Sunday, 24 August 2025

La neutralità della scienza

La neutralità della scienza


La scienza come tale è un prodotto umano e quindi il suo sviluppo non avviene nel vuoto ma in fasi determinate dello sviluppo sociale, evidentemente in collegamento stretto con esse. Marx per esempio mostra efficacemente come il modo di produzione capitalistico faccia dello sviluppo scientifico uno degli elementi fondamentali della sua riproduzione e che dunque spinga sempre verso nuove scoperte e invenzioni.
Ciò significa che la scienza non è “neutrale”? Che sia storicamente determinata non vuol dire che sia arbitraria o soggettiva. La formulazione delle leggi della fisica ha una sua storia, ma, date certe premesse (certo modificabili, ma non arbitrarie), chiunque segua le procedure arriva agli stessi risultati. In questo senso è “oggettiva” (premesso ovviamente che questi risultati siano sperimentalmente verificati, ecc.).
Che i fisici (o chi per loro) siano poi anche dei cittadini e quindi abbiano posizioni politiche, ecc. ecc. è un altro ordine di discorso. Che essi possano decidere come comunità di smettere di investigare in una certa direzione o meno è evidentemente una scelta politica, ma non riguarda come tale la “oggettività (storicamente determinata)” della scienza. Se con l’energia atomica vogliamo farci centrali o bombe non dipende dalla fisica di per sé; se con l’uranio vogliamo produrci energia o avvelenare i pozzi di nuovo non è una questione scientifica ma di uso delle scoperte scientifiche; che con la polvere da sparo ci si sparino fuochi d’artificio o pallottole, ecc. Che singoli scienziati possano anche essere stati individui riprovevoli non cambia niente alle cose che hanno scoperto.
Le opportunità di utilizzo e la discussione pubblica sui risultati della scienza non riguarda solo gli scienziati, ma *tutti i cittadini* ed è questa sì una questione squisitamente politica. Ma le due cose non coincidono e farle coincidere porta a conseguenze poco sane, vale a dire ridurre la scienza a pura ideologia.
Per fare un esempio: le teorie economiche mainstream sono deprecabili perché non stanno in alcun modo in piedi; il loro problema è essere diventate un’ideologia di classe perché le si impone nonostante non abbiano alcuna validità scientifica. Se però riduciamo la scienza a opinione non è più possibile argomentare la loro fallibilità, perché la nostra argomentazione diventerebbe a sua volta una mera ideologia e quindi la decisione sarebbe alla fine delegata a meri rapporti di forza in cui lo strumento scientifico-razionale viene annullato (e questo per noi è una grande perdita, perché abbiamo una teoria migliore).
Se si intende dunque che la scienza è politica nel senso che si dà e non può che darsi in determinate forme, in determinate fasi storiche dello sviluppo umano, a un suo certo grado di sviluppo, ecc. ecc. va da sé che non può che essere così. Se invece si intende che il suo contenuto teorico-argomentativo è arbitrario perché legato a interessi politici di chi la fa (la cosa è ovviamente possibile ma a questo punto non è più scienza), qui si scade nell’ideologismo, una delle tante forme di pensiero reazionario, e ci si priva di un’arma efficace nella lotta politica, ma anche nella discussione pubblica.

Wednesday, 6 August 2025

Sul sito Letteratura e noi, stralcio dell'introduzione del mio Nel labirinto. Italo Calvino filosofo

Sul sito Letteratura e noi, stralcio dell'introduzione del mio Nel labirinto. Italo Calvino filosofo







Nel labirinto: Italo Calvino filosofo
14 Maggio 2025 · Roberto Fineschi 


È appena uscito presso La Scuola di Pitagora editrice, il saggio del filosofo Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, per la collana “Diotìma, Questioni di filosofia e politica”. Il testo indaga il retroterra filosofico e teorico della produzione calviniana, con specifico riferimento alla sua formazione comunista e marxista. Ne pubblichiamo oggi un estratto. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

Premessa

L’idea di questo libro è nata dalla rilettura di alcuni testi di Italo Calvino in occasione del centenario della nascita; la curiosità per alcuni aspetti meno citati della sua produzione letteraria e saggistica, soprattutto relativi alla sua formazione non solo comunista ma esplicitamente marxista, mi hanno spinto a un approfondimento da cui si è via via sviluppata una più ampia riflessione.

