Saturday, 27 September 2025

Il capitale di Marx oggi Roberto Fineschi



Materialismo Storico, n° 1/2025 (vol. XVIII) – E-ISSN 2531-9582

Relazione introduttiva tenuta alla presentazione urbinate del 7 marzo 2025 della nuova edizione del primo libro del Capitale per Einaudi editore.











Il capitale di Marx oggi

Roberto Fineschi







Buonasera a tutti. Grazie al prof. Azzarà per aver organizzato questo evento e a tutti i colleghi che si sono resi disponibili per venire a discuterne. Estendo i ringraziamenti ai presenti per la loro partecipazione.

Iniziamo dal feticcio: il libro è editorialmente bellissimo, arricchito da stampe di dipinti otto-novecenteschi sulla storia del lavoro. Una prima nota da mettere in evidenza è che il volume è uscito nei Millenni di Einaudi, vale a dire un classico che resiste al tempo e che dura nei secoli. Qualcuno potrebbe interpretarla come una sorta di imbalsamazione, il bel monumento… ai caduti. Invece, almeno per i contatti che ho avuto io con la casa editrice, mi è parso che ci fosse l’idea di un contenuto politico, di politica culturale. Come se ci fosse una sorta di malessere anche all’interno della cultura ufficiale “borghese” nei confronti delle teorie predominanti. Probabilmente anche una borghesia diciamo moderatamente progressista e di vedute più ampie si rende conto che certi paradigmi mainstream, ahimè spiegano sempre meno e che quindi una strumentazione che parta da un paradigma diverso, anche senza volerlo abbracciare ovviamente in toto, può essere presa in considerazione; forse certe categorie non sono da buttar via. C’era anche una dimensione culturale, di politica culturale, per dare degli spunti contenutistici anche a un possibile movimento progressista in senso lato.

Veniamo più concretamente all’edizione. Innanzitutto è una ritraduzione completa, non solo mia; diamo onore ai miei collaboratori che sono Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’. Abbiamo diviso in quattro eque parti e poi chiaramente è stato rimesso insieme, omogeneizzato dal sottoscritto.

Perché una nuova edizione, esistendone già diverse, sia storiche che più recenti. Le più diffuse sono l’edizione Cantimori e l’edizione Maffi. C’è anche l’edizione Sbardella della Newton. Le edizioni Cantimori e Maffi in particolare sono buone. Quindi: perché farne una nuova? Principalmente per la MEGA, cioè la nuova, la Marx-Engels-Gesamtausgabe, la nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels. In essa ora, sintetizzo per non stare ad annoiarvi troppo, Il capitale da tre volumi è passato a quindici se si includono i manoscritti che lo precedono e quelli successivi, su cui Engels poi ha curato l’edizione a stampa del secondo e del terzo. Uno dei manoscritti precedenti sono i famosi Grundrisse, ma in realtà di “Grundrisse” ce ne sono tre, tre corposi manoscritti in cui Marx ha riscritto più o meno tutto. Oltre a questi manoscritti hanno pubblicato anche le edizioni storiche, incluse le diverse edizioni che Marx ed Engels hanno pubblicato in vita del primo libro, l’unico che Marx ha effettivamente dato alle stampe. La prima volta nel 1867; una seconda edizione tedesca esce tra il 1872 e il 1873; l’edizione francese del 1872-75 , tutte approvate da Marx. E poi ci sono due ulteriori edizioni tedesche, del 1883, e del 1870, curate da Engels e un’edizione inglese, anch’essa curata da Engels del 1887. Tra queste edizioni ci sono moltissime varianti. Nella seconda edizione tedesca rispetto alla prima ci sono numerose varianti, viene addirittura cambiata l’intelaiatura del libro: da capitoli si passa a sezioni, ne vengono create di nuove, suddivisi i capitoli, ecc. Ha ripensato la struttura. Questo processo continua con l’edizione francese, tant’è che Marx stesso all’inizio del libro dice che è migliorativa rispetto alla seconda tedesca, al punto che anche il lettore tedesco doveva rifarsi a essa. Anche qui confrontando le varianti si capisce di che sta parlando: per esempio, sviluppa la parte sull’accumulazione in maniera sostanziale introducendo nuove categorie come composizione organica, distingue tra concentrazione e centralizzazione, ecc. Mette in due sezioni separate l’accumulazione cosiddetta originaria e quella propriamente capitalistica. Introduce il concetto di lavoratore complessivo, o collettivo anche come viene tradotto a volte, che per esempio è centrale anche in Gramsci. È insomma un’edizione che aggiunge molto. Marx non ha curato una terza edizione tedesca, che avrebbe rielaborato alla luce di quella francese, e questo ha creato tutta una serie di questioni editoriali che tuttora sono al centro della discussione. È per esempio uscita recentemente un’edizione inglese per Princeton University che adotta criteri diversi da quelli che abbiamo adottato noi. Perché? Cerco di spiegare il contesto. Qual è l’ultima versione che ha pubblicato Marx? La questione è che non c’è! Paradossalmente un libro che ha pubblicato tre volte in vita e che ha curato personalmente non ha una versione di ultima mano. Cronologicamente sarebbe la francese; ci sono delle migliorie, quindi perché non partire da quella? Perché non è una traduzione in senso moderno. Giusto per farvi l’esempio più clamoroso: non c’è “valorizzazione”. Non solo non c’è il termine valorizzazione, non c’è una traduzione coerente utilizzando coerentemente la stessa parola in tutto il volume. Chi ha un minimo di familiarità con la teoria del capitale sa che essa ne è proprio il cuore. Poi, per esempio, passi complessi vengono semplicemente omessi, mancano a volte righi interi. Soprattutto quello che viene meno è il lessico filosofico marxiano. La terminologia utilizzata in maniera massiccia da Marx nel tedesco, che ha insomma l’eredità storica della filosofia classica tedesca di Hegel e non solo, viene un po’ “annacquata”, appiattita. Ci sono motivi oggettivi insomma e anche molti studiosi francesi del dopoguerra hanno sollevato la questione concludendo che non si poteva considerarla una traduzione soddisfacente. In verità anche lo stesso Marx quando ha redatto dei progetti per la terza edizione tedesca non ha detto pubblichiamo la francese, ha indicato la seconda edizione tedesca e di modificare questo, quell’altro passaggio dalla francese; ci sono tre indici in cui lui dà delle indicazioni sui passaggi da sostituire. Poi ci sono le copie personali di Marx in cui pure aveva evidenziato dei passaggi. Nella terza edizione tedesca Engels, seguendo queste indicazioni, ha modificato il testo. Ora qual è il problema? È che non l’ha fatto completamente. Nella quarta edizione tedesca continua ad aggiungere altre cose che non aveva inserito nella terza, però di nuovo non lo fa completamente. Una delle cose che non ha fatto, ad esempio, è cambiare la struttura secondo cui Marx aveva risuddiviso l’edizione francese. La conseguenza è stata che chi studia Marx dal tedesco o dalle edizioni tradotte dal tedesco ha un indice; i francesi invece, siccome Marx aveva parlato bene dell’edizione di Roy, l’hanno riprodotta a oltranza con un indice diverso dalla tedesca. L’edizione inglese curata da Engels nel 1887 utilizza la struttura della francese, quindi l’edizione inglese ha l’indice della francese. Invece nella III e IV tedesca Engels ha mantenuto quello della seconda edizione. Insomma: francese e inglese hanno un indice diverso dalla tedesca e da chi ha tradotto da essa e quindi l’assurdo è che ai convegni citando ad es. il capitolo 17 non è detto che ci si riferisca allo stesso testo; bisogna chiarirsi su quale sia l’edizione di riferimento.

