, 14 September 2021

Roberto Fineschi - Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Carducci



Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Carducci

da La città futura

La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un'organizzazione strutturata. Se l'individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l'intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l'autonomia.

di Roberto Fineschi 10/09/2021 Cultura





Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventore delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.

Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.

Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre-decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata ferreriana [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.

Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all'interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.

La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.

L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera trasformativamente all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.

Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).

Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.



Note:



[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.

[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.

[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.

Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa... 22 anni dopo.

[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.

[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.

[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di autolimite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.

Saturday, 4 September 2021

Professionale amore mio. Scuola al crepuscolo? di Roberto Fineschi

Professionale amore mio. Scuola al crepuscolo?



La politica scolastica fin qui seguita dimostra che il capitalismo crepuscolare non è più in grado di esercitare un’egemonia e opta per la formazione di una neo plebe ignorante e facilmente manipolabile, calcolando anche il rischio di forme di ribellismo fuorvianti.

di Roberto Fineschi 26/08/2021 Editoriali

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Chi ha recentemente affermato che i modesti risultati delle prove INVALSI dimostrerebbero la scarsa qualità dei professori italiani - soprattutto in relazione alle drammatiche prove in professionali e “scuole di frontiera” - probabilmente non è mai entrato in una di queste scuole o, se lo ha fatto, ha capito poco o niente di come funzionano le cose. In Italia ci sono dei pessimi professori? È sicuramente vero. Nell’esperienza scolastica di chiunque si annovera qualche personaggio più unico che raro, egregio rappresentante del mondo dell’incompetenza o con delle spalle tondissime. Per capire quali professori rispondano a questo identikit sono necessari studi pedagogici, sofisticate tecniche o procedure altamente formali? No, in genere basta parlarci cinque minuti, anche informalmente, per chiarirsi le idee. Pare evidente che non ci sia alcuna intenzione di individuarli (e non si nascondono). Ciò detto, se ne può dedurre che tutti i professori siano così? Be’, questo è semplicemente senza senso e, evidentemente, offensivo per un’intera categoria. Parlare delle persone senza i contesti è una facile scorciatoia e un modo per non affrontare davvero le molte questioni sul tavolo.

Prendiamo le famigerate scuole di frontiera, i professionali. Il nostro professore, per lo più supplente, viene mandato incontro a un branco (purtroppo quasi mai in senso metaforico) di ragazzi in genere non scolarizzati (nel senso che non riescono a stare a sedere per più di dieci minuti, non sanno rispettare le regole minime di una conversazione, a stento conoscono la lingua italiana), interessati alla scuola come un vegetariano alla carne, con capacità di attenzione modeste. Spesso sono anche parecchi. È come andare in una gabbia di leoni affamati armati di sgabello giallo dell’ikea e righello di plastica morbida da 20 centimetri. Sfido chiunque, soprattutto i nostri cari amici espertoni, a raggiungere gli egregi risultati che si auspicano. E che ovviamente non vengano a fare una lezione sull’inclusione spiegando quali tasti, quali tecniche ecc. ecc… no... devono venire in classe e vedere loro che bella figura fanno; e che belle facce espressive che hanno quando escono dopo le prime lezioni. Ci sarà poi anche l’educatore super talentuoso che apre bocca e ammalia i popoli, però, guarda un po’, la scuola è un’istituzione di massa e i professori-fenomeno sono rari; abbastanza inutile quindi additare il campione, ci vogliono invece delle procedure efficaci generali. Non si tratta nemmeno, ovviamente, di dare la colpa ai ragazzi, che sono le prime vittime di un contesto socio-culturale che non dipende certo da loro e nel quale si trovano invischiati loro malgrado. Ma senza lavorare sui meccanismi del contesto con una strumentazione sia umana, sia tecnica idonea, non si fa un passo avanti.