Va qui premesso che non sono un critico letterario e che questa mia attenzione non si è applicata al contenuto artistico, stilistico, ecc. della sua opera. Ho cercato piuttosto di individuare le premesse teoriche e più propriamente filosofiche che hanno costituito il retroterra della sua attività di scrittore e che come tali non sempre emergono in maniera esplicita nei suoi romanzi e racconti. In questo tentativo, pur di fronte a una letteratura secondaria sterminata, ho trovato pochi precedenti, che in genere affrontano il tema del Calvino “saggista”. Essi sono di grande interesse e mi hanno spinto a tentare di delineare un quadro più ampio, che desse soprattutto ragione degli scarti e dei cambiamenti “filosofici”; essi mai implicano una cancellazione completa dell’approccio precedente, credo anzi che trovino una spiegazione solo tenendo presenti allo stesso tempo le linee di continuità e di discontinuità del suo ragionamento.

Un aspetto che mi è parso bisognoso di maggiore approfondimento è il passaggio decisivo degli anni Sessanta; con difficoltà infatti si è finora riusciti a spiegare quello che a prima vista parrebbe un cambiamento di orientamento repentino. Esso viene in genere ricondotto alla delusione politica per i fatti ungheresi, all’uscita dal PCI, tutti eventi fondamentali che però sono più effetti che cause (o al limite concause) di un percorso che viene da lontano. Le ragioni di questa difficoltà sembrano a me legate a un non sufficiente approfondimento dei presupposti teorici di questo primo periodo. A ciò ha sicuramente contribuito il carattere elusivo e per certi aspetti autocensorio dello stesso Calvino post ‘64 sul retroterra esplicitamente marxista di quel periodo. Chi si è occupato della questione, da lettere, interviste, saggi, non ha potuto alla fine che prendere atto dell’esplicito e rivendicato marxismo, ma ha cercato di minimizzarne il peso. Si tratta in realtà di quasi 20 anni (1945-1964) di partecipati dibattiti, scritture, azione politica che è difficile classificare come incidente di percorso o inconscia copertura di altri pensieri. Questo libro tenta di prendere sul serio il marxismo di Calvino di quegli anni e mostrare come esso venga ripensato, abbandonato, ma in una certa misura anche digerito nella riflessione successiva.

Il taglio della mia ricerca è dunque primariamente filosofico. In Calvino non si rintraccia ovviamente una filosofia “sistematica”, non solo perché si tratta di un letterato, ma per la sua avversione esplicita a concezioni totalizzanti e definitive. Ciò tuttavia non toglie che gli aspetti teorici della sua attività tanto intellettuale quanto politica siano sempre stati fondamentali e che essi, purché non assolutizzati, abbiano costituito un elemento chiave della sua produzione. I suoi principi sono del resto dichiarati apertamente in saggi, lettere e interviste; il tentativo non di formalizzarli, ma di ricostruirne un ordine e una dinamica di mutamento è ciò cui spero di contribuire. È bene precisare che questo studio non ha alcuna pretesa di sostituirsi alla critica letteraria; vorrebbe invece partecipare al dibattito da una prospettiva diversa che possa magari gettar luce su alcuni aspetti meno immediati per chi proviene da una formazione non strettamente filosofica. L’autore è insomma lo stesso, diversa l’angolatura prospettica.

