Problemi di costruzione di un’identità politica di classe
Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.
La frantumazione secolare, la differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.
La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (ed il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.
Sono la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo parternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.
Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.
La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, di far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).
In essi matura dunque semmai un sentimento solidale destrutturato di comune umanità diseredata (qui gioca un ruolo anche la comune matrice cattolica dell’essere umano in generale come individuo intimamente, ma non istituzionalmente, personale) contro l’istituzione nemica che può sfociare più in forme di ribellismo e/o più comunemente di dissenso passivo (mancata o finta adesione) piuttosto che in organizzazione e progettualità politica attiva. Questo aspetto è rappresentato emblematicamente per es. in alcuni film di Monicelli (si pensi al finale de La grande guerra).
In casi eclatanti di violenza istituzionale può esplodere fragorosamente per una durata limitata e senza stabile prospettiva trasformativa.
Be’, a questo ci troviamo di fronte per l’ennesima volta anche oggi. La sfida politica, che in parte era stata vinta nei decenni del secondo dopoguerra, è dare un ordine e un’organizzazione a un movimento con tanto stomaco ma con una testa tanto più piccola del corpo. Le recentissime elezioni hanno confermato questa situazione: nessuna coincidenza tra protesta popolare di massa e risposta politica istituzionale.
È ancora una volta la sfida gramsciana dell’organizzazione e dell’egemonia che va affrontata urgentemente. Altrimenti, finita la “buriana”, i cattivi si faranno sentire da par loro.
La frantumazione secolare, la differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.
La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (ed il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.
Sono la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo parternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.
Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.
La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, di far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).
In essi matura dunque semmai un sentimento solidale destrutturato di comune umanità diseredata (qui gioca un ruolo anche la comune matrice cattolica dell’essere umano in generale come individuo intimamente, ma non istituzionalmente, personale) contro l’istituzione nemica che può sfociare più in forme di ribellismo e/o più comunemente di dissenso passivo (mancata o finta adesione) piuttosto che in organizzazione e progettualità politica attiva. Questo aspetto è rappresentato emblematicamente per es. in alcuni film di Monicelli (si pensi al finale de La grande guerra).
In casi eclatanti di violenza istituzionale può esplodere fragorosamente per una durata limitata e senza stabile prospettiva trasformativa.
Be’, a questo ci troviamo di fronte per l’ennesima volta anche oggi. La sfida politica, che in parte era stata vinta nei decenni del secondo dopoguerra, è dare un ordine e un’organizzazione a un movimento con tanto stomaco ma con una testa tanto più piccola del corpo. Le recentissime elezioni hanno confermato questa situazione: nessuna coincidenza tra protesta popolare di massa e risposta politica istituzionale.
È ancora una volta la sfida gramsciana dell’organizzazione e dell’egemonia che va affrontata urgentemente. Altrimenti, finita la “buriana”, i cattivi si faranno sentire da par loro.
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