La nuova edizione Princeton, ma anche in passato quella messicana di Scaron che è una buona edizione, è basata sulla seconda edizione tedesca e rispetto a essa fornisce le varianti delle altre. Qual è il motivo di questa decisione? C’è una velata ideologia anti-engelsiana: dovendo scartare l’edizione francese per la traduzione, per averne una marxiana senza intervento engelsiano bisognava prendere la seconda tedesca. Quest’ultima edizione inglese per Princeton segue questo criterio. Si possono portare delle argomentazioni a favore di questa scelta, complessivamente ritengo però che sia sbagliata. Perché? Semplicemente perché abbiamo come varianti e non nel testo principale parti di testo che Marx non solo ha progettato, ma pubblicato nell’edizione francese come miglioramenti. Esse sono migliorative rispetto alla seconda edizione tedesca, ma il lettore che ha la seconda edizione tedesca se le trova come varianti e non nel testo principale.

I contenuti che un lettore trova nel testo pensa che costituiscano il pensiero più maturo dell’autore, non qualcosa di superato da miglioramenti successivi. Non è detto che il lettore generico vada a leggersi le varianti tanto meno che capisca che in esse si trovi il testo più maturo. Leggendo la seconda edizione tedesca non troviamo per es. la composizione organica. È una cosa incredibile. Diversi concetti fondamentali non li troverebbe solo perché sono stati inseriti nell’edizione francese. Partendo dalla seconda edizione tedesca li si colloca nelle varianti, quindi secondo me è una scelta scorretta nei confronti del lettore, perché il lettore, a meno che non sia un esperto, potrebbe non capire che nel testo principale trova delle categorie superate. Nella III e nella IV edizione c’è invece l’intervento di Engels. La soluzione perfetta non c’è a meno che non si faccia come nell’edizione critica in cui si pubblicano tutte le edizioni, operazione impensabile in traduzione.

Si trattava dunque di trovare una soluzione “diplomatica”, nella consapevolezza che quella perfetta non esiste. L’obiettivo era fornire una traduzione che rendesse il miglior Marx possibile e questo la seconda edizione tedesca non lo fa, perché appunto il testo più avanzato si trova nelle varianti. Per questa ragione abbiamo deciso di prendere come punto di riferimento la quarta edizione tedesca, cioè l’ultima curata da Engels dove più o meno è stato inserito quasi tutto, e rispetto ad essa abbiamo dato le principali varianti di tutte le edizioni precedenti: tre edizioni tedesche e l’edizione francese. Chiaramente, nell’introduzione si spiega quello che ho spiegato a voi, cioè che si tratta di una soluzione diplomatica e che il testo include l’intervento editoriale di Engels. Chi volesse leggere la seconda edizione tedesca, trova il testo nelle varianti.

Le varianti sono molte, da p. 770 fino a p. 1214. Oltre alle varianti in senso stretto, il testo include anche due manoscritti, uno ben noto, il cosiddetto Sesto capitolo inedito, che è stato ritradotto completamente seguendo gli stessi criteri di traduzione, e poi un manoscritto inedito, pubblicato per la prima volta nell’edizione critica, scritto da Marx tra il dicembre del 1871 gennaio del 1872, proprio nel corso della progettazione della seconda edizione tedesca, il primo capitolo in particolare, riscritto quasi completamente. Giusto per dare un’idea, nel primo capitolo del 1867 non c’è il paragrafo sul feticismo della merce, non uno a caso, uno dei capitoli più discussi nelle interpretazioni di Marx. In questo Manoscritto 1871-72 si vede letteralmente proprio la creazione del capitolo, come aggiunga dei paragrafi nuovi, poi inserisca il pezzo che nella prima edizione era a pagina x, ecc.; si vede proprio la costruzione. Anche per esempio per la forma di valore, che è uno dei temi più discussi nell’interpretazione, sempre in questo manoscritto c’è un ripensamento molto importante che getta luce anche su come leggere l’intera sezione. C’è una “divagazione” di 3-4 pagine in cui Marx riconsidera un po’ tutta la struttura della merce, della forma di valore eccetera e secondo me chiarisce in maniera netta come la pensa. Questi manoscritti sono inclusi in questo volume.

Il testo di riferimento è dunque la quarta edizione tedesca del primo libro del 1870 e include tutti i testi sopravvissuti che Marx ha vergato con l’intenzione di scrivere il primo libro, dunque a partire dal 1863 in poi, perché il progetto del capitale in tre libri viene sostanzialmente realizzato per la prima volta nel 1863-65. Prima il progetto si chiamava Per la critica dell’economia politica; adesso invece diventa sottotitolo. L’intenzione viene espressa nella famosa lettera a Kugelmann del dicembre del 1862. Nel manoscritto 1863-65 c’era una prima versione del primo libro del capitale, che però è andata perduta, a eccezione del cosiddetto sesto capitolo inedito.

Tutti questi testi sono stati tradotti con gli stessi criteri; questo è un grosso vantaggio dell’edizione. Alcuni di essi erano disponibili, però chiaramente non era la stessa traduzione di Cantimori, né di Maffi, quindi un confronto tra varianti era difficile da fare per uno che non potesse andarsi a vedere il tedesco, perché chiaramente ogni traduttore aveva adottato criteri diversi. Il vantaggio di questa edizione è che queste varianti sono

Friday, 19 September 2025

Adriana Bernardeschi mi ha intervistato su Radio Grad sul mio libro Nel labirinto. Italo Calvino filosofo

Adriana Bernardeschi mi ha intervistato su Radio Grad sul mio libro Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2024. 





Thursday, 18 September 2025

Presentazioni presso la Casa della cultura di Milano di Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura

Presentazioni presso la Casa della cultura di Milano di Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura, Napoli, La scuola di Pitagora, 2024.

Ne hanno discusso con l'autore Gennaro Imbriano e Vittorio Morfino.


