Tuesday, 11 November 2025

Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?

 Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?


Dopo la visita a Genova al museo del Risorgimento e quella recente alla mostra di Fattori, si sprigionano riflessioni risorgimentali, non patriottiche ma, come sempre, problematiche. 

Gli scritti mazziniani sono infuocati, retoricamente straordinari ma teoreticamente poco efficaci. Messi insieme permettono di delineare i caratteri fondamentali del suo pensiero nei termini più volte enunciati, con i suoi pregi e i suoi limiti. La domanda generale è quella che mi ponevo qualche tempo fa: ha un qualche senso avere coscienza dei processi storico-sociali (Risorgimento) che hanno portato alla creazione di qualcosa che non era mai esistito prima (lo Stato italiano), delle dinamiche che, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno alla fine prodotto un connubio di persone che chiamiamo italiani e che neppure era mai esistito in precedenza; avere o meno consapevolezza se in questo processo, largamente egemonizzato da posizioni moderate se non esplicitamente reazionarie, non ci siano pur stati dei momenti alti, delle figure significative (non come singoli isolati, ma come simbolo di gruppi sociali in lotta) che con la loro azione e le loro idee, con l’esempio, il sacrificio personale, non gli abbiano conferito una connotazione democratica, letteralmente strappandola alle forze liberali e fasciste che hanno sempre fatto il possibile, con le buone e con le cattive, affinché questi processi di democratizzazione si bloccassero; chiedersi insomma se esista un’ideologia, o meglio una cultura almeno in una certa misura condivisa e con caratteristiche democratiche, che permetta di dire che un “noi” sussiste, che una comunità abbia una sostanzialità se non diciamo etica (in termini hegeliani) almeno con sufficienti elementi comuni da tenersi insieme tanto culturalmente quanto praticamente”.

Il tema è quello della costruzione del “noi”, concetto quanto mai abusato e soprattutto raramente definito, purtroppo spesso assunto come qualcosa di “naturale”, come se il passaggio dal generico “noi esseri umani” a “noi italiani”, “noi qui e ora”, o al mero “noi vs. loro” non implicasse un’enorme quantità di problemi teorici e storici. Il progetto della costruzione di un noi è uno dei grandi temi del pensiero politico otto-novecentesco. 

Il progetto mazziniano è affetto da divesti limiti, storicamente discussi; la sua proposta sociale è basata su interclassismo, modesto intervento sui diritti di proprietà, ecc.; senza neppure dimenticare la sua polemica anticomunista, anti-materialistica, le critiche lui rivolte da Marx e via dicendo. La sua natura democratico-borghese pare tuttavia difficile da negare, con leggi, diritti, libertà del popolo come momento della libertà e della collaborazione tra i popoli. Il “noi italiani” è però qualcosa di intrinseco da far rivivere, assopito nelle pieghe della storia, va destato, fatto “risorgere”. Proprio il sogno di un’Italia sempre esistita (che invece non era esistita mai), da far risorgere e “unificare” (e invece andava creata) è uno dei grandi limiti storici del Risorgimento. 


Che il “noi” vada invece costruito lo sa bene Giovanni Gentile. In questo progetto politico di creazione degli italiani-fascisti egli intende recuperare Mazzini come antecedente storico-politico e si riaggancia agli aspetti di più chiara derivazione romantica (Dio e popolo),. sicuramente quelli più vicini alla sua ottica neoidealistica e soggetti a interpretazione destrorse; per farne un antesignano del fascismo ha però bisogno di fare tutta una serie di forzature di non poco conto:

  1. la sostenuta necessità del nesso pensiero-azione in Mazzini diventa affermazione del fare come costitutiva del senso;

  2. l’altrettanto importante insistenza mazziniana sull’educazione diventa non veicolo di contenuti, ma essa stessa loro costruzione;

  3. il mazziniano anti-invididualismo contrastato attraverso la fede, la legge, Dio come legame sociale, immanente alla comunità diventa in Gentile diventa Stato e autorità statuale = forza. In Mazzini c’è critica dell’individualismo non dei diritti individuali.

  4. l’attentato come evento che desta le coscienze diventa in Gentile teoria della “violenza educativa” e quindi dell’uso legittimo della forza come costitutiva di egemonia.

  5. Progresso. Siccome il fare è costitutivo, in Gentile progresso diventa meramente il fare nella sua successione senza metro di confronto storico per dire che il futuro sia migliore del passato, ragionamento praticamente impossibile nei termini attualistici. Riduzione dunque di progresso a mera successione degli stati del fare.


Certo, l’anti-individualismo in Mazzini diventa anti-materialismo e idealismo comunitario; si fa in sostanza coincidere materialismo e bieco utilitarismo borghese cui contrapporre ideali e slancio universali, eroismo, patria. Esattamente la stessa valutazione che farà Gentile nel suo saggio su Marx. Pur ammettendo che da queste premesse filiazioni destrorse sono possibili, tuttavia, come già si diceva una vocazione democratica, costituzionale, progressiva dell’unità nazionale per cui la libertà del popolo è condizione della libertà dei popoli credo siano decisamente incompatibili con il razzismo e la politica di dominio a essa connaturata tipica del fascismo, come con la tesi della violenza come argomento teorico legittimo. Altrettanto poco con l’idea attualista che l’essere sia inteso come fare e che il fare stesso sia legittimatorio della propria azione. 

In queste forzature si intravede ovviamente l’intenzione gentiliana di presentarsi come erede della tradizione risorgimentale e dunque di presentare il fascismo come coronamento di quella esperienza, legittimandone storicamente l’avvento.