Dal lato educativo, i problemi di base da cui partire sono molto semplici: in una situazione scolastica del genere un professore, semplicemente, può fare molto poco. Tutte queste classi “di frontiera” hanno problematiche di ogni tipo: cognitive, sociali, comportamentali, di integrazione, ecc. ecc. In ogni classe, se va bene, ci sono svariati casi certificati (e gli altri, ricordo, sono in media scarsamente scolarizzati). Per non parlare ovviamente di quelle zone in cui si deve aggiungere la delinquenza vera e propria. Queste scuole, quindi, sono potenzialmente il luogo in cui l’integrazione e il recupero potrebbero effettivamente avvenire; a questo fine tuttavia ci vogliono i mezzi e in questo, evidentemente, non si vuole investire: larga parte dell’organico è supplente, viene nominato di anno in anno a programma già avviato, a volte addirittura dopo mesi interi. L’anno successivo si ricomincia da capo. Sono supplenti moltissimi dei docenti del sostegno che, spesso, non hanno il titolo ma hanno dato comunque la loro disponibilità. Quasi tutti, curricolari e sostegno, cercano di fare del proprio meglio, ma nessuno di loro è psicologo, assistente sociale; queste professionalità non si inventano dalla mattina alla sera e i poveretti si trovano costretti a improvvisarsi in un ruolo che non è il loro. Ma dato che siamo a ballare, si cerca di farlo nel modo migliore possibile. I risultati, inevitabilmente, sono quelli che sono. In una situazione del genere si configurano inevitabilmente alcune tipologie di docente: il missionario, che, nonostante tutto, vuole fare il possibile per i ragazzi e si sfinisce; il fuggitivo, che, non appena se ne presenti l’occasione, lascia il professionale per un altro tipo di istituto; il rassegnato, che, abbandonata qualunque velleità educativa, tira ad arrivare alla fine del mese. Bisogna capire che non è solo indole, sono contesti. Quindi, invece di pontificare stolidamente: che si regolarizzino i precari, che si formino i docenti del sostegno, che si aggiungano all’organico psicologi, assistenti sociali e via dicendo, figure che regolarmente assistano quelle tipologie di studenti che si trovano in una forte condizione di disagio sociale, psicologico, culturale. La scuola, adesso, semplicemente non è nelle condizioni di affrontare queste situazioni. Ci si accontenta di tenere i ragazzi in classe, se ci si riesce; di più, in media, non è possibile fare.

Non ci si deve neppure ingannare sull’importanza pratica dell’educazione, ecc. ecc. Questi ragazzi sono convinti che non “serva” a niente e, spesso, è difficile dar loro torto. Le probabilità di avere “successo” nella vita per loro sono legate di più alla presenza sui social, dove magari vincono la lotteria e una delle bischerate che si sono inventati fa il botto. Il luccicante mondo dello spettacolo, da “Amici” a “Tik tok”, non solo non ha niente a che fare con la scuola, ma quest’ultima è addirittura controproducente perché dovrebbe fornire gli strumenti per capire che si tratta di effimere sciocchezze. E poi c’è il docente stesso, laureato ma, nella sostanza, un povero sfigato che guadagna poco, fa un lavoro di m… scarsa soddisfazione, o almeno così è percepito dagli studenti che non si fanno problemi a dirti: “io non voglio mica diventare come lei”. Le prospettive lavorative legate allo studio purtroppo sono quelle che sono ed è difficile spiegare perché lo si dovrebbe preferire rispetto alla scommessa del successo effimero, scommessa che altri, in tutto e per tutto identici a loro, hanno vinto proprio per il loro non avere qualità particolari, non saper far niente di speciale, non avere niente da dire, ecc. Perché mai imparare qualcosa, a dire, a fare? Non solo non è utile, è controproducente. Del resto leader politici di primissimo piano non sono laureati, ministri non sono diplomati, altri taroccano il curriculum aggiungendosi titoli inesistenti, altri hanno posizioni per meriti diciamo non politici… dov’è l’esempio pubblico di alto livello che mostra l’utilità dell’impegno, dello studio, ecc. ecc.? Infine, nella società di squali in cui si trovano a vivere, dove il motto mors tua vita mea è la regola fondamentale del gioco, promuovere i valori costituzionali di solidarietà, uguaglianza sostanziale, ecc., il rispetto reciproco, ecc. ecc. mette in una posizione di debolezza, di difficoltà competitiva rispetto ai simpatici stronzi che ci circondano. Bisogna impare a essere stron… competitivi pure noi! Diciamo che il prossimo tuo, più che un fratello, è un competitor, e poco evangelicamente piuttosto che amarlo bisogna essere pronti a temerlo e, al momento giusto, sopraffarlo.