[…]

Per una “filosofia” di Calvino

La scrittura di Calvino è “cerebrale”, le sue storie sono molto pensate ma nel risultato, soprattutto nelle prime due fasi, sembra scomparire la complessità della costruzione sottesa; talvolta persino il lettore colto a fatica riesce a ripercorrerne le premesse filosofiche o ideologiche. Accanto alle opere, in cui esse sono spesso celate, esiste tuttavia un’attività di teorico e pubblicista, nonché molte interviste e lettere a intellettuali e collaboratori, anche attraverso le quali si può andare in cerca di un percorso dai contorni più precisi.

In particolare, mentre per la terza e quarta fase le dichiarazioni abbondano, sulle prime due Calvino è spesso reticente e parziale; a dispetto di un certo numero di interviste, dichiarazioni, testimonianze, poco dirà delle letture di natura più propriamente filosofica che lo hanno formato in gioventù. Ciò è da notare non tanto per adombrare psicanalitici problemi di rimozione (forse non del tutto assenti), quanto piuttosto per prendere atto che la prima decisiva fase viene sbrigativamente ridotta a un solo articolo di Una pietra sopra, quando invece comprende ben dieci anni di produzione intellettuale e letteraria. Che Calvino si comporti così rispetto al proprio passato ha ovviamente il suo peso, ma l’analisi critica deve andare oltre la sua autocomprensione e darne conto, inquadrando quel periodo al di là del suo giudizio prospettico. Sarà perciò necessario capire il senso della presa di distanza da alcuni presupposti; si rischia altrimenti di ridurre un complesso sviluppo intellettuale al mero dato biografico per cui Calvino è uscito dal Partito Comunista Italiano, la qual cosa è ovviamente rilevante, ma, come si diceva, è più un effetto che una causa. D’altro lato, certi assunti continueranno ad agire anche nelle fasi successive che solo alla luce di tali premesse assumono un senso più definito e, alla fine, coerente con uno sviluppo in fondo organico della sua riflessione.

Se le tracce di un intendimento filosofico di Calvino sono molto blande nei testi letterari, ricercando tra le sue dichiarazioni extra-letterarie si delinea un quadro con delle coordinate credo non generiche. Prendiamo le mosse da sue precise indicazioni. Egli stesso dichiara che i suoi maestri di filosofia — il che non significa che egli abbracciasse le loro idee tout court — si possono in origine ricondurre a tre ceppi, tutti facenti capo alla casa editrice Einaudi in cui notoriamente lavorò e si formò come intellettuale: 1) Felice Balbo, 2) gli “illuministi” einaudiani, 3) i francofortesi (Solmi, Cases e Fortini per contrasto). Ne parla retrospettivamente nell’introduzione all’edizione degli Amori difficili del 1970 presentando il libro in terza persona. Al termine del complesso periodo degli anni Sessanta, egli getta uno sguardo al passato e illustra le prospettive per il futuro. Oltre a menzionare quei nomi, Calvino li collega a una periodizzazione e distingue tra una formazione sul campo legata all’esperienza partigiana e una intellettuale svoltasi principalmente presso la casa editrice Einaudi. Relativamente al tema resistenziale e immediatamente post-resistenziale, egli rivendica spesso la matrice “pratica” della sua formazione con la quale la scrittura si pone in una dialettica di continuità/ discontinuità, seguita fino al 1950 da una formazione non accademica presso Einaudi:

[…]

La grande amicizia e la profonda influenza del crociano, comunista cattolico Felice Balbo (“Cicino”) sarà ricordata a più riprese nel corso della vita di Calvino. Da lui bisognerà partire per comprendere l’orizzonte filosofico calviniano, senza tuttavia perdere di vista l’origine e lo scopo pratico del suo lavoro.

Il secondo e il terzo riferimento ai filosofi sopra ricordati riguardano la temperie immediatamente successiva, legata alla crisi dello stalinismo e delle prospettive politiche sia del PCI che individuali. Negli anni tra il 1953 e il 1959 matura un allargamento e un primo ripensamento di orizzonti. Qui il riferimento è all’Illuminismo e agli autori filo-francofortesi sopra menzionati:

[…]

Ciò detto, va preso atto della premessa più generale, del grande orizzonte che tutto ciò abbracciava e che invece spesso resta taciuto: un esplicito e praticato marxismo. Senza tener conto di questo presupposto, per quanto critico e accidentato, si rischia di perdere il filo del discorso.