Se il Risorgimento ha in larga misura fallito nella costituzione di un noi nazionale, non è andata meglio al fascisimo con un astratto nazionalismo patriottardo e l’illusione che militarizzando educazione e società se ne costituisse un’identità. Ovviamente in entrambi i casi il grande assente è la questione di classe: nel caso del Risorgimento letteralmente ignorata (contadini grandi assenti o addirittura avversi al nuovo Stato), nel secondo addirittura esplicitamente repressiva in linea di principio. La questione drammaticamente in sospeso è in sostanza chi sia questo “popolo”, questo “noi” da gestire, formare, coinvolgere, escludere, dirigere. 

Nell’accezione pre-rivoluzione francese, il popolo non è tutta la società, ma le classi subalterne. A lungo solo contadini, poi anche  borghesi ulteriormente divisi per funzione sociale e reddito. Nel caso italiano, durante il Risorgimento, da sempre prevale la tesi che la grande massa della popolazione, il popolo subalterno, fossero sostanzialmente i contadini, e che essi siano restati ai margini se non siano stati addirittura palesemente contrari al processo unitario per questioni di classe. È sicuramente un tema difficile in Mazzini che nel 1860 scrive un’intera opera indirizzata agli operai italiani… quanti mai saranno stati? Probabilmente abbagliato dalla realtà inglese, si immaginava masse salariate, addirittura industriali, anche in Italia. 

Ciò che viene da chiedersi è se il problema del “noi”, non solo di classe ma anche nazionale, sia una questione ancora all’ordine del giorno. La questione del noi si colloca nella delicata dialettica di forza ed egemonia, per cui la costruzione di questo soggetto non può meramente essere forzata, ma necessita di momenti di consenso perché c’è bisogno della partecipazione attiva e convinta di questi individui. Un progetto collettivo, in una certa misura interclassisticamente inclusivo, è necessario alla classe dirigente per realizzare i propri obiettivi. Per i borghesi l’universalizzazione del concetto di persona; per i fascisti il dominio imperiale come garanzia del benessere interno anche delle classi subalterne interne. Qui sta forse una delle novità della fase crepuscolare del capitalismo. La rinuncia alla costruzione di un noi egemone e l’uso coercitivo della violenza come elemento di unificazione dei subordinati. 

Sempre altrove scrivevo: “Con il capitalismo crepuscolare, con la sua pletora infinita di forza-lavoro e un mercato mondiale, queste due condizioni fondamentali, questo retroterra materiale [la necessità di un “popolo” come fonte di forza-lavoro e mercato di assorbimento interno] tende a venir meno. I subalterni sono pronti a essere rispediti nel mondo della schiavitù diretta ed essere oggetto di dominio senza direzione; non c’è dunque neppure più bisogno di educarli, che abbiano coscienza di sé, perché non serve più. Il “cittadino” ideale quindi è quello che di fatto ha perso tutti i caratteri attivi di cittadinanza e che è ridotto a neo-plebe, in certi casi anche agiata, ma comunque politicamente passiva, inconsapevole, incapace di decisione autonoma. La sua “competenza” pratica nel problem solving, come si ama tanto dire adesso, non gli consente di percepire, interagire, modificare, il contesto del problem solving che si accetta come dato, immutabile, “naturale””. 

La polverizzazione individualistica del capitalismo crepuscolare che arriva a teorizzare i diritti individualistici sopra altri individui è una tendenza strutturale del sistema. Essa è conseguenza degli sviluppi estremi del capitalismo e sembra produrre l’esigenza di analfabeti funzionali. Sempre commentavo: “È inutile nascondersi, infatti, che siamo di fronte a un processo non di analfabetismo, ma di “analfabetizzazione” di massa, dove cioè l’incapacità crescente di pensare la complessità del reale, e la propria posizione in esso, non è un mero dato di partenza, ma uno scopo scientemente perseguito”.

È in sostanza diventato un progetto politico “produrre” il popolo ignorante o, meglio, strumentalmente sapiente ma socialmente inebetito. 

Si potrebbe acutamente osservare che la questione non è di popolo, ma di classe; sarebbe però ingenuo non tener conto che una parte rilevante dello scontro politico-culturale avviene tuttora attraverso la forma dello stato-nazione. Contribuire alla salvaguardia e allo sviluppo socio-economico, date le condizioni attuali, non può ignorare la dialettica dello stato nazionale e del suo collocamento negli equilibri mondiali. Rispetto ai tempi risorgimentali, sono tuttavia completamente diverse le carte in gioco e la questione nazionale, in un contesto di schieramenti transnazionali con delle leadership immensamente più grandi, rischia di trasformarsi in una gabbia. Non significa fare campismo, ma prendere semplicemente atto della cruda realtà per cui uno sviluppo sociale per adesso si realizza pesantemente anche in un contesto nazionale (diritti sociali, politiche del lavoro, fiscali, dei redditi, ecc. sono gestiti e si gestiscono attraverso lo stato) ma che ciò avviene tuttavia nel contesto della guerra dei mondi, in cui l’Italia, o chi per lei, da sola ha poca (o nessuna) voce in capitolo, né alcuna prospettiva di sviluppo se non come momento subalterno delle dinamiche maggiori. È in questo spazio in cui si opera, tra salvaguardia dei diritti sociali a livello locale, collocamento proficuo nel contesto internazionale e prospettive di emancipazione di lungo corso. Anche perché il vecchio padrone vuole il sangue nostro, ma lo avrà via interposta persona, ovvero grazie alle politiche del nostro governo. Questo non lo si può fare senza ipotizzare processi egemonici che tengano in qualche modo conto della “questione nazionale”, ovvero degli interessi di altre classi o ceti che possono convergere verso obiettivi comuni di sopravvivenza.