Monday, 15 September 2025

NEL LABIRINTO Italo Calvino filosofo. Presentazione del libro di Roberto Fineschi

 

NEL LABIRINTO Italo Calvino filosofo 

Presentazione del libro di Roberto Fineschi (La scuola di Pitagora, Napoli, 2025) 

Dialoga con l'Autore: Paolo Giovannetti


Sunday, 14 September 2025

AUTOGOVERNO E TIRANNIDE. L’idea dello stato: preliminari per un’analisi del potere presente, di Alessandro Mazzone

Fonte: la Contraddizione 73-lug.ago.99

Ora incluso in Per una teoria del conflitto. Saggi 1999-2012, ordinabile presso laboratoriocritico2022@gmail.com o contropiano@gmail.com



AUTOGOVERNO E TIRANNIDE


l’idea dello stato: preliminari per un’analisi del potere presente


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Alessandro Mazzone




1. Perfino un liberale1 come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’at­tacco neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente, un at­tacco alla democrazia tout court2. Ma per chi ritiene che gli ideologemi neolibe­rali siano piuttosto figure di superficie di un processo, in cui il capitalismo tran­snazionale tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro genera­zioni) - conviene riprendere la questione alla radice.



Si tratta di domandarsi a quali condizioni sia pensabile, nel mondo attua­le, democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo dei suoi membri. E si vede allora che la questione della de­mocrazia è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court (“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale. Questo, naturalmente, è il problema della politica da Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui anche quella liberale è, certo, un elemento - ma è solo per strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto, decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio3, che la nozione di comunità umana e del suo rapporto con la natura (cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni, “individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula sæculorum.

Chiamo Corpus collectivum hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione (astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi bioti­camente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè dotata di un suo rap­porto biotopico tipico con l’ambiente naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha, innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le modalità o for­me di moto della produzione e riproduzione della comunità stessa, che variano nel tempo, e che - oggi - tendono a inglobare non solo la produzione e riprodu­zione di individui umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di modalità d’azione storicamente definite) - ma le determinanti biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa, ossia - al limite - non ha niente fuori di sé.4 Ma - si dirà giustamente - quante cose una comunità umana ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo “materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia non-volontà, non-ragione, non-posizione e realizzazione di fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia” non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini 5, perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né mezzi della loro realizzazio­ne, e anzi la comunità sarebbe un insieme di automi.6

Questa definizione dell’autogoverno non parrà “troppo larga” a chi riflet­te a due aspetti. Uno, per così dire, comune a tutte le epoche: non posso “volere” allevare dei figli se non ne ho le condizioni soggettive (capacità, preveggenza...) e oggettive (mezzi “naturali” e “sociali” sempre, anche in una società primitiva). Il secondo aspetto, invece, proprio del nostro mondo di oggi: se è vero, come è vero, che “il pane non è prodot­to dal lavoro dei soli panettieri, ma è l’anello fi­nale di un processo complessivo”7, se insomma sempre di più, man mano che progredisce la divisione sociale del lavoro, e la riproduzione sociale complessi­va [rsc] è sempre più risultato dell’interazione di tutti gli elementi del cchr, al­lora “governo” e “autogoverno” non può che significare: gestione razionale e libera di sfere sempre più ampie della riproduzione sociale degli uomini nella natura. Ora: il procedere e globalizzarsi dell’interazione, in cui la rsc ha luogo, ha una forma di movimento, e un nome: esso si chiama modo di produzione ca­pitalistico [d’ora in poi, mpc]. E il problema dell’autogoverno della comunità, allora, diventa problema del rapporto tra lei medesima e la sua materia - che son poi le forme del mpc in quanto diventate non-volontà, non-ragione (cosid­detta mera “razionalità strumentale”), “cose” che gli uomini hanno fatto e si er­gono di fronte a loro, ecc.8


La classica discussione marxista del rapporto tra classi e Stato si iscrive, a ben guardare, in questo orizzonte. Al livello della teoria del modo di produzio­ne le classi sono forme di esistenza delle forze produttive (che sarebbero infatti mera astrazione senza i rapporti di produzione in cui operano e si muovono!)9. Ma il mpc, per sua natura propria, tende a inglobare ogni forma di vita, secondo una dinamica conoscibile, e riconoscibile nei processi empirici. Ne consegue che il rapporto di produzione (di classi) è il luogo in cui figure di relazione de­terminate vengono poste e diventano possibili. Con loro divengono via via pos­sibili modi d’essere di individui e gruppi (che sono secondi concettualmente e ontologicamente rispetto alle classi); e queste figure di relazione e modi d’esse­re vengono attuate e regolate10. Ma questo “attuare” e “regolare”, in quanto è posizione di fini, è autogoverno del Corpus collectivum hominum et rerum. Es­so è soggetto e oggetto a sé medesimo, (ossia libero): ma lo è nella misura in cui governa razionalmente la sua materia, e non ne è dominato. Ovvero: nella misura in cui fa di lei condizione e mezzo dei suoi fini di “libero sviluppo di cia­scuno” (secondo l’espressione del Manifesto ), divenuti possibili, e poi razional­mente posti e perseguiti.

La domanda “come è possibile governare l’economia” è priva di senso, finché “economia” è intesa e fissata appunto come meccanismo autonomo! Ma questa rappresentazione ideologica è fuori campo concettualmente da più di un secolo, grazie in primo luogo (ma non solo) a Marx; e non ha nulla a che fare né con l’analisi di ben determinati e istituzionalmente configurati mercati reali, né, a maggior ragione, con il discorso teorico rigoroso.

La domanda di principio è invece: come è pensabile, in un certo grado di sviluppo della rsc in forma capitalistica, l’autogoverno del cchr, ossia la sfera della posizione di fini (nel linguaggio di Hegel: “Spirito”, o “seconda natura”), rispetto a ciò che non sempre è stato, ma è ormai diventato , “materia”, mezzo e condizione di realizzazione di fini umani (nel linguaggio di Hegel, “Natura”, o “prima natura”). In Marx, come in Hegel, hai una filosofia della libertà11, cioè dell’autogoverno del Corpus collectivum. In entrambi, beninteso, l’individuo resta sempre il luogo dell’azione (non, invece, il cosiddetto singolo: non si na­sce singoli se non in quando esseri biologici, individui di specie; e si diventa singoli nella vita sociale, tanto più se ne fa propria, attivamente, e tanto più ci si “singolarizza”). Le differenze sono altre, e le vedremo brevemente.




2. Hegel sa che “volontà” è essenzialmente “pensiero”, e, nello svolgi­mento sistematico, “ragione”. Nella Filosofia del diritto e, in genere, nello Spi­rito obiettivo, questa volontà-pensiero-ragione è la sfera dell’autogoverno del Corpus collectivum secondo fini comuni. Questi sono universali per la forma (come già in Kant): ma la loro “materia” (determinazione dell’individuo che è volizione, e per cui esso si fa “singolo”, universale riflesso in sé), è ora assunzione-negazione (infinita) di contenuti storici. Questi contenuti non hanno esi­stenza “fuori” dell’agire: così, p. es. una legge positiva non conosciuta e ricono­sciuta nelle coscienze non è una legge. L’individuo è il luogo dell’agire, ma nel­la forma universale. É ormai riconosciuto il debito di Hegel verso Rousseau; ma va detto anche che la teoria hegeliana dello Stato, e della possibilità e realtà sol­tanto processuale di fini comuni non si riduce alla mera critica del dover-essere kantiano, ma attraverso questa (e proprio nelle affermazioni più “scandalose”: lo Stato “realtà effettuale dell’Idea etica” [FD, § 257], etc.) - la teoria hegeliana of­fre una soluzione del problema rousseauiano: come è possibile la volonté générale, che non può essere sommatoria di diversi, mera volonté de tous? Lo “Stato” è assunzione-negazio­ne, superamento della determinazione naturalisti­ca, che è di per sé pre-razionale e solo può esser fatta immagine e somiglianza della ragione [FD, § 18 et al.]. E noi, va detto subito, ritroviamo questa dialetti­ca nella nozione di naturwüchsig [naturalmente cresciuto], e del suo supera­mento, nel Capitale.