Si diceva che, oltre a guardare indietro, Calvino guarda anche in avanti e delinea gli orizzonti che costituiranno la sostanza della sua scrittura futura (legata anche ai soggiorni all’estero che aprono nuove prospettive sullo sviluppo della società occidentale).

[…]

Questa fase (la terza nella divisione da me proposta) costituisce evidentemente un tentativo di superamento delle prime due, ma a partire da esse; pur nella discontinuità ne conserva infatti alcuni importanti presupposti. Ciò ovviamente non significa che i cambiamenti non siano significativi, ma senza cogliere la dialettica di continuità/ discontinuità non credo si possa comprendere fino in fondo il percorso di Calvino. L’ultimo periodo (la quarta fase nella mia divisione) non nega le complesse premesse della terza, denota semmai un maggiore pessimismo e una sospensione di giudizio definitiva.

Anche a causa delle forti reticenze calviniane, in parte del dibattito critico a mio modo di vedere non è stata presa nella dovuta considerazione la premessa del suo operato politico e culturale nelle prime due fasi che invece pare indiscussa: se consideriamo la sua carriera intellettuale dal 1945 al 1964, Calvino è stato dichiaratamente marxista. Non genericamente comunista, come talvolta si concede, ma marxista; in una prima fase addirittura marxista-leninista-stalinista, come egli stesso, passati molti anni, avrà il coraggio di ricordare e, in una certa misura, rivendicare. Tentiamo una periodizzazione: fino al 1951 Calvino è stalinista senza grandi tentennamenti; sempre più lontano dallo stalinismo, è marxista in maniera critica, ma ancora organica al partito fino al 1957; resta esplicitamente marxista (non più stalinista) anche se non più organico al partito fino al 1964. Nel corso di questi venti anni sono apparse alcune delle sue opere più celebri delle quali non si riesce a capire il senso senza venire in chiaro su questi processi. Anche la fase successiva, apparentemente lontana dal marxismo, di esso conserva alcuni tratti importanti, anzi aspetti che per certi versi sono inconsapevolmente più marxiani di quanto non lo fosse il marxismo-leninismo praticato in gioventù; non c’è tuttavia dubbio sul fatto che i suoi orizzonti si allarghino ad esperienze altre.

[…]

Tuesday, 5 August 2025

Antonio Rosmini sul Lago Maggiore


Le coincidenze sono assai curiose. 

In primavera visito Rovereto, dove è nato Antonio Rosmini, uno dei più importanti filosofi ottocenteschi in "Italia" (ovviamente l'Italia non esisteva). Non lo sapevo minimanente. In questi gironi in vacanza sul Lago Maggiore, a Stresa trovo il luogo in cui è morto e ha vissuto l'ultima parte della sua vita. Qui ha sede il più grande centro rosminiano che ne tramanda il lascito. E non sapevo nemmeno questo. 

Il noto sodalizio con Manzoni, nato a Milano nei salotti della casa del conte, proseguì tra Stresa e Lesa, nella villa del figliastro rampollo della casata Stampa, dove Manzoni visse continuativamente per un paio d'anni dopo i moti del '48 (per sfuggire alle attenzioni di Radetzky) e poi in vacanza per diversi anni fino alla prematura morte di Rosmini nel 1855.

Notoriamente i due molto parlarono e discussero prevalentemente di filosofia, lingua e morale. Rosmini è, insieme a Galluppi, uno dei pochi in "Italia" a conoscere i più recenti sviluppi della filosofia europea, in particolare di quella kantiana. 