2. Al fallimento risorgimentale della creazione di un popolo ha contribuito l’incapacità anche degli intellettuali e degli artisti di dargli voce, di coglierne ed esprimerne le passioni, pulsioni e idealità. Sicuramente ha qui giocato un ruolo centrale l’incapacità di classe della borghesia democratica di saldarsi politicamente a esso. L’intellettualità borghese e piccolo borghese, anche quella radicale, non si è posta alla testa dei contadini ma di minoranze radicalizzate urbane che hanno inevitabilmente finito per soccombere sotto i ben più organizzati moderati (rivoluzione-restaruazione di gramsciana memoria). Se abbiamo una grande letteratura e una grande arte borghese e della crisi profonda della borghesia, abbiamo una grande arte popolare? Intendendo qui con popolo prima le masse contadine e poi quelle operaie formatesi successivamente. La costruzione di questo noi culturale nel secondo dopoguerra fu per esempio un progetto esplicitamente rivendicato dal PCI, tra gli artisti da Calvino (e in larga parte fallito). 

Le conseguenze di questa distanza sono poi state ereditate nella cultura di massa, dove al cinema fa cassa Checco Zalone, in televisione e sui social spopola il trash della peggior lega. La transizione del popolo verso il benessere lo ha in larga parte trasformato in plebe consumatrice senza una vera identità o consapevolezza culturale. Chi mettere nella lista degli artisti o intellettuali “popolari” in senso eminente, ovvero che hanno dato voce e quindi possibiità di autoriflessione alla cultura popolare in sé [non nel senso reazionario di völkisch, come “identità intrinseca”, ma in quello socio-culturale di classe]?

Credo che l’assenza di questo tipo di artista e intellettuale in Italia, come notoriamente sottolinea Gramsci, sia un problema endemico non risolto nemmeno dopo la nascita del PCI. L’estrazione borghese o piccolo borghese della maggior parte dell’intellettualità nostrana ha quasi sempre finito per influire sulla prospettiva espressiva. Anche autori di estrazione popolare, una volta che si sono “intellettualizzati”, hanno spesso assunto prospettive borghesi.


3. A mio modo di vedere, un’eccezione interessante è proprio Giovanni Fattori, in cui una prospettiva “popolare” emerge. Fu a lungo ardente appassionato alle trasformazioni risorgimentali che leggeva in chiave democratica, vale a dire anche come necessarie trasformazioni sociali. Nella bella mostra livornese è paradossalmente questo un aspetto che resta quasi completamente sottotraccia: la passione politica. Come da artista Fattori rappresenta il mondo politico-sociale che ha intorno, i soggetti che lo popolano, le istanze proprie e collettive traspaiono?


Per quanto la sua famiglia riesca ad arricchirsi, essa viene etichettata come “plebe ricca”; le origini autenticamente popolari in Fattori fanno dunque parte del suo vissuto più intimo e saldano il motivo risorgimentale alla rivendicazione dell’emancipazione sociale. Rifiuta categoricamente la rappresentazione della campagna e del popolo di maniera e usa la sua arte come denuncia di fatto, con il suo carattere “fotografico”, “vero”, che nulla toglie alla fatica, alla concretezza dei suoi protagonisti senza imbellettamenti. Uno spirito anarchico più che socialista o radical democratico probabilmente che però riesce a fare un’arte popolare per il popolo, che al “popolo” piace largamente ancora oggi.


Abbandonato rapidamente lo stucchevole e vacuo tema storico-romantico, la macchia diventa il modo di rappresentare una natura e un’umanità fatto di singoli anonimi, spessissimo rappresentati di spalle, o di masse inserite in un tutt’uno naturale di cui fanno intrinsecamente parte. I campi larghi, talvolta larghissimi, sono epopee di un organismo unico in cui l’individuo non scompare, ma è omologo alla natura e dunque non ha identità individuale, è collettivo. Una massa senza volto, ma viva come collettività in cui ciascuno è tutti e viceversa.


Anche il tema patriottico è caratterizzato da un soggetto di massa, di nuovo con campi larghi e masse di combattenti. Anche qui però emerge rapidamente l’umano: le ritirate, i feriti, le retrovie sono soggetti prediletti. Il lato tragico delle conquiste che saranno rapidamente frustrate dal pressappochismo interessato di destra e sinistra storica, provocando quella delusione generazionale che accumerà Fattori a Carducci e a tanti altri che prenderanno le più disparate vie, non sempre progressiste. Ma non Fattori. 

L’interesse per i soldati si concentra a questo punto sulla loro vita comune non in battaglia, durante i riposi, gli accampamenti




(chissà se Monicelli ne La grande guerra aveva in mente queste scene di Fattori). Poi gli esploratori, le sentinelle, anche loro diventate parte del paesaggio, immerse nei campi larghi e come sempre anonime, di tre quarti, di spalle, non individui con nome e cognome, ma nuovamente pluralità. I contadini adesso in divisa pagando la “tassa del sangue” e ancora enigmaticamente smarriti in un mondo che ancora li padroneggia e che adesso guardano invece di lavorarlo.

E quando i protagonisti sono individuali, sono i primi piani dei butteri, eroi a cavallo tra le mucche.

Fattori non cede alle suggestioni simbolistiche, alla cattiva coscienza piccolo borghese scioccata dai cambiamenti storici e in cerca di rassicurazioni intime da un lato, misticamente collettive dall’altro. È quanto verrà invece fuori da Pascoli e soprattutto dal suo discepolo Nomellini. In lui, inizialmente fattoriano, già si apprezza l’interesse per il protagonismo soggettivo; gli stessi soggetti di Fattori hanno adesso un protagonista individuale che si staglia, chiaramente in primo piano ed è riconoscibile (fienatore, scioperante). L’individualismo sta prendendo campo.

E il Risorgimento che nell’ultimo Fattori è delusione e rammarico rabbioso, diventa in Nomellini mito, sogno prospettico da rivendicare e riproporre in chiave messianica.