Hegel rifiuta anche ogni identificazione dello Stato con la società civile, mero “Stato dell’intelletto e della necessità” - non della libertà. Non solo: come meglio intendiamo oggi (dopo il lavoro di Ilting, Henrich, Losurdo etc.): la so­cietà civile è incapace di autoregolazione, produce gli estremi della ricchezza e del pauperismo, la “plebe”, che non è solo privata della sussistenza, ma anche di dignità e cittadinanza (mentre “essere cittadino” è il “supremo dovere” - FD § 258). C’è di più: questa incapacità di autoregolazione, proprio perché (come no­tò Marx) “Hegel è all’altezza dell’economia politica moderna”, cioè di Smith se non di Ricardo, importa che la autoattuazione del Corpus collectivum (della “se­conda natura” che si instaura sulla prima e la plasma secondo la sua forma, quella della libertà-pensiero-ragione) non possa aversi nella logica del “si­stema dei bisogni” e della società civile in genere. Con i suoi mezzi e nel suo linguag­gio, il filosofo aveva visto lontano: i “limiti della competitività” [cfr. Gruppo di Lisbona, 1995 12] stanno nel suo esser “natura”, “spiriti animali del capitalismo”. Il carattere feticistico delle “leggi dell’economia politica borghese” consiste (per Marx) nella loro pretesa “eternità” - cioè nel presentarsi appunto come “na­tura” - obliterando la dimensione di produzione umana (sociale, scilicet) di una “seconda natura”, che ha un suo decorso e un suo limite, oltre il quale essa di­venta irrazionalità.




3. Anche la pluralità “naturalistica” degli Stati (in lotta tra loro come in­dividui naturali, cioè in guerra), realisticamente vista da Hegel, è strettamente collegata al “punto di vista dell’economia politica moderna”, della Ricchezza di Nazioni individue. Il “sistema dei bisogni” è infatti affinamento/moltiplicazione dei lavori e dei bisogni, divisione del lavoro, mediazione del lavoro diviso nello scambio [FD, § 60 s.: “valore”]. Ma la società civile è perciò stesso concettual­mente intermedia tra famiglia e Stato vero e proprio: è un “infinito” bensì, in quanto attraverso il suo momento negativo si attuano le capacità potenziali degli individui umani, il principio moderno dell’infinito valore dell’individuo. Non è, e non può essere, fine ultimo, cioè autosufficiente e autofondante.

Per intendere questa posizione della società civile hegeliana nell’archi­tettura dello “spirito obiettivo” non è adeguato, il richiamo (che pur si è fatto), alla fase manifatturiera della Rivoluzione industriale, presente in Smith e, certo, anche in Hegel. Il problema è ben altro: il rapporto della “seconda natura” cioè della libertà-pensiero-ragione alla determinazione naturalistica e violenta è pen­sato da Hegel come superamento parziale e non-concluso della “natura” nello “spirito”. (Perciò poi anche il passaggio necessario, riguardo all’unità dello svolgimento filosofico, e dunque coerente, alla dimensione quasi-intemporale dello Spirito Assoluto.)

Il rinvio alla fase manifatturiera è, anzi, fuorviante. Si tratterà piuttosto degli elementi fisiocratici, presenti pure nella Ricchezza delle Nazioni13: in He­gel, il lavoro del “ceto sostanziale” [FD, § 203], è bensì nel “terreno naturale” e pone scopi: ma senza infinità positiva del produrre - quindi non è pensabile qui scienza come forza produttiva, né le scienze della natura compaiono come mo­mento specifico dello Spirito oggettivo. Analogamente, e non per caso, è fuor­viante la lettura del capitolo XII del Capitale come descrizione cronologica, dimenticando che la negazione della piccola produzione contadina e artigiana è fenomenica rispetto all’infinitazione del produrre che si ha con il “modo di pro­duzione capitalistico vero e proprio”. (Mi limito a questo cenno: la polemica contro lo “storicismo invertebrato” nella lettura di Marx è stata fatta adeguata­mente, anche in Italia14).




4. Se rileggiamo la teoria hegeliana dell’autogoverno razionale e libero della “seconda natura” in rapporto alla “prima”, ma ora a partire dal Capitale, ci rendiamo conto di come il concetto di una forma di movimento forze pro-duttive-classi sconvolga da cima a fondo l’architettura della Filosofia del diritto - senza che l’idea dell’autogoverno venga per questo abbandonata. É modificato infatti tutto lo sviluppo da “individuo” (vivente naturale, solo in sé, o poten­zialmente, “uomo”) a “singolo” (“persona”, “soggetto morale”, “cittadi­no”), e dunque anche tutta la configurazione della realtà storica-sociale ovvero (sola) propriamente umana, ovvero ancora Spirito. Il “potenzialmente umano” si allon­tana nelle “età primeve” [Capitale, I, cap. V,1]: e il lavoro è il luogo della mediazione di finalità e datità oggettiva in genere (cioè delle determinazioni via via acquisite e trasformate di una “natura” e un “mondo”). Perciò il lavoro in abstracto non è “produzione” [ivi]: ma nella storia reale del lavoro, nelle sue figure sociali, hai la mediazione di teleologia e mezzo, ragione e natura in genere.

Con ciò è travalicata anche la pluralità degli Stati come corpi politici, luoghi e realtà dell’autogoverno, sia pur parziale, del Corpus collectivum. L’au­togoverno (o libertà, o comunismo) resta parziale: ma il suo limite muta statuto categoriale: è la “linea di scorrimento” (infinita) del fondamento che congiunge necessità e libertà [secondo un luogo ben noto di Capitale III, cap. 48, su cui torneremo]. Le “leggi” quasi-naturali della rsc in forma capitalistica, proprio perché non-atemporali, si presentano come “natura” (e sono percepite e rappre­sentate come “natura umana” etc.): ma in due aspetti diversi, e idealmente suc­cessivi. In quanto sono state e sono rapporti di produzione in cui la finalità, ine­liminabilmente inerente a lavoro umano, si attua e si espande. E, però, in quanto diventano “prima natura”, - ossia vengono ormai a costituire ciò che non da sempre poté, ma grazie allo sviluppo soggettivo e oggettivo ora può esser supe­rato nello “spirito”, hegelianamente parlando. In altre parole, l’elemento quasi-naturale della “seconda natura”, il processo di riproduzione in quanto obiettivo, può esser fatto, a un certo punto, momento interno dell’autoattuazione razionale del Corpus collectivum - e dunque, della sua libertà.