Rosmini cerca di sviluppare una teologia cristiana non scolastica, non gesuitica (fonderà un ordine con le loro stesse intenzioni intellettuali che inevitabilmente si tirerà addosso attenzioni malevole), che tenga conto della rivoluzione copernicana di Kant.

Insieme a Manzoni, che pare fosse stato aggiornato su queste nuove tendenze, è insomma un teorico di un cristianesimo "moderno", che cerca di fare i conti con i progressi intellettuali del mondo post-illuministico, senza ovviamente rinunciare alla dogmatica e alla fede, ma tentando di riformularla in termini compatibili.

Alcuni suoi libri (critici contro la Chiesa politica e opulenta) saranno messi all'indice lui vivente (1848), le sue dottrine lui morto (sempre per interessamento dei gesuiti e degli oltranzisti neoscolastici). Ratzinger lo riabiliterà in parte, dicendo che non le sue idee stesse ma le conseguenze possibili che da esse si possono trarre sono da condannare (ma lui aveva lasciato l'operea incompiuta, quindi non lo si può ritenere responsabile delle deduzioni dei posteri).

Rosmini è comunque un moderato. La sua filosofia morale parte dai presupposti di libertà e proprietà, la sua teoria dello stato prevede elezioni ma che giudicano bene o male le classi superiori cui è preposta la guida della comunità. È favorevole alla Costituzione, ecc. Scrive, probabilmente tra i primi cattolici in Italia, un saggio critico contro il socialismo e il comunismo nel 1848. Insomma, un cattolico moderatamente progressista, come il suo sodale Manzoni.

Non il cattolicesimo ufficiale, ma il neoidealismo filosofico italiano vedrà in Rosmini un antesignano a partire da Bertrando Spaventa e la sua celebre tesi della circolarità del pensiero europeo, per passare quindi a Gentile che proprio su Rosmini e Gioberti scriverà uno dei suoi più importanti saggi giovanili (l'altro su Marx.).

Momento amarcord: su Bertrando Spaventa e la tesi della circolarità del pensiero europeo ho fatto il mio primo esame all'università col il prof. Alessandro Mazzone con una "tesina" che oggi sarebbe una laurea della triennale. Correva l'anno 1993. L'ho ripescata tra scartoffie varie, impressa su carta ormai un po' ingiallita con una stampante ad aghi!

 



Villa Stampa dove villeggiava Manzoni






Busto Rosmini


Collegio Rosmini


Vista dal collegio


Chiesa dove è sepolto Rosmini (anche Clemente Rebora!)



La tesina ingiallita!










IL PICCOLO TEOLOGO di Roberto Fineschi da "La contraddizione" n. 80, sett.-ott. 2000

Altro pezzo da una vita passata (dal remoto 2000!), dove facevo in parte i conti "con la mia precedente coscienza filosofica" :D :D
Toni un po' sopra le righe dovuti al giovanile ardore iconoclastico e visione decisamente parziale sul fenomeno nella sua complessità (di fatto si attaccano le gerarchie vaticane più tradizionaliste, non la chiesa come tale. Erano i tempi di Woytila, Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede, ecc.); tuttavia contro i facili giovanili entusiasmi correntemente spiattellati in televisione ancora qualcosa di utile c'è. 
C'è da aggiungere che la Chiesa Cattolica è una delle poche istituzioni superstiti che si occupa in maniera organica e strutturata delle domande sul senso dell'esistenza in un contesto in cui l'individualismo esasperato tende a distruggere  qualsiasi tipo di legame provocando non pochi problemi di identità personale a giovani e meno giovani. 







IL PICCOLO TEOLOGO

___________________________________________________

Roberto Fineschi


da "La contraddizione" n. 80, sett.-ott. 2000.




Neppure i cronisti del tg nazionale nascondono che molti dei partecipanti alla gmg – giornata mondiale dei giovani o giubileo dei giovani che dir si voglia – sappiano poco o niente del magistero della chiesa cattolica, di teologia e via dicendo, eppure sono centinaia di migliaia.