Quella chiave messianica che riprenderà il dannunzianesimo prima e il fascismo poi di cui Nomellini celebrerà i fasti e la prospettiva interpretativa del Risorgimento come sua anticipazione. 




Fattori rivendica il proprio carattere anti-intellettuale; ma non è rivendicata ignoranza. È in qualche modo la denuncia e quindi la pratica dello distanza tra cultura e popolo, come se acculturandosi in Italia implicasse di per sé un salto di classe, diventare borghese, urbano, traditore.


4. Se il capitalismo putrescente sembra puntare sulla violenza diretta senza progetti egemonici, la costruzione di un soggetto alternativo credo passi anche attraverso la riappropriazione di un canone culturale “popolare” nel senso suddetto, e progressista. Non può essere questa la cronologia dei grandi nomi da manuale, ma neppure una classificazione in base al loro credo politico. Si tratta piuttosto di comprendere la grandezza dei singoli autori proprio per il loro significato non solo tecnico, ma storico-culturale: se ci si limita a dire “Pirandello era grande, va be’ era anche fascista, ma a me piace l’opera”, o idem per es. per Verga, “è profondissimo anche se conservatore” si fa meglio che peggio. La loro grandezza sta infatti nel cogliere l’essenza della cultura fascista e tardo umbertina nella loro espressione artistica dal di dentro (evitando così,  tra l’altro, di apprezzarli per il loro fascismo o conservatorismo senza nemmeno accorgersene). Non significa dare un giudizio politico della loro opera, ma coglierne davvero il senso - e quindi il valore - politico-culturale-estetico. E attraverso questa comprensione fare un po’ di fenomenologia del nostro spirito, intendendo meglio noi stessi e le nostre prospettive. Allo stesso modo il discorso vale in positivo: chi è stato davvero popolare e progressista dando voce culturale al popolo?

Credo che sia un nodo importante per evitare di discutere di cultura tra tre gatti mentre la massa guarda Il grande fratello o Checco Zalone. Il bizantinismo letterario che purtroppo da tempo imperversa in molte facoltà non pare andare in questa direzione, ma ci sono eccezioni che vanno coltivate. La produzione di un noi è un progetto interrotto reso quanto mai problematico dall’individualismo esasperato del capitalismo crepuscolare e proprio per questo potenzialmente rivoluzionario. Sicuramente controegemonico. 


Durbè, Dario, Fattori, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

Fineschi, Roberto, Mazzini e “noi”, oblio e memoria nel capitalismo crepuscolare, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

-, Populismo. Punti di partenza, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

-, Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Carducci, in Capitalismo crepuscolare, Siena, 2021

Gentile, Giovanni, I profeti del Risorgimento italiano, in Opere, vol. XXVI, Firenze, Sansoni, 1944

- La filosofia di Marx, in Opere, vol. XXVII, Firenze, Sansoni, 1955

Mazzini, Giuseppe, Dei doveri dell’uomo, Milano, Rizzoli, 2010

- Scritti politici, Torino, Einaudi-Ricciardi, 1976, 3 voll.

Patti, Mattia, Nomellini, Plinio, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)


Saturday, 8 November 2025

Karl Marx, Discorso sul metodo



Care amiche, cari amici,

è con viva e vibrante soddisfazione che annuncio l'uscita per Morcelliana Scholé di questo libretto spero utile.


Contiene una nuova traduzione di vari scritti in cui Marx parla esplicitamente del proprio metodo e, inevitabilmente, del rapporto con Hegel.


I testi sono: 1) Introduzione del 1857, 2) Poscritto alle II ed. tedesca del I libro del Capitale del 1873, 3) passi antologici da Per la critica del diritto statuale hegeliano, Manoscritti del '44, Sacra famiglia e Miseria della filosofia.
A uso di interessate/i!



Wednesday, 22 October 2025

PHILOSOPHY AND/OF ECONOMICS. CRITICAL APPROACHES TO STANDARD THEORIES


It's a pleasure to announce the release of the new issue of "Metodo", edited by my friend and comrade Pablo Pulgar Moya and me.

The title is PHILOSOPHY AND/OF ECONOMICS. CRITICAL APPROACHES TO STANDARD THEORIES; it offers contributions for the critique of mainstream economics.


With Erzsébet Rózsa, Juan Ormeño Karzulovic, Clara Navarro Ruiz, Patrick Murray, Pablo Pulgar Moya, Roberto Fineschi and Roberto Escorcia Romo, Federica Giardini, María Ignacia Banda Cárcomo and Nicole Darat Guerra, Óscar Orellana Estay and Roland Durán Allimant, Joan González Guardiola.


Please, circulate widely! Thanks!



Wednesday, 15 October 2025

Marx, Hegel y metodo. Grabación de mi ponencia al congreso madrileño




Hola amigas y amigos marxistas y izquierdistas (y seres humanos en general) 
Aquí las grabaciones del gran congreso madrileño de junio!

Sunday, 12 October 2025

Mazzini e il Risorgimento

Mazzini e il Risorgimento


Un taglio un po’ nazionalistico più che patriottico nel senso mazziniano quello del Museo del Risorgimento, ma questo in fondo è la grande questione interpretativa della sua eredità spirituale e politica: popolo come legame di sangue o popolo come luogo della sviluppo della civiltà democratica?
Forse in Mazzini ci sono un po’ tutti e due, ma la natura sinceramente democratica, seppur entro i limiti borghesi, basata su libertà e eguaglianza e paritaria partecipazione alla costruzione della vita politica comune credo siano gli elementi costitutivi che tagliano le gambe all’interpretazione fascista che fa più leva sul lato romantico, sulla missione, ma che omette di essere il fascismo un movimento razzista e discriminatorio, vincolo che esclude la cittadinanza nazionale come momento costruttivo di quella universale.
E il fascismo fu il “compimento” del risorgimento, sì, ma in tutti i suoi aspetti negativi, genericamente nazionalistici e classisti.