Questa “natura” non-governata , però, non sta, architettonicamente, “alla fine”, come nella Filosofia del diritto - la “naturalità” degli Individui-Stati, dun­que la guerra tra di loro (al di là della quale ci può esser solo la storia come “giudizio cosmico-mondiale”, e la dimensione sovraetica dello Spirito Assoluto, perciò stesso atemporalmente “presente”).

La sfera di ciò che non è sussunto nella ragione-libertà sta invece, dopo il Capitale di Marx, all’inizio. É un inizio sempre rinnovato, il presupposto-posto dell’azione razionale e libera - almeno per tutto l’arco idea­le della tempo­ralità del Modo di produzione capitalistico. Ma è un inizio, un terminus a quo. (Questo, del resto, può essere il solo senso non metaforico di base e sovrastrut­tura nel capitalismo). Lo svolgimento epocale del mpc rende possibile che “i produttori associati ... regolino razionalmente il ricambio organico con la natura con il minor impiego [via via] possibile di energia e in condizioni più adeguata alla loro umana natura e più degne di essa”.

Alla fine del XX secolo, “naturale” vuol dire più che mai, e molto più di quando Marx scriveva: non-razionale, non-governato, limite all’autogoverno (ovvero alla libertà, allo “sviluppo di ciascuno come condizione dello sviluppo di tutti”, etc.). E vuol dire insieme, e pure grazie allo sviluppo epocale del mpc, sconvolgimento tanto della vita sociale globale che dell’intera biocenosi in cui lo Homo sapiens sapiens è venuto a prodursi ed operare (ossia, in termini biolo­gici, nel modestissimo arco di tempo di poche decine di migliaia di anni).

L’autogoverno è urgente. Ed è possibile, in sé. Non per sé, evidentemen­te. Ma per pensare questo per sé occorre passare attraverso un’altra conseguen­za concettuale dello “sconvolgimento” che la nozione di forze produttive-classi portava nell’architettonica della Filosofia del diritto. Ed è necessario farlo, perché attraverso la nozione di autogoverno del Corpus collectivum, la nozione di “seconda natura” come superamento della prima, la nozione di razionalità e diritto come libertà, è tutta la lezione hegeliana che passa in Marx (o almeno, nel Marx autore del Capitale); e attraverso di lei, quella di Rousseau e di Kant. É la concezione della libertà come posizione e attuazione di finalità. La conce­zione della volontà generale come attuazione processuale di un pensiero-ragione che è per sua natura, come il Denken hegeliano, d’emblée transindivi­duale, forma di moto generale, forma dunque anche degli scopi comuni, che di­ventano possibili per gradi e in configurazioni definite, pur restando sempre l’individuo luogo dell’agire.




5. L’eticità, scrive Hegel [Enciclopedia, § 513]), è il concreto, la “verità dello spirito soggettivo e oggettivo” - e dunque di tutte le figure pregresse; com­presa la “persona” e il “soggetto” o coscienza morale. Ma se ricordiamo che la nozione (marxiana) di “classi” non è un descrittore sociologico, e non ha nulla a che fare con “gruppo” etc., vediamo subito anche che la “divisione in classi” è ben altro che un limite all’eguaglianza e alla libertà rousseauiane (o anche delle Rivoluzioni borghesi); ben altro che un’antitesi esterna a quelle libertà ed egua­glianza, che ne sbugiardi la parzialità o anche ne sanzioni la limitatezza cosid­detta “storica” (?!).

La divisione in classi (e nelle due classi fondamentali del mp moderno) è inerente alla determinazione lavorale (e qui: valorale) tanto del modo di produ­zione immediato, che della Riproduzione sociale complessiva, di cui il primo è “momento dileguante” sì [Grundrisse, p. 600], ma ineliminabile realmente e concettualmente. Allora: senza “classi” non può essere pensata (in senso stretto: non può essere concepita, modellizzata, conosciuta razionalmente) la riprodu­zione complessiva del Corpus hominum et rerum, in tutte le sue dimensioni. (Se il medium concettuale di “natura” e “storia” è lavoro, il luogo concettuale del “processo storico-naturale” è la “rsc”).

“Verità dello spirito soggettivo e oggettivo” voleva dire in Hegel: l’etici­tà è la sfera in cui tutte le determinazioni pregresse hanno il loro svolgimento effettivo: dunque tanto la “natura” che lo “spirito soggettivo” - cioè lo esser-diventato-umano - che deve esser pensato come lo in sé di quello in sé e per sé, cioè dell’a­zio­ne sociale-umana libera, e dei suoi gradi e avanzamenti sulla non-libertà “naturale”.

Proviamo a riformulare. Tutto il processo attraverso cui costantemente, nel cchr, si producono “individui umani con i loro rapporti” [Grundrisse, l. cit.]; ossia, ancora, il processo della rsc nei suoi momenti, compreso il processo di produzione immediato etc. - questo processo tutt’intero è in ogni istante luogo dell’egemo­nia di classe nella rsc in forma di moto determinata (quella del mpc in primo luogo). Egemonia come rapporto di classi vuol dire innanzitutto: sono le classi che “si dànno” Stati, istituzioni, forme di organizzazione della produ­zione di “individui e rapporti tra loro” - poi anche, per es., scuole, o partiti, o movimenti etc. etc.

Ancora: se l’egemonia è rapporto di classi, essa è modalità dello svolgi­mento totale delle forze produttive, e dunque anche della produzione e riprodu­zione della forza produttiva principale - gli uomini stessi. Ma allora: questa ri­produzione va intesa e riconosciuta in configurazioni e secondo stadi definiti (come anche la riproduzione economica, del resto). Ed è a questo livello che si pone - a mio giudizio - il problema.

Tanto il problema analitico delle forme e trasformazioni e gerarchizza­zione degli Stati, del loro relativo assoggettamento e trasformazione in “agenzie regionali” nel capitalismo internazionalizzato e mondializzantesi; quanto anche il problema dell’esplorazione delle contraddizioni attuali (cioè poi effettive, non disegnate a tavolino) del processo di riproduzione complessiva, in forma, non solo di mpc in generale, ma poi di corpi particolari, Stati e subStati capitalistici. Per questa via, se sapremo farlo, si arriverà anche a determinare luoghi possibili di opposizione alla tirannide.




6. Di “tirannide” di deve parlare, almeno per sei motivi.

Primo. Il bisogno è tendenzialmente superato su scala mondiale, la pro­duzione è sovrabbondante (non, naturalmente, la domanda solvente di merci!)

Secondo. La attuale “borghesia transnazionale” non può sensatamente esser anche solo paragonata alle borghesie storiche come enti sociali corposi, forme di vita, espansività sociale, universalizzazione relativa. Essa è dominante, ma non può chiamarsi “dirigente”, secondo questi criteri, che (come Gramsci mostrò) sono appunto criteri storici, non meramente sociologico-politici, cioè criteri di egemonia.