La scuola così (dis-)organizzata è dunque un anello di un ingranaggio complesso, che parte da alcune premesse generali legate allo stadio “crepuscolare” di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Lavoro per tutti, nel senso di lavoro che valorizzi il capitale, non ce n’è. La massa di esclusi è grande e crescente. La produzione di neo-plebe, nel senso di una pletora di esseri umani cui il sistema non riesce a dare un ruolo attivo nella riproduzione sociale e che sopravvive al suo interno nelle forme più variegate, è una tendenza sistemica. Le dinamiche di gestione di questo complesso stato di cose pongono la scelta tra alternative possibili, che riguardano non solo la scuola, ma la dinamica sociale nel suo complesso. Le determinanti sovrastrutturali nel riassorbimento della massa di disoccupati divengono una questione squisitamente politica, ovvero si può cercare di compensare il processo attraverso politiche economiche e sociali che spostino la grande quantità di ricchezza disponibile dal plusvalore o dalla rendita al salario (diretto o indiretto) per la creazione di possibilità che, a dispetto della loro incapacità di valorizzare il capitale, forniscano un lavoro e permettano l’espletamento di attività sociali necessarie se non, in certi casi, essenziali. È questa una scelta non da estremisti comunisti, ma socialdemocratica, borghese progressista, cristiano-sociale. Oppure si può assecondare il processo e, nel caso specifico, favorire la formazione di una neo-plebe culturalmente azzerata che si immagina più facile da manipolare; una manipolazione che tuttavia è tutt’altro che scontata e rischia di esplodere in forme riottose e violente in particolari occasioni di crisi (anti-sistema, ecc.). I potenziali esiti estremi di questo processo sono già evidenti, per es., in alcuni paesi dell’America latina, dove, a fronte di una povertà debordante, si assiste a fenomeni di vero e proprio brigantaggio che rievocano un passato ottocentesco che ormai si immaginava superato definitivamente. Il ribellismo, nelle sua varie forme criminali, anarcoidi e via dicendo, raramente però si configura come forza politica alternativa e quindi, alla fine, dal punto di vista delle classi dominanti è decisamente preferibile. La questione di fondo è in sostanza se le classi dirigenti si trovino in una condizione in cui valorizzare il capitale non consenta più, strutturalmente, forme organiche e culturali di direzione o egemonia, in cui esse si impongano per coercizione e comando; se questa è la scelta, ciò appare decisamente più semplice in una società atomizzata, ignorante e priva di soggetti organici. La domanda è ovviamente se un sistema possa stare in piedi basandosi solo sul dominio, senza forme di direzione/egemonia. È stata questa una tentazione costante delle classi dirigenti italiane, ma adesso la questione potrebbe essere di scala, vale a dire che la scelta dirigistica si potrebbe delineare non come una opzione per i capitalismi periferici, ma come un problema strutturale di sistema anche delle economie più sviluppate.

Avere una scuola più o meno funzionante è un ingranaggio di questi processi, soprattutto per quegli istituti che hanno a che fare con la popolazione scolastica sulla soglia di scivolare nella neo-plebe o essere “recuperata” in una dimensione di cittadinanza attiva. Se si desse un orientamento, da dettato costituzionale, volto all’inclusione sociale - che implica dunque garantire i diritti fondamentali per tutto l’arco della vita di un individuo, a partire dalla scuola per poi passare alla vita lavorativa vera e propria e quindi alla pensione, ecc. ecc. - il primo e più semplice passo da compiere è, molto prosaicamente, investire, partendo da quanto si suggeriva in precedenza (stabilizzare i precari, formare il corpo docente e del sostegno, affiancare professionisti come psicologi, ecc. ecc.). È una scelta politica di fondo sul futuro che, in poche parole, coincide più o meno con il contenuto sociale della Costituzione. Promuovere una scuola - e una società - coerente col dettato costituzionale costituisce oggi un vero e proprio programma politico, che purtroppo nessun partito di caratura nazionale pare voler far proprio.



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Due giorni alla biennale. Decolonizzazioni colonizzate Dal significativo titolo “Stranieri ovunque”, la biennale di Venezia riporta nuovamen...