I limiti della posizione mazziniana - interclassismo, incapacità di concepire un ruolo attivo delle masse contadine, sacralità della proprietà privata, ecc. - sono classicamente dibattuti.
Il punto nodale però è che i temi risorgimentali sono sostanzialmente scomparsi (museo deserto e non so dire quanto frequentato), da una parte per il suo carattere antipopolare che lo ha reso poco utilizzabile dalle forze progressiste se non come avviamento di un processo che poi si sarebbe compiuto con ben altre svolte (lotta di classe, rivoluzione proletaria, ecc.), e da rivendicare più per il suo slancio battagliero (Garibaldi) che per l’effettiva capacità pratica. Dall’altra perché anche il fascismo superstite post seconda guerra mondiale è stato sostanzialmente manovalanza atlantista e ora sudditanza smaccata e poco dignitosa.
Neppure il fascismo del ventennio, nonostante la sua propaganda nazionalista e populista, è riuscito a far braccia nell’atavica paura e timore nei confronti delle istituzioni di gran parte della popolazione… e a ben ragione per la sua soluzione violenta del conflitto di classe e per la tragedia della guerra in cui ha condotto il paese.

Forse quello che il Risorgimento ci può ancora insegnare è in negativo, ovvero quali sono stati i limiti di un movimento potenzialmente emancipatorio, animato anche da leader di buona volontà e sincera ispirazione democratica, che però non hanno saputo che pesci prendere da un punto di vista di obiettivi, organizzazione e strategia. E hanno infatti perso, salvo poi essere trasformati dai loro nemici vincitori in icone da sventolare loro malgrado o cui issare monumenti equestri (Mazzini morto nascosto con una condanna a morte sulla testa, Garibaldi al confino).


Ma poi hanno perso anche i loro nemici e non ha vinto nessuno. Ha vinto il capitale di un altro paese che ora progetta di succhiarci il sangue fino all’ultima goccia. E si capisce che qui emergono di nuovo due prospettive conflittuali: quella dell’orgoglio nazionale (fascisteggiante) e quella dell’emancipazione sociale che come tale non ha base nazionale di per sé, ma è di classe, quindi di struttura economica e non di popolo.
Ciò detto non si può non fare i conti con le condizioni attuali e con ciò che concretamente è possibile fare seppur in minima misura.
Contribuire alla salvaguardia e allo sviluppo sociale, date le condizioni attuali, non può ignorare la dialettica dello stato nazionale e del suo collocamento negli equilibri mondiali. Rispetto ai tempi risorgimentali, sono tuttavia completamente diverse le carte in gioco e la questione nazionale, in un contesto di schieramenti transnazionali con delle leadership immensamente più grandi, rischia di trasformarsi in una gabbia.

Non significa fare campismo, ma prendere semplicemente atto della cruda realtà per cui uno sviluppo sociale per adesso si realizza pesantemente anche in un contesto nazionale (diritti sociali, politiche del lavoro, fiscali, dei redditi, ecc. sono gestiti e si gestiscono attraverso lo stato) ma che ciò avviene tuttavia nel contesto della guerra dei mondi, in cui l’Italia, o chi per lei, da sola ha poca (o nessuna) voce in capitolo, né alcuna prospettiva di sviluppo se non come momento subalterno delle dinamiche maggiori. È in questo spazio in cui si opera, tra salvaguardia dei diritti sociali a livello locale, collocamento proficuo nel contesto internazionale e prospettive di emancipazione di lungo corso. Anche perché il vecchio padrone vuole il sangue nostro, ma lo avrà via interposta persona, ovvero grazie alle politiche del nostro governo.
Questo non lo si può fare senza ipotizzare processi egemonici che tengano in qualche modo conto della “questione nazionale”, ovvero degli interessi di altre classi o ceti che possono convergere verso obiettivi comuni di sopravvivenza.

Friday, 10 October 2025

Sommersi o salvati. O della crisi sistematica del capitalismo crepuscolare



Sommersi o salvati
O della crisi sistematica del capitalismo crepuscolare
(schematico quadretto di riferimento)