Terzo. Il superamento relativo degli Stati nazionali si accompagna a uno smantellamento della citoyenneté , cioè dell’universalità politica in senso pro­prio (con e senza limiti formali!). Ciò tanto per il lato istituzionale, quanto per quello della coscienza (manipolazione).

Quarto. La produzione immediata di uomini (allevamento; accultura­mento sia familiare che scolastico diventa (soprattutto nelle metropoli) elemen­to della valorizzazione del capitale (merci di massa, ma anche “produzione im­materiale”). Ma contemporaneamente tendono a diventare “superflue” intere masse di poten­ze sociali (cultura; lingua nazionale; coscienza civica nelle sue forme storicamente progressive). La valorizzazione richiede “teste d’opera”, non “cittadini medi”. Oltre alla cittadinanza politica, si smantella così quel­la so­cioculturale. La “plebe” hegeliana viene riprodotta in massa e secondo finalità precise, in tutto o in parte obiettivamente inerenti a questa figura di rsc.

Quinto. La segmentazione della classe operaia non ha luogo soltanto nella dimensione geografica e territoriale, ma anche nelle forme del locali- smo neocorporativo, con corrispondenti forme di regressione della coscienza (etnicismo, etc.).

Sesto. Lo squilibrio tra cittadinanza politica “svuotata” (manipolazione, “dialettica della notizia”15; abolizione de facto della trasparenza dei processi, quindi della citoyenneté repubblicana; ossia, “abolizione del popolo”, e invece “gente”, cioè in realtà “neoplebe”) da una parte, e percezione possibile dei feno­meni translocali (e comunque di fenomeni del processo complessivo, e non di frammenti sconnessi ossia parvenza “scandalosa”, “sensazionale”, “emozionan­te” etc.) - questo squilibrio è sistematicamente promosso e imposto, non solo nella mediatica di servizio, ma nelle istituzioni della società (sindacati, partiti, associazioni), nella cultura (cinema, etc.), nell’insegnamento (riforme funziona­li alla “religione del mercato”16 nella scuola e Università, etc.).

Questi sono, pare a me, fenomeni diversamente pronunciati in Paesi di­versi, ma indicativi di una tendenza complessiva. (Rispetto alla quale, beninte­so, il neoliberalismo è mero epifenomeno: e infatti, la sciocca e ignobile parola d’ordine della “fine delle ideologie” ha proprio qui un suo nocciolo di verità. “Neolibe­rali­smo” non designa affatto una ideologia di massa in sé coerente, ma un coacervo di frasi, di idées reçues utilizzabili caso per caso. É esso stesso un aspetto della disgregazione indotta della coscienza civile e politica).




7. Se la tirannide moderna è praticabile, si può dire, avrà avuto parados­salmente “ragione” il vate della “Radura dell’Essere” nelle dolci colline, vicine ai tesori barocchi della Svevia e del Baden, là nella Foresta Nera. Almeno nel senso che, sì, la tecnica si rivela ingovernabile, la ragione è sconfitta, e “solo un dio potrà salvarci”. Martin Heidegger, come si sa, non manca di imitatori, se­guaci, nipoti e nipotini. I quali sembrano ignorare in genere la posta in gioco - come il loro maestro, peraltro, quando credette di formulare la sua protesta con­tro il “malo invio dell’Essere”, “metafisica” e “tecnica” conseguente, radicaliz­zando in senso irrazionale la Kulturphilosophie dell’altra svolta di secolo: e pri­vandosi così della possibilità di scorgere, in termini filosofici, la dimensione processuale di cui il nichilismo era la concettualizzazione fenomenica al livello astratto dell’autocoscienza e del suo fondamento.

Ma la concettualizzazione astratta tende per sua natura a estrapolare il fenomeno dal moto processuale. “Tecnica” e “uso capitalistico della tecnica” son due cose diverse. E inoltre, anche la tecnica del dominio tirannico può esse­re studiata e intesa.

La tirannide del capitale “globale” non può riprodurre borghesie “organi­che” né nelle metropoli, dove esse anzi s’assottigliano, né tanto meno nei Paesi della periferia, o in quelli in cui è stato abbattuto il protosocialismo “reale”. Le forme del dominio - dalla manipolazione alla violenza bellica - possono perpe­tuare il dominio, bloccare la vita associata, forzarla alla decadenza anche pro­lungata. In ciò, nihil novi sub sole. Sarebbe strano, e veramente “nuovo”, che il dominio di per sé si facesse piena e progressiva egemonia, forma almeno relati­vamente progressiva di svolgimento del corpus collectivum nelle sue configura­zioni e istituzioni, sviluppo degli individui e delle società sulla base di ciò che è diventato possibilità reale, e perciò attuazione e ampliamento di potenzialità sociali-umane.

Il compito, per noi, mi pare esser piuttosto quello di riprodurre, all’altez­za del tempo attuale, l’analisi del­l’intero spettro della riproduzione sociale com­plessiva, e delle forme di egemonia. Dobbiamo indagare come è fatta la catena - e molto qui è il lavoro da fare - prima di poter forse individuare un’altra volta, se c’è, un qualche anello su cui far presa davvero - al di là di ogni pur giustifica­ta denuncia e deprecazione.

La tirannia moderna può dominare, manipolare, bombardare, sterminare. Ma non può “risolvere praticamente” il problema posto da Rousseau, diversa­mente risolto da Hegel e poi da Marx, e divenuto frattanto tanto più maturo nel­le cose: l’autogoverno razionale della comunità umana. Per questo, mi sembra, tutto quel che è “ragione”, “dignità umana”, “cultura”, e (ovviamente) “demo­crazia”, è oggi sotto attacco, e si trova obiettivamente dalla stessa parte. Anche il mostrare questo sarà un lungo lavoro. Ma non inutile, e non vano.





1 Il termine "liberale" viene qui usato in senso filosofico, non come designazione di collocazione politica immediata. Bobbio conosce "individui" e "interessi", ossia "persone" nel senso di Loc­ke. Al di fuori di questi, conosce solo dottrine "organiciste" dello Stato. Ciò si può vedere chia­ramente nella raccolta di Materialien zu Hegels Rechtsphilosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll., Frankfurt/M. 1975. B., indifferente alla nuova letteratura seguita agli studi di E. Weil, J. Ritter, D. Henrich, ai testi pubblicati da K.-H. Ilting, ripropone i temi "classici" del contrasto tra "totali­tà etica" e "diritto naturale", del rapporto con il Volksgeist romantico, di un Hegel che si propo­ne di esporre "lo Stato come è" (vol. 2, p. 85, 87, 95). Che nella Repubblica platonica, come nel­la Politica aristotelica, come nel Contratto sociale, come - mutatis mutandis - nella Filosofia del diritto hegeliana si abbia innanzitutto una fondazione filosofica generale della posizione di fini e della loro forma di movimento possibile e comune, cioè appunto della libertà come supe­ramento del meccanismo naturalistico, sfugge a questa prospettiva altrettanto quanto la continui­tà tra Rousseau, Kant e Hegel, e poi, Marx. Si veda, per contrasto, il breve, illuminante saggio di Livio Sichirollo, Marx oggi, in Belfagor, 1.1999, p.1 a 9.