Sarebbe interessante fare un po’ di sociologia e classificare chi è effettivamente figlio di papa, chi è timorato di dio, chi è un povero disgraziato che è là perché ci vanno gli amici o per sentirsi parte di qualcosa, chi, in buona fede, partecipa perché crede di “fare del bene” [chi è figlio di papa e va in chiesa perché deve crescere con sani princìpi è probabilmente irrecuperabile e quindi lo lasciamo da parte; occupiamoci solo dei giovani in “buona fede”].

Molti giovani di buone intenzioni fanno parte di gruppi parrocchiali perché così contribuiscono al bene del prossimo, fanno qualcosa per gli altri, ecc. Spesso fanno veramente del bene, organizzando aiuti per barboni, immigrati, prostitute, emarginati di ogni sorta, dedicando il proprio tempo agli altri. Sarebbe un grave errore fare di tutta l’erba un fascio ed additarli genericamente come “cattolici”. Spesso d’altronde la parrocchia è uno dei pochi centri di aggregazione in cui ci si può incontrare senza passare attraverso la selezione naturale – cosa che invece avviene nel “branco” della strada, dove vige solo la legge del più forte.

Che cosa sanno questi giovani volenterosi della chiesa cattolica? Spesso molto poco. Al catechismo apprendono delle belle favole – non lo dico con ironia, è questo il modo in cui vengono di fatto presentate – sulla creazione, sulla vita di Gesù e della Madonna e via dicendo. Sanno sicuramente che il comandamento principale è l’amore (molti di loro parlano di amore, con la A maiuscola) e questo quasi sempre basta. In fondo quando ci si ama, come dio ci ha insegnato, si crea il paradiso in terra. Il tasto dell’amore è quello non a caso più battuto dalle campagne televisive pro Vaticano, nelle quali il santo padre invita i fedeli a superare i rancori, le divisioni, le guerre e ad … amarsi fraternamente.

A molti di coloro – non solo giovani del resto – che in buona fede frequentano la chiesa, l’idea intuitiva dell’amore universale basta; è la legge scritta da dio nel cuore di ognuno che farà da guida, anche senza conoscere la teologia. La questione cruciale allora è capire in che cosa consista la legge del cuore sulla quale si basa la condotta di molti praticanti-poco-teologi.

La “legge del cuore” è di per sé una metafora, in quanto sembra che l’organo in questione sia nient’altro che una meravigliosa pompa. A che cosa allude però? All’idea che “in fondo” ciascuno “sente” dentro di sé di fare del bene o del male e che quindi per comportarsi correttamente basta seguire il bene.

Amore, bene, male sono le “parole” con cui si gioca la partita, ma sono dei concetti? Che cosa significano? Se non le si definisce adeguatamente non sono altro che flatus vocis, astrazioni a cui ciascuno dà poi la concretezza che crede. Se si chiede ad un prete che cosa significa amare lui vi risponde spesso che è la cosa più difficile da definire e quindi vi spara un pistolotto sui buoni sentimenti e vi fa qualche esempio di devozione, così, di fatto, non risponde. Ma non perché la chiesa cattolica non abbia delle risposte meditate sull’argomento, bensì perché la teologia deve essere per pochi (la questione delle due religioni, quella popolare e quella del clero è dibattuta, ma è un dato di fatto che esse esistano).

Molti teologi hanno delle risposte alla domanda che cosa significa amore (non esempi casuali o la legge del cuore, ma una dottrina sviluppata e piuttosto complessa che per essere compresa necessita di anni di studio), ma non le vanno a raccontare in giro, né organizzano delle scuole per divulgarle.

Ma i nostri giovani spontanei che si accontentano invece della legge del cuore in realtà in che cosa credono? Loro certo non lo sanno, ma partecipando ciascuno in una certa misura alla pratica della chiesa cattolica, essi, in buona fede, realizzano qualcosa di cui sono completamente all’oscuro, che quindi li domina e li gestisce. Ma realizzano comunque “qualcosa” che ha un contenuto ben definito, che la gerarchia ecclesiastica conosce e loro no e che si lascia credere sia scritto nel cuore, cosicché non c’è bisogno di capire che cosa si stia facendo.