Le dinamiche del capitalismo crepuscolare sono legate a trasformazioni dei processi produttivi e dei relativi rapporti sociali che hanno un impatto non indifferente sulla vita associata e sulle risposte politiche correlate dei vari partiti.
La premessa teorica generale è la tendenza di sistema all’estromissione dei lavoratori dal processo lavorativo per il perfezionamento tecnologico da un lato, la sempre più difficile valorizzazione reale del capitale dall’altro per la crisi strutturale di sovrapproduzione. Ciò da un lato determina la rinascita del capitalismo di rapina, che cioè non valorizza effettivamente il capitale attraverso il processo reale di produzione, ma lo fa o in maniera speculativa o sottraendo risorse o imponendo decisioni anti-economiche ad altri soggetti che aumentano la rentabilità di un qualche capitale ma solo attraverso un trasferimento di ricchezza a somma zero da parte di terzi. Dall’altra pone il problema di una disoccupazione di massa interna (servono sempre meno lavoratori attivi, inclusi quelli intellettuali) e migrazioni internazionali dovute a guerre, carestie, impossibilità di sopravvivere a casa propria per gli effetti del capitalismo di rapina. Tutto ciò pone delle domande cruciali ai governi dei paesi centrali o semi-periferici nella gestione politica delle dinamiche interne ed esterne. Vediamo qualche ipotesi generale.
Di fronte a una crescente disoccupazione strutturale, la pletora di lavoratori disponibili pone problemi di fondo, sia per gli interni che per gli esterni. Se tutti non potranno lavorare, si pone il problema fondamentale non solo delle condizioni di esistenza materiale di questi individui, ma anche della loro pratica sociale e della consapevolezza che essi ne hanno. Ne viene intaccata l’universalità del concetto di persona, il fondamento dell’ideologia della società borghese stessa perché strutturalmente vengono meno le condizioni per cui tale personalità possa essere praticata o, peggio ancora, le condizioni per cui essa possa essere praticata implicano la violazione del concetto universale di persona e quindi, potenzialmente, la premessa per una sua riduzione a sub-universalità, per la quale persone vengono considerati non gli esseri umani in astratto ma determinati sub-raggruppamenti. L’impossibilità di espandere il concetto di persona, anzi la sua riduzione progressiva, è il segnale delle crisi di egemonia reale del modo di produzione capitalistico.
Ciò significa che le forme di potere che si esercitano, che in passato si sono basate sulla combinazione di uso della forza (dominio) e di effettivo coinvolgimento progressivo delle masse subalterne (egemonia), perdono progressivamente il secondo aspetto e tendono sempre più verso il puro dominio. Ciò si collega a dinamiche di nuovo tipo nella gestione delle masse subalterne sempre più ricondotte a una autopercezione non funzionale di classe, ma di atomi individuali. Come gestirli, soprattutto se in larga parte non servono più?
Recupero legittimo della violenza contro terzi. Il declassamento di numerosi esseri umani a sub-umani allenta i vincoli nella considerazione di che cosa è violento o meno, perché la titolarità dei diritti di inviolabilità, ecc. non si predica di molti individui e quindi ciò che si è tenuti a rispettare è diverso. È il recupero strutturale del razzismo come elemento portante della riproduzione sociale.
Il consapevolmente perseguito istupidimento dei soggetti attraverso una scuola poco efficiente da un lato e la diffusione di tecnologie pervasive e coartanti dall'altro, per cui da una parte non si è dotati degli strumenti per capire, dall’altro si è intenzionalmente inebetiti con meccanismi in tutto analoghi a quelli delle droghe. La diffusione di massa delle droghe vere e proprie (problema oramai endemico negli Stati Uniti) risponde agli stessi meccanismi.
Aggregazione degli atomi individuali, che oramai non percepiscono più la loro funzionalità di classe, intorno a parole d’ordine di ceto, di interesse personale, premessa questa di una predisposizione negativa e violenta verso altri raggruppamenti che possono entrare in competizione con le condizioni del loro interesse personale.
Siccome questa massa informe non è più necessaria se non come consumatrice (ma se non è in grado di ottenere positivamente reddito le sue condizioni di consumatrice sono una voce meno nel bilancio sociale generale), su di essa si possono prendere decisioni drastiche. Da una parte la si può lasciar sopravvivere trasferendo ricchezza nelle sue tasche attraverso elargizioni di Stato (reddito di cittadinanza o similia), dall’altra si può procedere in maniera più drastica con la mera soppressione. Oppure si può mischiare la relativa tolleranza interna con la soppressione esterna.
La dicotomia destra/sinistra nei partiti politici scompare, almeno nel suo significato tradizionale. Mentre una volta essa si riconnetteva anche alle riforme di struttura nella gestione della riproduzione sociale, adesso si accetta universalmente il paradigma neoliberale e ci si distingue solo per la maggiore o minore crudezza nella dicotomia tra salvare o sommergere, tra garantire minime condizioni di sopravvivenza a una crescente massa di straccioni o reprimerli/ucciderli a seconda che siano interni o esterni.
Stati che vivono sulla premessa di una ricchezza debordante disponibile e la presenza di una povertà di massa già esistono. Sono luoghi in cui gli straccioni per sopravvivere rapinano per strada, rapiscono il ceto medio per chiedere due lire di riscatto, mentre i veri ricchi stanno chiusi e protetti in ben munite fortezze, sorvegliati da eserciti privati. Le domande impellenti sono le seguenti: 1) la nostra società occidentale tende definitivamente verso una latino-americanizzazione e finirà per assumerne le dinamiche suddette? 2) Può in generale un sistema basato su questi presupposti durare?
Se l’ipotesi di una comune rovina delle classi in lotta viene notoriamente considerata da Marx nelle prime pagine del Manifesto ciò non è per mero artificio retorico; è successo più di una volta che potenti e sofisticate società siano finite, implose senza che si riuscisse a metter mano ai meccanismi di fondo. La sfida è mettere mano a tali meccanismi. Marx ipotizzava che in seno allo stesso modo di produzione capitalistico si sviluppassero le condizioni di una nuova organizzazione della società: una produttività sconfinata del lavoro, l’integrazione mondiale della riproduzione sociale complessiva, lo sviluppo della scienza anche per rendere gestibile un processo del genere. Tutto ciò è già realtà. Marx credeva che anche il soggetto, il “seppellitore” si producesse altrettanto necessariamente; da questo punto di vista le cose sembrano essere più complesse, come complesso pare ipotizzare forme di gestione della riproduzione sociale senza merce e denaro, salario, ecc., vale a dire senza alcune delle categorie fondamentali del modo di produzione capitalistico, quelle che tra l’altro danno origine al feticismo delle merce, del capitale, ecc. e alle sue forme soggettuali (la sostanzialità dell’astratto individuo umano pre-sociale e a-storico, i processi sociali come processi di cose extra commercium hominum). Le sfide pratiche che ci stanno di fronte non possono esulare dall’affrontare questi nodi cruciali anche di carattere teorico.