2 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 139; cfr. p. 25, 51.


3 Anche N. Bobbio, op. cit., p.9: "concezione organica dominante nell'età antica e medievale" ecc.


4 Qui va tenuto fermo (con Marx ed Engels, Ideologia tedesca, in Opere complete , vol. V, p. 37, che "la storia" non fa nulla, ma "gli uomini" fanno, etc. - ossia, filosoficamente: che l'individuo è il luogo dell'azione, anche se l'azione ha forme transindividuali (p. es. linguaggio, pensiero ...). Questo principio è secondo me sufficiente a fondare filosoficamente le "garanzie" e le co­siddette "libertà positive" e "negative" di cui discorrono i teorici liberali, spesso postulandole come "valori" trascendenti e/o arbitrariamente convenuti. Cfr. anche la Bibliografia in calce al saggio cit. di L. Sichirollo.


5 Ciò si vede, in Hegel, già nella teoria dell'"intenzione", che specifica il "proposito" sia rispetto all'autodeterminazione del volere razionale, sia rispetto alle sue condizioni, mezzi e conseguen­ze, che il "soggetto morale" (individuale), deve conoscere e dominare - ma può sempre farlo so­lo parzialmente, mai nella totalità della loro connessione obiettiva. V. Filosofia del diritto, §§ 115-128; Enciclopedia , § 504 ss.


6 La continuità tra Kant e Hegel è qui palese. Cfr. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, [ed. Weischedel, IV, 41], definizione del "volere" come "facoltà di agire secondo la rappresen­tazione di leggi", e Hegel, Filosofia del diritto § 11, il "volere immediato o naturale": entrambi sono gradi ontologici al di là della legalità meccanica ("naturale"). D'altra parte, se Hegel cono­sce l' "istinto" come "relazione di scopo inconsapevole" (Enciclopedia, § 360 A), già Kant pole­mizza contro la riduzione cartesiana degli animali a "macchine" in Critica del giudizio, § 90, no­ta, sebbene, ovviamente, entro i limiti di una semplice "analogia".


7 Riprendo questa espressione di Bucharin da C. Filosa, Le classi e la storia, Laboratorio politi­co, Napoli 1996, p. 17.


8 Si riconoscerà qui, volendo, il tema della "alienazione": termine che preferisco evitare, caricato com'è di assonanze sostanzialistiche, esistenzialistiche, ribellistico-anarcoidi - nella tradizione che risale a Stirner e giunge fino ad Adorno.


9 Il livello delle configurazioni ("storiche"), cioè dei singoli e diversi capitalismi, p. es. nazionali, ecc., è secondo , rispetto a quello della teoria del mpc: infatti è solo grazie a questa teoria, o modello di processo, che quei capitalismi diventano modellizzabili, analizzabili etc. - e la loro conoscenza effettiva può anche portare a modificare il modello "puro", come in ogni indagine scientifica.


10 P. es.: solo nel mondo del mpc diventa possibile essere - borghese, o proletario. Ma poi: non sempre nello stesso modo, con o senza determinazioni intermedie etc., secondo le configurazio­ni della riproduzione capitalistica in epoche diverse, etc. - Ancora: diventa possibile "andare a scuola", posto che la borghesia, come è avvenuto, attui in una certa fase l'istruzione pubblica universale; diventa possibile che ci siano ingegneri, tecnici, ecc., e che "qualcuno" lo faccia. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del Carcere , ed. critica, Einaudi, Torino 1975, p.1513 (Quad. 12, § 1).


11 Cfr. L. Sichirollo, cit.


12 Il volume di questo titolo, a cura di R. Petrella, è pubblicato in Italia da Manifestolibri, Roma 1995.


13 Marx ne tocca rapidamente nelle Teorie sul plusvalore, cap. 2,5, e cap. 4,3.


14 Cfr. tra l'altro: C. Luporini, Marx secondo Marx, ora in Dialettica e materialismo, E. Riuniti, Roma 1974, p. 213 ss.; G.M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria mar­xiana dello sviluppo, Liguori, Napoli 1981; A. Mazzone, La temporalità specifica del Modo di produzione capitalistico, In Marx e i suoi critici, Quattroventi, Urbino 1987.


15 Il termine è di U. Sonnemann, e indica la tecnica manipolatoria delle "notizie" pseudopolitiche e pseudosociali offerte senza contesto e nesso con i processi, come "eventi": per cui il lettore (uditore, spettatore) "è informato di tutto, e non sa nulla".


16 Si veda, nel commento di S. Garroni alla Questione ebraica di Marx [in Quaderni di Contro­piano, 1, 1998] la nozione di "religione" come "dimensione separata della vita umana". Ma la cosa ha fatto progressi! La espressione "religione del mercato" è di C. Preve, in I secoli difficili. Introduzione al pensiero filosofico dell'Ottocento e del Novecento, Crt, Pistoia 1999. p. 158 ss.: e mette in luce l'aspetto totalitario ("non avrai altro Dio fuori che me") della sovranità dei mer­cati finanziari, comunque divulgata dal cosiddetto "pensiero unico", e affermata come unico ispiratore di tutta la vita degli individui, e perciò unico legame sociale. Certo una tal barbarie non era nell'orizzonte filosofico "di Rousseau, Hegel e Marx" (Preve, l. cit.): ma neppure, in ve­rità, di Locke o di A. Smith!

Friday, 12 September 2025

I promessi sposi e i rapporti di forza

I promessi sposi e i rapporti di forza

I Promessi sposi sono un testo troppo "scolarizzato" per essere letto con la stessa attitudine con cui si approccio un romanzo qualsiasi. È questa la celebre premessa del discorso di Sciascia che afferma di averlo letto prima di studiarlo a scuola e che ciò gli ha permesso di maturare un'idea che, di primo acchito, lascia un po' a bocca aperta: il vero "vincitore" della vicenda è Don Abbondio, l'unico che attraversa tutte le vicende e che resta al suo posto, andando in tasca ai promessi sposi, a Don Rodrigo, a Perpetua, alla peste, ai lanzichenecchi, al mondo intero. È una Provvidenza dunque ben miope a giudicare con gli occhi di chi vuole cercare qualche segnale di progresso nelle vicende umane. 


In verità il romanzo finisce con Renzo e Lucia che un accomodamento progressivo lo trovano: Renzo diventa imprenditore/proprietario, Lucia addirittura riesce a dire la sua  e a concordare il sugo della storia insieme al marito, i figlioletti imparano a leggere a scrivere, ecc. Certo... non è il paradiso in terra: il male è inevitabile e viene anche se non lo si cerca e spesso pare vincere, ma la fede permette di affrontarlo con più fermezza e quindi anche con qualche possibilità si scamparla in più.