La parola “amore”, infatti, è solo un suono; con l’aggiunta del “sentimento del bene” non le si dà un significato. Chi “ama” in questo modo che cosa fa? Fortunatamente la “sana e consapevole libidine salva il giovane dallo sport e dall’azione cattolica”, ma in che misura?

Facciamo un esempio: molti dei partecipanti hanno probabilmente rapporti prematrimoniali (e qui gioca la sana e consapevole libidine) e di fatto non credono nel sacramento del matrimonio (non è escluso che molti approfittino direttamente del santo convegno per conoscersi biblicamente), ma d’altra parte partecipano e si dichiarano cattolici. La chiesa cattolica questo lo sa benissimo, come testimoniano addirittura le interviste a preti partecipanti alla gmg, in cui si dichiara che molti giovani hanno una fede piuttosto “intuitiva”. Per chi ha intenzioni precise la sana e consapevole libidine si trasforma quindi in un mezzo utile per raggiungere altri fini.

La gerarchia sa benissimo che molti non sanno che cosa fanno e ciononostante non diffonde la conoscenza di che cosa bisognerebbe fare per correggere la condotta sbagliata. Certo ci sono le prediche domenicali, ma non si spiega la dottrina, si fanno dei pistolotti. Perché la chiesa accetta che ci si dica cattolici anche se non si sa che cosa significa e se in gran parte delle azioni non lo si è affatto? Evidentemente perché basta che ci si attenga a determinate regole che sono più fondamentali delle altre; esse debbono essere rispettate, le altre sono un di più per i santi.

Che cosa interessa veramente alla chiesa cattolica? Qual è la visione del mondo che essa propaganda? Più semplicemente: quando si deve votare, scegliere da che parte stare nel “mondo” che cosa significa “amore”? Può essere utile cercare di ricostruire i fondamenti della dottrina sociale della chiesa [cfr. la Contraddizione, no.77 – Pio, pio. pio. Ora rivisto in Da Pio IX a Leone XIV. Prospettive marxiste sulla dottrina sociale della chiesa] che si possono sommariamente riassumere come segue: esiste per volontà di dio una gerarchia naturale/sociale nella quale ciascun singolo, sempre per volontà di dio, ha il suo posto. Quindi la divisione in classi, ricchezza e povertà e via dicendo sono condizione naturale della vita sociale e cercare di combatterle significa lottare contro la natura stessa delle cose. D’altra parte tutti sono figli di dio e quindi fa parte del disegno complessivo aiutare i fratelli disagiati; ecco la base della pratica caritatevole della chiesa. [si noti, en passant, che il principio per cui bisogna fare la carità implica la necessità che ci sia qualcuno a cui farla].

Che cosa significa allora “amore” quando si deve decidere come organizzare la vita sociale: cercare di applicare questo programma in cui l’ineguaglianza sociale (basata sull’ineguaglianza naturale) è legge. Si confrontino i seguenti passi della Quod apostolici muneris di Leone XIII; essi riassumono brevemente quanto detto: “la società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti uguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima società … La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò che tutti gli uomini traggono origine da Dio creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo, e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati e puniti … Di qui viene che, nella umana società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano prìncipi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo di amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine di cielo; e, qui in terra, il loro benessere materiale e morale”.

Se questo fa rabbrividire, lo si confronti con le formulazioni del catechismo odierno [la Contraddizione, no.77, cit.]; si vedrà che si è solo data una ripulitina agli espliciti accenti classisti, per rendere il tutto più digeribile agli ignari. Per chi vuole veramente stordirsi si può leggere il libro, recentemente ripubblicato, di Ernesto Rossi, Il sillabo e dopo, Kaos, Milano 2000, dove si ripropongono sia Il sillabo sia passi da molte encicliche, tutti dal significato univoco. Basta leggere le parole dei papi!