Friday, 3 October 2025

Riflessioni a partire dallo sciopero

Riflessioni a partire dallo sciopero


I. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe

Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.
La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.
La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (ed il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.
Solo la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo paternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.
Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.
La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, di far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).
In essi matura dunque semmai un sentimento solidale destrutturato di comune umanità diseredata (qui gioca un ruolo anche la comune matrice cattolica dell’essere umano in generale come individuo intimamente, ma non istituzionalmente, personale) contro l’istituzione nemica che può sfociare più in forme di ribellismo e/o più comunemente di dissenso passivo (mancata o finta adesione) piuttosto che in organizzazione e progettualità politica attiva. Questo aspetto è rappresentato emblematicamente per es. in alcuni film di Monicelli (si pensi al finale de La grande guerra).
In casi eclatanti di violenza istituzionale può esplodere fragorosamente per una durata limitata e senza stabile prospettiva trasformativa.
Be’, a questo ci troviamo di fronte per l’ennesima volta anche oggi. La sfida politica, che in parte era stata vinta nei decenni del secondo dopoguerra, è dare un ordine e un’organizzazione a un movimento con tanto stomaco ma con una testa tanto più piccola del corpo. Le recentissime elezioni hanno confermato questa situazione: nessuna coincidenza tra protesta popolare di massa e risposta politica istituzionale.
È ancora una volta la sfida gramsciana dell’organizzazione e dell’egemonia che va affrontata urgentemente. Altrimenti, finita la “buriana”, i cattivi si faranno sentire da par loro.

II. Recapitulatio

1) Un paese viola da decenni il diritto internazionale.
2) Recentemente (e già prima non scherzavano) questa violazione ha assunto dimensioni di violenza inaudita, esplicita e inimmaginabile, disumana.
3) Questo paese può fare tutto ciò perché supportato dai padroni del mondo "occidentale" che lo utilizzano come testa di ponte per controllare l'area.
4) Quelli che erano vassalli del padrone occidentale - e che finché c'era la spauracchio dell'URSS dovevano apparire liberi e eguali e quindi avevano dei margini di manovra - ora sono decaduti alla status di servi da comandare (combattere al posto loro pagando loro le armi) e da spolpare (gas e concessione del controllo finanziario speculativo dell'economia nazionale con l'ingresso dei fondi di investimento, ecc., grande distribuzione via internet, ecc.) e quindi devono semplicemente obbedire. Prima potevano avere una voce dissonante sul Medioriente, ora devono dire signorsì.
5) ll paese genocidario è alleato del nostro, ci fornisce servizi di vario genere, ha addentellati fortissimi nel governo ma anche trasversalmente nel principale partito sedicente di opposizione ("sinistra per I....e").
Gli Stati occidentali non solo stanno dalla parte del paese genocidario, senza di loro esso non potrebbe fare quello che fa, sono *complici*.
6) Per salvare la faccia con la popolazione occidentale progressista incredula si fa il giochino della piccole, tardive, concessioni: riconoscimento ma senza embargo, accompagnamento ma senza intervento, indignazione di alcuni mezzi di informazione (soprattutto in UK e USA) ma senza attaccare con la stessa intensità con cui si accusano i genocidari i propri governanti che ciò rendono possibile. Tutto ovviamente con la massima malafede e solo per sembrare bravi e onesti.
7) Non c'è niente da dimostrare, è inutile prendere sul serio le chiacchiere dei vari lacchè che quotidianamente si arrampicano sugli specchi a dispetto del ridicolo e della perdita della dignità che non hanno mai avuto. È sbagliato riconcorrerli nei loro non ragionamenti fatti solo per ingarbugliare il discorso e farlo finire in vicoli ciechi. Bisogna lasciarli perdere ed elencare semplicemente le violazioni continue e ripetute, manifestare e, soprattutto, organizzarsi perché questa indignazione diventi una voce politica.
8 ) Questa voce deve darsi uno statuto organizzativo, far capire al ceto medio nostrano che verrà spazzato via dai padroni a stelle e strisce senza pietà nel giro di breve, e che è nell'interesse nazionale anche dei più refrattari porre la questione degli schieramenti internazionali in cui conviene strategicamente collocarsi.

III. Contro la barbarie, sciopero generale!

Tutto nasce ormai più di 100 anni fa come progetto coloniale in cui arabi ed ebrei vengono ingannati con promesse di autonomia statuale ed entrambi strumentalizzati dai “grandi civilizzatori” del governo inglese.

Prosegue come tentativo di egemonia sull’area all’inizio della guerra fredda tra URSS e Inghilterra che muovono pedine sullo scacchiere (valutazione clamorosamente sbagliata di Stalin al tempo).
Già a questo punto l’escalation della violenza ha raggiunto livelli che violano sia il diritto internazionale che quello umanitario.
Subentrando le elites a stelle e strisce e aumentando massicciamente il cotrollo/finanziamento e infine cadendo l’URSS si rompe ogni argine, fino alla mattanza attuale.
La sproporzione tra le forze da mettere in campo per salvare la Palestina e il “guadagno” che può fruttare a un qualunque “decisore” internazionale è grande. La battaglia è ardua. Ma non è una battaglia vana, né solo locale.
Come nella Gerusalemme liberata accade a Rinaldo di fronte allo scudo che riflette la sua immagine corrotta, tutto ciò ha destato le masse dal torpore indotto dai paradisi artificiali in cui vengono tenute drogate, dai sessualismi, edonismi, particularismi, consumismi del nulla. Dalla percezione di una vera e propria crisi di civiltà. L’enormità è tale che non si può non vedere, non si può fare finta di niente, se non altro non si può non temere che tanta violenza fuori da ogni controllo domani possa tornare a sconvolgere l’esistenza “normale” anche da noi.
Se la crescita della coscienza politico-sociale è da tempo arrestata, è anzi in regresso, ciò non ha cancellato, almeno in molti, il sentimento di una comune umanità (che anch’esso non ha niente di naturale ma è un’acquisizione storica).
Questo risveglio va fatto fruttare. La frammentazione politica non si cancella con uno slancio di buone intenzioni. Va creata una piattaforma comune in cui convergere con un paio di obiettivi strategici comuni sui quali focalizzarsi, lasciando da parte le divisioni identitarie (che ovviamente si possono mantenere ma che non devono confliggere con il raggiungimento degli obiettivi minimi comuni).
Il primo obiettivo minimo comune, per chiamare la barbarie con il suo nome, è lo sciopero generale!