I promessi sposi
 sono allora il romanzo della necessità storica, dei meccanismi storico-sociali sovradeterminanti e direzionanti all'interno dei quali l'azione umana è possibile e limitata; e soprattutto è efficace solo se quei meccanismi riesce a comprenderli e a inserirvisi in maniera ponderata e precisa. È il romanzo della frustrazione dell'azione umana che al di fuori di quei meccanismi cerca di porsi, di tutti coloro che non sanno muoversi conoscendo le regole del sistema e dei successi parziali di chi, in parte e limitatamente, quei meccanismi con l'esperienza (e sopravvivendo a quelle esperienze) impara a conoscere.

Almeno questa è la lettura che ne dà Italo Calvino all'inizio degli anni Settanta, uscendo da una lunga fase (progressivamente sempre più critica) di prassismo moderatamente ottimista, scottato dall'impasse storico-politica dell'ideologia in cui aveva creduto e per la quale aveva attivamente militato. 


Non è un debacle della volontà, ma una presa di coscienza dell'assoluta urgenza di cogliere i rapporti di forza reali, non meramente contingenti ma legati alle tendenze epocali, con la consapevolezza dei limiti stringenti all'interno dei quali l'azione umana è possibile. 

I promessi sposi diventano allora il romanzo del dramma storico dell'umanità che fa i conti con l'assoluto (non necessariamente trascedente), ovvero con quei processi che si può rinunciare a pensare (la "fortuna" machiavelliana se la vogliamo casuale o la "Provvidenza" cristiana se la vogliamo intelligente e direzionata ma incomprensibile) o che si può tentare di ricondurre a leggi di movimento (il materialismo storico marxiano). 


I. Calvino, I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza, in Una pietra sopra, ora in Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1991.

L. Sciascia, Goethe e Manzoni, in Cruciverba, ora in Opere. 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2001.

Tuesday, 9 September 2025

Genova per noi…


Genova per noi…

Genova per noi che veniam... da un paradiso ovattato da una profusione di soldi (ora finito e forse non tra molto in progressiva seria difficoltà) è un bagno di realtà. Città solo in parte gentrificata vede ancora vivere uno accanto all’altro il ricco e il povero, il locale e l’immigrato, ecc. Colori, odori, un mondo in parte ancora deandreiano dà l’immagine di una realtà viva in tutte le sue contraddizioni. Bell
a e drammatica…
Spinto dalla curiosità compro un libro dal significativo titolo “Storia dei genovesi”. L’autore sa di che cosa parla, ma non sa che cosa significa storia e società e scrive un libro come non va scritto, se non cadendo nei luoghi comuni identitari (quelli che poi sfociano nel fascistoide).
Chi sono i “genovesi”, o i “senesi” o gli italiani e via dicendo? In base alla narrazione sostanzialmente evenemenziale, e solo rapsodicamente sostanziale, della vicenda si direbbe che sono le classi dirigenti.
È il tipo di identificazione che nasconde l’egemonia di siffatte classi che, grazie a tale etichettatura generale, riescono a coinvolgere i subalterni come se fossero accessori rispetto al ruolo e la funzione di leadership che esse hanno avuto.


Ovviamente in un certo senso è vero che tutti gli individui che hanno partecipato a quelle vicende storiche sono “genovesi”, ovvero tutti i membri di quel *sistema sociale* sono stati momenti di un processo in cui esistono ruoli e funzioni specifiche di cui le classi dirigenti hanno il ruolo apicale. Questi ruoli sono però ben diversi e conflittuali, non solo a livello infraclassista (questo lo considera anche il nostro autore) ma interclassista.
Ecco il meccanismo egemonico: nel sovrapporre genovesi e classi dirigenti di quel sistema genovese si crea un’egemonia e un’identificazione di tutti (subalterni inclusi) nella politica di chi quei processi ha gestito da posizione dominante.


È in sostanza il meccanismo fondamentale del nazionalismo, dell’identitarismo astratto per cui i contraddittori processi storici vengono ridotti a una matrice comune (non processuale ma “data”) il cui vero soggetto sono le classi dirigenti. Tifiamo così per la locale squadra di calcio, per la contrada, per la nazione, ecc., per la nostra *casa comune* in cui le classi dirigenti ci apparecchiano una giocosa subalternità. Anche nei libri di storia fatti male (o fatti ad hoc).

Monday, 1 September 2025

Misteri delle fede?

Misteri delle fede?


Non è un mistico mistero il perché qualunque partito salga al governo non potrà non essere a Stelle e strisce: l’Italia non è semplicemente un paese vassallo, è un paese militarmente semi-occupato. Circa 120 basi NATO fanno della penisola un elemento chiave nella logistica politica e militare del padrone.
Il giochino del paese libero rispetto al dispotico comunismo non esiste più e la barzelletta dei paesi liberi e democratici contro la autocrazie ormai fa ridere anche chi finge di sostenerla.
Oltre a quella militare, c’è la questione finanziaria. Per quanto in misura ridotta rispetto a venti anni fa, il paese dipende per circa un quarto del proprio debito pubblico da finanziatori stranieri. È poco rispetto ad altri paesi europei, ma è comunque molto, abbastanza per avere le mani legate rispetto agli “investitori finanziari” che mirano a fare soldi ma che hanno anche un evidente orientamento geopolitico (se poi la BCE abbandona il quantitative easing, le cose rischiano di peggiorare rapidamente).
La risposta sovranista è impossibile nell’economia integrata mondiale. L’unica alternativa – in verità solo teorica - sarebbe cambiare alleanze geopolitiche, ma questo non sarà mai permesso (sarebbe tra l’altro un cattivo esempio da punire moooolto severamente). Non resta, “patriotticamente”, che andare con il cappello in mano a pietire trattamenti di favore… e dire signor sì anche di fronte alle peggiori nefandezze sponsorizzate a stelle e strisce, G4z4 docet.
Il capitalismo crepuscolare è violenza senza egemonia. Potrà durare?

Archeologia politica - Lo stato d'eccezione

Archeologia politica - Lo stato d'eccezione



Nelle Catilinarie, Cicerone teorizza esplicitamente lo Stato di eccezione.
Pretende di considerare giuridicamente legittima la repressione politica diretta in deroga alla legge vigente - la cui applicazione rigorosa teme evidentemente, come traspare dalle sue orazioni -, fino all'assassinio, saltando le tutele legali esistenti.
Ciò in virtù della condizione di "latrones", ovvero di sovversivi (terroristi!), attribuita a Catilina e accoliti che li priverebbe dello status di cittadini, trasformandoli in individui non soggetti - e dunque nemmeno tutelati - dalla legge.
Cicerone cerca di legittimarsi affermando che era una pratica politica consolidata: cita i Gracchi, Saturnino e tutti coloro che avevano proposto leggi agrarie e variamente "popolari" e che furono "giustamente" assassinati anche da semplici privati cittadini.
I tortelli reazionari che teorizzano l'uso esplicito della violenza contro i subalterni come arma legittima in deroga alle stesse leggi che in condizioni normali permettono loro di mantenere il potere non sono un'invenzione dei tempi moderni...

Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi?

  Risorgimento come problema storico-politico. "Noi" chi? Dopo la visita a Genova al museo del Risorgimento e quella recente alla ...