Una coscienza moderna che ha, bene o male, digerito le conquiste della rivoluzione francese (non perché le ha studiate, ma perché le ha praticate nella vita quotidiana come diritti civili e via dicendo) non può che rabbrividire di fronte alla riproposizione del medioevo contro la democrazia ed il libero pensiero. Come diffondere allora la barbarie? Chiamandola “amore”. Ma che cosa si vende effettivamente? La società classista.

Fra chi partecipa c’è chi sa bene come funziona questa cosa, ovvero che la chiesa cattolica sta dalla sua parte; egli, quindi, ben volentieri plaude a iniziative che fanno il proprio interesse; ma c’è chi partecipa e non ha nulla da guadagnarci, chi viene ingannato e si fa, in buona fede, promotore di un “amore” che coincide con società classista, con la propria sudditanza. In una battuta: abbiano pure molte fidanzate, bestemmino pure, non vadano alla messa, ma, per l’amor di dio, non votino comunista.

È certo una battuta, ma trova dura concretezza in numerosi atti “politici” della chiesa. Quando si è esposta in prima linea in tempi recenti? Contro la rivoluzione francese, contro il processo di unificazione nazionale, contro il comunismo, ecc. Ossia contro tutti i movimenti che hanno cercato di cambiare la situazione sociale data. La chiesa ha ridotto il suo campo d’azione alla conservazione del dato; questo è stato ed in fondo è l’obiettivo della sua azione politica negli ultimi duecento anni (si pensi, per fermarsi all’attualità, anche agli interventi “pieni d’amore” in favore di Pinochet: si è detto che è una “questione umanitaria” non accanirsi contro un povero vecchio – si sarà messo a ridere lo stesso Pinochet, sbavando sangue).

Il sesso, che in fondo molti papi non hanno visto di mal’occhio e del quale si parla molto, è quindi una questione secondaria: “cari giovani, voi dovete cambiare il mondo, dovete amare, aiutare i poveri, le vittime della guerra, gli emarginati”, ecc. Ma la condizione di questo amore è che i poveri, le vittime di guerra, gli emarginati esistano. È come dire: cari giovani il mondo deve cambiare alla superficie, ma la sostanza “guardatela con occhi diversi”.

“I cristiani guardino il mondo con occhi diversi” ha detto l’arcivescovo della mia città. Ma se il mondo è il regno dell’ingiustizia: basta guardarlo! “I diversi filosofi hanno finora diversamente interpretato il mondo. Adesso si tratta di cambiarlo”. Qui sta la differenza fra i comunisti e i cattolici: aiutare chi sta peggio è un principio della conservazione del mondo dato; i comunisti vogliono costruire un mondo in cui poveri, vittime di guerra, emarginati non esistano; un mondo in cui la carità non ci sia, perché non ce n’è bisogno.

La lotta di classe si manifesta come lotta di egemonie, diceva Gramsci nei Quaderni del carcere; la chiesa, portando acqua alla conservazione di ciò che è dato, è stata prima amica dell’ancien régime e adesso del capitale. Essa è perfettamente funzionale al modo di produzione capitalistico, diffondendo una concezione del mondo in cui la gerarchia sociale appartiene all’ordine di natura. Essa serve a convincere chi appartiene alla classe dei lavoratori che è nella natura delle cose che sia così.

Fra chi partecipa alla gmg ci sarà qualcuno con degli scrupoli, che dietro a tanto entusiasmo cerchi un po’ di sostanza?! Beh, se qualcuno di loro per sbaglio leggesse queste righe non chiedo certo che si fidi delle parole di un comunista mangiapreti: faccia pure da sé, indaghi che cosa c’è dietro al tanto decantato “amore”, giochi un po’ al “piccolo teologo”.

Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?

  Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi? Dopo la visita a Genova al museo del Risorgimento e quella recente alla ...