IV. Ipotesi per il dopo

Senza pretesa di dettare linee a nessuno, solo ragionamenti a voce alta per riflettere.
1) La premessa di cui sono convinto è che, se questo potente, poderoso, incoraggiante movimento non riesce a darsi una qualche organizzazione o delle linee guida di convergenza, c’è il rischio che faccia la fine di tutti gli altri movimenti che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, ovvero che si disperda e che non si riesca a chiudere la strada alla montante reazione che gli farà seguito.
2) Il movimento è molto ampio e composito, ha molte anime e molte teste, molte identità. Ipotizzare una “unità” non dico organizzativa (direi assolutamente impossibile), ma anche ideale significa secondo me non voler guardare in faccia la realtà. Anzi, rischia di essere controproducente perché impone di trovare delle mediazioni su fortissime questioni identitarie che finirebbero per avere il sopravvento, risultare divise e, soprattutto, confinare la discussione, temo, su un inconcludente terreno ideologico.
3) Per questo movito credo che non sia questa la strada da intraprendere. Non perché sia impossibile, ma direi che è decisamente prematura e, più che a unità e organizzazione, porterebbe a divisioni.
4) L’idea dunque potrebbe essere non affrontare il tema di un’organizzazione comune, ma di (pochi, chiari, decisivi) *obiettivi comuni*, che lascino da parte le questioni identitarie e che invece valorizzino la convergenza verso temi concreti su cui tutti siamo d’accordo.
5) Ciò potrebbe essere possibile ipotizzando piattaforme terze, anche istituzionali (alleanze, coalizioni, anche una specie di “partito” che abbiano delle *precise regole di funzionamento*) in cui nessuno confuisce, ma in cui si individuano e discutono gli obiettivi comuni per i quali ci si mobilità unitariamente.
6) I punti possibili sono ovviamente molti e ovviamente soggetti alla negoziazione di chi intendesse imbarcarsi in un’operazione del genere. A mio avviso, anche per mantenere il legame con il movimento in atto uno fondamentale dovrebbe essere defalcare le ingenti spese militari programmate (e anche quelle per il ponte) e, in secondo luogo, reindirizzarle verso politiche del lavoro. Abbiamo valenti economisti eterodossi con cui ipotizzare piani di ammodernamento della rete ferroviaria secondaria (pendolari), piani per l’edilizia popolare, riqualificazione del territorio, ecc. Ovviamente scuola e sanità pubbliche, ecc.
7) È qualcosa che non va fatto in astratto o in linea di principio (come le mie chiacchiere), ma concretamente, cifre alla mano su ricaduta occupazionale, effetto volano sull’indotto, ecc. Ci sono delle figure che possono farlo.
E, come scrisse Marx alla fine della Critica del programma di Gotha riecheggiando il vecchio Ezechiele 3,19, “dixi et salvavi animam meam”, che, detto da uno che non crede nell’immortalità dell’anima, vuole suonare scherzoso 

V.  Sognare, ma con gli occhi ben aperti

Il successo dello sciopero e quello della manifestazione di ieri hanno una portata enorme, è un grande segnale di risveglio e di potenziale ripresa. A partire da questo slancio bisogna pensare al dopo da subito nella maniera più razionale possibile, con grandi aspettative ma anche senza cedere alla tentazione dei facili entusiasmi.
Il movimento è infatti estramamente composito e se qualcuno si immagina di fare jackpot a mio avviso si sbaglia di grosso. Soprattutto quando si passerà a proposte concrete di azione che vadano oltre l’indignazione temo fortemente che ci sarà una vera e propria polverizzazione. È questo ciò cui bisognerà essere pronti con un nocciolo duro e con un programma concreto che possa essere appetibile a molti.
Il programma minimo che proponevo in altro post ovviamente non include probabimente alcuna delle forze attualmente in parlamento (forse con qualche eccezione, ma certo non nei partiti di maggioranza relativa). Il PD in politica estera ed economica non è diverso dalla Meloni, quindi abbandonare la spesa militare per quella sociale non rientra certo nei suoi piani. Soprattutto perché è altrettanto filoatlantista e quindi la prospettiva è opposta. Di conseguenza è anche difficile capire che cosa farà la CGIL nella sua complessa dialettica col PD.
Dunque, non stavo parlando di questo che non rientra nel novero del possibile. Pensavo alla galassia di partiti e correnti che accetterebbero in principio delle politiche anti-guerra e pro politiche sociali che attualmente raccolgono il 2% o anche meno.
Una fetta piccola ma che può rivolgersi a una larghissima maggioranza di non rappresentati (ricordiamoci che nella Marche ha votato appena il 50%) che forse nella alternativa tra investire in bombe o in sviluppo economico-sociale opterebbe per la seconda.
Altrettanto realisticamente bisogna prendere atto che un’intesa sui “principi ideologici e fondativi” tra queste piccole realtà è adesso semplicemente impossibile e che questo è un elemento solamente divisivo. Si può invece convergere su punti programmatici comuni.
A mio modo di vedere di lì si deve partire. E sui punti programmatici (sviluppo e non guerra), non sulle indigeste ideologie, può convergere anche chi del comunismo non vuole sentir parlare neanche in cartolina.

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